Mensa della Parola: Dn 7,13-14; Sal 93/92, 1ab.1c-2.5; Ap 1,5-8; Gv 18,33-37
La liturgia dedica a «Cristo Re dell’universo» questa domenica e si conclude l’anno liturgico. Siamo alla fine, dunque, ma siamo anche all’inizio: un anno si chiude e un altro comincia e forse dovremmo riflettere sul senso del tempo come dimensione dell’anima, incarnazione dell’eternità. Per i Greci il tempo è una tragedia, perché scandisce il ritmo del fato che è una prigione da cui nessuno può scampare. Per l’uomo biblico, il tempo è «un evento», perché segna e rivela l’irruzione imprevista e imprevedibile di Dio nella storia d’Israele che così comincia a misurare il suo tempo con il metro dell’eternità. Per la Bibbia, infatti, il tempo non è più uno scorrere inesorabile, ma un andare in alto mentre si va avanti.
Sant’Agostino si domanda: «Che cosa dunque è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più», perché il tempo è una dimensione dello spirito, un processo che deve allo stesso tempo coordinare e armonizzare il mondo finito e il mondo eterno che coesistono nel cuore umano. Finitezza ed eternità non convivono l’una accanto all’altra, ma coesistono in una simbiosi di unità. Solo Gesù vive questa dimensione in modo perfetto: si dice, infatti, che la sua esistenza è «singolare» in quanto in lui l’umano e il senso del divino coincidono. Non così in noi, ma in modo simile condividiamo i due versanti della vita: viviamo la finitezza che accade nel succedersi degli eventi e nel limite dell’esperienza e allo stesso tempo sperimentiamo la stabilità dell’eternità di cui nutriamo un desiderio infinito: «Per te ci hai fatti e il nostro cuore è inquieto finché in te non trovi pace».
La fine di un ciclo liturgico ci introduce in questa dimensione e ci impone una riflessione, quasi un esame di coscienza, una valutazione di senso. Cosa è stato quest’anno per noi, come singoli e come comunità eucaristica? Abbiamo lasciato che il Signore si avvicinasse di più e partecipasse alla nostra vita, alle nostre scelte? Ci siamo “lasciati vivere” dalla rassegnazione senza speranza oppure abbiamo vissuto consapevoli che la nostra vita è abitata dallo Spirito Santo? Abbiamo fatto un po’ più di amicizia con noi stessi o siamo rimasti come prima, delusi e non soddisfatti di noi stessi? A che punto è la stima che abbiamo per noi, se Dio ci ha concesso un anno ancora per mettere a fuoco l’immagine che noi siamo di lui? Dio ci ama di un amore singolare e personale perché noi lo rendiamo visibile e partecipato. Questo è il senso del tempo.
Nota culturale
Per i Greci il tempo è una condanna, raffigurata dal simbolo del cerchio [Ο] che esprime l’eterno ritorno delle cose, sempre uguali e sempre nelle mani del fato il quale, inesorabile, decide la sorte di ciascuno. Non serve impegnarsi e scegliere, perché il destino ci ha segnati fin dal principio. Il tempo è rassegnazione; bisogna lenirne le ferite assecondandolo e divertendosi. L’uomo greco non ha prospettive, perché gli dèi non sono da meno degli esseri umani e anch’essi sono soggetti al fato: provano a cambiarlo riuscendovi raramente. Gli dèi greci sono la proiezione esasperata dell’incapacità umana. Il tempo è una condanna.
Per i Romani il tempo è un compito e si raffigura nel segno di un vettore (→) che procede sempre in avanti come le legioni romane alla conquista del mondo. Il tempo è la testimonianza della potenza romana che avanza e domina. Pur ammettendo che c’è un destino, il pensiero romano vede la storia come conquista della volontà e il tempo come dimensione dell’uomo «responsabile del proprio futuro». Se per i Greci tutto dipendeva dagli dèi capricciosi, per i Romani tutto dipendeva dalla propria capacità di imporsi. Il tempo romano è una mèta senza fine che bisogna costruire per raggiungere. Per gli ebrei e i cristiani il tempo è un movimento di qualità, raffigurato da una spirale che rappresenta da una parte un perenne ritorno come ripresa del punto precedente, ma dall’altra come una prospettiva sempre più alta e sempre più avanti. Il tempo ebraico-cristiano recupera il passato, ma lo proietta sul futuro. È la sintesi perfetta del tempo greco e di quello romano; per la rivelazione cristiana è caratterizzato dal «kairòs – [occasione favorevole/propizia]» cioè dall’evento di qualità che segna una svolta e un progresso nel divenire umano.
Questa concezione ebraico-cristiana del tempo si traduce in un nuovo concetto, che si esprime con un nuovo linguaggio perché riproduce la sacramentalità del «memoriale»; questo non è il ricordo puro e semplice del passato, quasi con rimpianto, ma è la «memoria» di ciò che si ricorda, in quanto fa rivivere in modo nuovo gli eventi passati, richiamandoli e quasi «sperimentandoli» affettivamente e storicamente. Il ricordo accade nel momento in cui il passato si ripete (zikkaròn). Nel vivere «oggi» questo evento, in modo sperimentale, ma anche nuovo, si prende atto che la vita è cambiata e che la benedizione di Dio è grande. «Memoriale – zikkaròn» è essere oggi quello che si è stati ieri, ma con una novità in più, una ricchezza o una povertà in più. Il tempo è la coscienza di ciò che avviene, è la conoscenza di ciò che accade e che si sperimenta. L’ebreo partecipa al mondo di Dio attraverso la lode, il sacrificio e la comunione di vita, vedendosi proiettato in un avvenire di speranza e di prosperità. Il tempo è la Shekinàh di Dio che dimora tra noi e la coscienza di appartenere a Dio.
Per i cristiani che assumono in pieno il senso ebraico del tempo, c’è un fatto nuovo e imprevisto: il tempo è il «luogo» della presenza del Lògos eterno, che semina il germe della divinità nella fragilità umana (Pr 8,22-31; Sir 24,1-22; Gv 1,1-18), e anche il punto di partenza della risurrezione di Gesù. Nell’«ora» del «mistero pasquale» il tempo diventa eterno e l’eternità diventa temporale. Celebrare l’Eucaristia quindi non significa solo compiere un rito, ma spalancare le porte della finitezza all’onnipotenza di Dio e anticipare «qui e ora» quella dimensione del Regno di Dio di cui siamo parte e a cui, allo stesso tempo, aspiriamo. La solennità di Cristo, Re dell’universo, è prendere coscienza che tutto ciò sta accadendo mentre lo celebriamo e lo viviamo, per grazia e potenza dello Spirito Santo.
Esame di coscienza
La fine di un anno liturgico è anche l’inizio del nuovo ciclo. Nel momento in cui termina qualcosa, nulla finisce e tutto riparte di nuovo con una novità: un anno in più di esperienza di Spirito Santo. Nessuno parte mai da zero, ma tutti siamo l’anello di un processo che va verso il compimento. È questo il senso sereno della speranza cristiana che ci invita a fare un esame di coscienza senza angoscia e senza recriminazioni. Prendiamo atto di ciò che quest’anno è stato e regaliamolo al Signore, invocando lo Spirito per avere più luce e più forza nel prossimo anno. Invochiamo il Nome santo di Dio su ogni individuo, uomo e donna, bambini e anziani, senza escludere alcuno. Esaminare la propria coscienza significa non perdere mai il contatto con se stessi e con la dimensione umana delle nostre relazioni. Stare davanti a Dio significa «sapere» che Dio è davanti a noi come «colui che salva» (= Gesù). Ci lasciamo quindi pervadere dalla dolcezza dell’abbandono che l’amore sa sperimentare.
Signore Gesù Cristo, tu hai detto che il tuo Regno non è di questo mondo. Kyrie, elèison.
Cristo Gesù, sei Creatore e Redentore del mondo e della storia. Christe, elèison.
Signore che chiami uomini e donne a collaborare alla tua salvezza. Kyrie, elèison.
Cristo Gesù che non fai concorrenza ai potenti del mondo. Christe, elèison.
Signore, tu sei il Re che si fa servo per lavare i piedi dei suoi figli e figlie. Kyrie, elèison.
Dio, Signore dell’universo, che ci hai voluto dare nel tuo Figlio Gesù il modello di ogni autorità quando si è presentato come colui che serve a tavola, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati, specialmente quelli di omissione, e ci renda degni di varcare la soglia del suo regno. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.
Spunti per la riflessione e la Preghiera
La chiesa ci invita a riflettere sulla realtà del regno di Dio o meglio sulla regalità di Gesù. Per capire il vangelo di oggi è necessario riflettere sui molteplici contesti in cui questa Parola viene proclamata. Il tema di «Cristo Re», oggi, è un po’ fuori moda perché estraneo all’orizzonte della nostra cultura che vive in un contesto di democrazia: anche i molti re e regine che esistono ancora sono solo poco più che simbolici perché esercitano la loro funzione in monarchie parlamentari, con l’unico vantaggio di essere re e regine mantenuti gratis dai rispettivi popoli, i quali pare siano felici di pagare più tasse per permettere a uno stuolo di fannulloni di vivere sulle proprie spalle. È la logica e lo stile del mondo. Il brano del vangelo è tratto dal complesso dei capitoli di Gv 18-19 cioè dal racconto della passione, del processo e di quegli eventi che culmineranno nella morte regale di Cristo perché per Gv la morte di Gesù coincide con la sua «ora», che è l’ora della «glorificazione» e quindi della rivelazione al mondo, come su un nuovo monte Sinai (Gv 19,30). Gli Ebrei, fin dal monte Sinai con il contratto di alleanza, avevano accettato la regalità di Dio su di loro codificata nella Toràh. Questa regalità era esercitata per delega: da Mosè, nel deserto, dai Giudici dopo l’insediamento in Palestina, dai re d’Israele in epoca sedentaria, ma nessuno ha mai messo in discussione la supremazia di Dio su Israele che si considera «proprietà» del Signore (Es 19,5; Gl 4,2).
Avviene un fatto nuovo. Alla domanda di Pilato se deve crocifiggere «il vostro re», i Giudei rispondono: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). È il momento drammatico: Israele rinnega l’alleanza del Sinai, abdica dalla regalità di Dio e cessa di essere la «proprietà» che Dio aveva trapiantato dall’Egitto (Sal 80/79,9). I capi religiosi d’Israele imitano i loro antenati che undici secoli prima avevano abiurato allo stesso modo il Dio dei loro padri, chiedendo un re al «Giudice/profeta» Samuele: «Stabilisci per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli» (1Sam 8,15). Adeguarsi al costume del mondo fu l’aspirazione degli antenati, i cui discendenti, rinnegando il Dio dell’alleanza, riconoscono come loro re e signore il «Cesare» di Roma che li opprime e impoverisce. Affermando la propria regalità davanti al rappresentante di Cesare, Gesù prende le distanze sia da Cesare stesso, sia dai suoi contemporanei, colpevoli di apostasìa, sia dagli antenati, di cui non vuole essere figlio. Egli afferma la «signoria di Dio» contro ogni forma di idolatria del potere. Israele non ha più Dio come re, avendo scelto come proprio sovrano l’imperatore romano, l’oppressore che si fa anche onorare come divinità. È la piena e totale apostasìa che si consuma nell’idolatria. I capi degli Ebrei accusano Gesù di usurpare il titolo regale che spetta al loro «dio» che è Cesare, e infatti si aspettano che il procuratore Pilato difenda i diritti dell’imperatore (Lc 23,2) e condanni Gesù per lesa maestà.
Pilato fa le sue indagini e interroga Gesù, che rimane «muto», diventando l’icona visibile del Servo di Yahwèh che restò «muto» davanti ai carnefici (Is 53,7). In Gv Gesù risponde svelando ancora una volta il disegno di Dio e il vero senso della sua «regalità». Capisce che la domanda del procuratore romano viene dai Giudei e a essi risponde con chiarezza distinguendo: il mondo del potere e il mondo della grazia; «il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), che è una costante del IV vangelo (Gv 8,23; 17,14).
Pilato non capisce né può capire perché non crede e senza fede non può comprendere la differenza tra «cielo e terra». Egli pertanto prende una parte della risposta di Gesù e indaga se la sua affermazione di essere re possa insidiare il potere romano e quindi il suo posto: «Dunque tu sei re?» (Gv 18,37). Gesù, usando gli schemi del suo tempo, si serve del simbolismo del re, ma tiene a precisare che il suo regno non è di questo mondo (Gv 18,36): esso si estende a tutti i regni della terra perché è universale, ma non s’identifica con alcuno perché non è nazionale o, ancora peggio, nazionalista. Ogni volta che la folla vuole farlo re, Gesù fugge (Gv 6,15) perché per lui «essere re» significa essere l’unico, «il servo» che regala sua propria vita, mettendola a disposizione dell’alleanza nuova con il creato e con tutta l’umanità.
Gesù è re, non al modo di Cesare, ma al modo di Davide che conduce le pecore ai pascoli erbosi, le protegge nelle valli tenebrose, le cura con amore (Salmo 23/22). Egli è re perché obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,8), si carica dei pesi dell’umanità e ne fa la sua corona regale simbolo del suo regno di misericordia: egli è re perché perdona e muore al posto dei condannati (Lc 23,34).
Nota storico-teologica.
Per i gruppi «tradizionalisti» l’ultimo concilio ecumenico della Chiesa cattolica, il Vaticano II, fu una sciagura. Delle sue riforme, infatti, nulla accettano, ritenendolo eretico fino al punto di accusare espressamente di eresia il Papa Paolo VI, e di Papa Giovanni XXIII, l’ideatore determinato e convinto. È il destino dei profeti! Chi è fedele al vangelo, come lo fu Papa Giovanni che visse sempre con gli occhi e il cuore fissi sul volto del Signore con abbandono totale, è pazzo. Nessuna paura, però, perché egli si trova in buona compagnia giacché, quando cominciò a predicare in pubblico, anche Gesù fu considerato «pazzo» dalla famiglia che corse a prenderlo per farlo ricoverare in manicomio: «I suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: “È fuori di sé”» (Mc 3,21). Giovanni XXIII, fissi gli occhi sul «regno di Cristo», interrogando la storia e gli eventi, aprì le finestre, permettendo al sole d’illuminare la Chiesa seduta sul suo passato, illusa che l’uniformità fosse unità. Allo stesso tempo ha permesso allo Spirito di arieggiare gli ambienti, dando la possibilità di ricominciare a vivere senza paura di andare nel mondo in nome di Cristo perché il mondo non è il nemico, ma il «luogo» della presenza di Dio, il vasto campo dell’azione dello Spirito. È il clericalismo, che è l’ateismo della fede, pertanto il peggior male che possa contagiare la Chiesa, perché esprime la voluttà di gestire il mondo e la società mediante «un braccio secolare», facendo accordi e alleanze per estendere ovunque il concetto di «cristianità» come dominio del mondo, sottomesso all’autorità ecclesiastica, tutto condito nel segno della «regalità divina». Costoro dimenticano la parola del profeta che ammoniva Israele a non fare alleanze spurie e a non confidare in strumenti effimeri come cavalli e cavalieri, politica e partiti, benefattori/padroni.
Non possiamo scandalizzarci dei fondamentalisti islamici che uccidono senza pietà, sgozzando persone in nome di un Dio che non esiste, ma che hanno inventato a tutela del loro perverso potere di morte che si nutre di terrore. Essi disprezzano il loro stesso passato perché sono immersi nel «loro mondo» presente, ma fuori dalla storia e da ogni spiritualità: distruggono opere d’arte, testimonianze millenarie del cammino dell’umanità e ricchezza del loro popolo. Usano Dio per spersonalizzare ogni individuo che si affilia loro, rapinando denaro e proprietà, distruggendo famiglie fino al punto da impedire le normali, naturali e divine relazioni affettive tra genitori e figli, in nome di una consacrazione a Dio che è solo nella loro immaginazione. Il «regno di Dio» infatti non è un luogo o un modo di governare, ma un nuovo orizzonte di relazione tra le persone per annunciare la gratuità del vangelo e la tenerezza di Dio per ciascuno e per tutta l’umanità. Il profeta Àmos ne è testimone. In questi ambienti si usa l’ideologia di Cristo-Re, interpretato al modo pagano, e si tralascia il Cristo-Pastore che contesta sulla terra ogni potere politico o religioso per affermare la primazia della persona e della coscienza, espressione suprema della Presenza/Shekinàh di Dio.
Nota storico-liturgico-politica
La festa di «Cristo, Re dell’universo» fu istituita nel 1925 da Pio XI, per porre la Chiesa al riparo da due pericoli«millenaristici», ambedue temporali e pericolosi: da una parte il laicismo, incarnato in quella che di lì a poco sarebbero stati il nazismo e il fascismo e dall’altra il clericalismo che, dentro la Chiesa, minava le basi della spiritualità evangelica. La festa non ebbe effetto «pratico» perché nel cuore dell’Europa si cominciava a porre le basi per proseguire la prima guerra mondiale, dando corpo a una nuova tragedia ancora più micidiale che avrebbe lasciato sul campo un cimitero senza fine: non meno di cinquanta milioni di morti, dieci milioni circa di deportati nei campi di concentramento con il progetto di eliminare dalla faccia della terra il popolo ebraico, il popolo del Signore Gesù. Negli anni venti del sec. XIX, il contesto storico si aggrovigliò intrecciando date ed eventi: nel 1918 in Russia cominciò a diffondersi il leninismo, foriero di inumane tragedie che dureranno 70 anni; nel 1919 nacquero i partiti comunisti cinese e italiano e Mussolini organizzò il partito fascista come strumento unico dello Stato autoritario; nel 1920 nacque anche il partito nazista che fin dalla sua prima manifestazione pubblica si prospettò come «totalizzante» contro Dio; in Italia si rafforzò il fascismo, a cui aderì per convinzione e in funzione anticomunista parte rilevante del clero e dei religiosi come anche la stragrande maggioranza del popolo.
Dichiarando «Cristo Re» non solo dell’umanità, ma dell’universo, il Papa, da profeta, volle ridimensionare la superbia umana che pretendeva di governare il mondo con la sopraffazione e la dittatura, relativizzando il potere che il nazifascismo voleva invece sacralizzare con l’intento di creare una «nuova religione» civile, succube del partito nazifascista. La regalità di Cristo, che non è di questo mondo, doveva essere la migliore garanzia che ogni potere si dovesse collocare sul versante del servizio al bene comune della collettività e mai in funzione di un partito o di un governo. Sul versante interno della stessa Chiesa, il Papa reagì contro il clericalismo che andò sempre più rafforzandosi dal 1870, dopo la dichiarazione del concilio Vaticano I sulla «infallibilità del Papa», male interpretata sia nella pastorale sia in teologia, crescendo come una mala pianta e sostituendosi alla stessa Chiesa. Dentro la Chiesa, esso era il corrispettivo del laicismo, perché non aveva a cuore il vangelo e la fede, ma la gestione del dominio con alleanze con qualsiasi potere, compreso il fascismo, per tentare di realizzare la «socìetas christiana.
Come spesso accade, dentro la Chiesa, pochi percepirono queste intenzioni del Papa, così ognuno interpretò la nuova festa secondo la propria ideologia e preoccupazione. La maggioranza del clero e dei cattolici la colsero come un ulteriore strumento per difendere il regno di Dio, identificato con il potere che la Chiesa terrena «deve» sempre esercitare sui regni «amici» della terra, contro ogni forma di modernità. Il terrore del comunismo, che la propaganda intensificò con ogni strumento come lotta senza quartiere, fece smarrire ogni criterio di discernimento, per cui essere cattolici significò essere «anticomunisti» senza alcuna distinzione. Al contrario chi provava a distinguere e tentava di discernere, era segnato come nemico e condannato senza appello. Da parte sua il Papa affermando la regalità di «Cristo», la collocava sul versante della spiritualità e quindi «non di questo mondo», mentre i clericali rispondevano armando le falangi religiose per estendere il potere di Cristo, cioè il loro potere, su ogni versante della vita pubblica, fino a diventare fascisti e complici del nazismo. A costoro sfuggì del tutto che «Cristo-Re» esercita la sua regalità sul mistero della croce e della sofferenza del Figlio dell’Uomo: il «Re-Pastore» offre la vita per le sue pecore (Gv 10,11.15), perché nulla vada perduto tra quanti Dio ha creato e redento (Gv 6,39;17,12).
All’interno del mondo cattolico, nel frattempo, vi era la porzione di Chiesa che, di fronte alle sfide della modernità, sognava un aggiornamento profondo della Chiesa sul piano «ecumenico» e teologico. Essa giudicò l’istituzione della festa di Cristo-Re un ostacolo alla riconciliazione con il mondo moderno e un impedimento sul cammino dell’ecumenismo, specialmente sul versante della Riforma Protestante. A distanza di anni dal 1925, accogliendo in parte le istanze di rinnovamento del popolo di Dio, fu il concilio ecumenico Vaticano II a promulgare la costituzione «Gaudium et Spes», in cui affermò con forza che la creazione e le realtà terrestri hanno uno statuto di autonomia insito nella natura stessa della realtà. Il concilio riportò la formula e il contenuto dell’espressione «regno di Dio» al suo senso genuinamente biblico, di cui il vangelo di oggi offre un saggio. La Chiesa «di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio». Alla luce della dottrina conciliare, la festa di Cristo-Re non è più anacronistica, ma riportata al suo senso originale, può avere un forte messaggio per la modernità e la Chiesa che come corpo di Cristo «è nel mondo», ma «non è del mondo» (Gv 17,11.13).
L’Eucaristia è lo spazio di questa «regalità» donata che lo Spirito Santo ci fa comprendere e sperimentare: i nuovi segni della regalità di Dio sono il pane spezzato per nutrire i peccatori e il vino versato come ristoro per coloro i quali erano persi e che sono riportati in vita. Cristo è Re solo perché è Servo.
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