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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 33ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Dn 12,1-3; Sal 16/15,5-8. 9-10; 11Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32

 

La domenica 33a del tempo ordinario-B è, di fatto, l’ultima domenica di questo ciclo. Oggi la liturgia ha un andamento apocalittico, ci proietta cioè verso la conclusione della storia, come se volesse farci assaporare un anticipo della fine per prepararci a quella che spesso la letteratura giudaica prima e cristiana dopo, presentano come la battaglia finale tra il bene e il male, o come si diceva al tempo di Gesù «tra i figli della luce» e «i figli delle tenebre» (1Ts 5,5; Ef 5,8; Gv 12,36; Lc 16,8). Una conferma si ha dai documenti di Qumràn, la cui comunità, intorno alla metà del sec. I a.C., si ritirò nel deserto di Giuda, vicino al Mar Morto, creando un gruppo di «eletti e puri» che si opponevano alla liturgia del tempio, considerato ormai contaminato da uomini e sacerdoti impuri, come Alessandro Janneo. La comunità di Qumràn assunse la visione escatologica come dimensione della propria vocazione, che animò e sviluppò attraverso la letteratura apocalittica, tesa a formare un esercito addestrato per la battaglia finale, escatologica, tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, cui dedica un importante documento, giuntoci quasi integro291. Gesù nasce, cresce e si forma in questo ambiente e assorbe questa cultura, di cui la sua predicazione è intrisa, come vediamo nei vangeli.

Nota di teologia biblica

Escatologia è parola greca composta da «èschata–cose ultime/finali/estreme» e «lògos–parola/studio/ discorso/spiegazione». È la dottrina che si occupa della fine della storia e quindi del destino ultimo dell’uomo. Nell’AT è contenuta in modo particolare nei libri profetici di Daniele, Isaia, Ezechiele, Zaccaria, autori che leggendo il loro presente si proiettano nel futuro, descrivendo un tempo messianico di ricchezza e di pace per il popolo di Israele e un «giorno di Yahwèh» che sarà di giudizio o di salvezza (Mt 25,31-46). All’interno di questa dottrina, verso la metà del sec. I a. C e fino al 70 d.C., si sviluppa la corrente letteraria, detta Apocalittica, parola greca composta dalla preposizione «apò–sotto» e «kalýptō–nascondo», con il significato di «rivelazione/manifestazione delle cose nascoste». Questa corrente interpreta l’escatologia come lotta, battaglia, deflagrazione universale della natura, prendendo in prestito il linguaggio cosmico delle «teofanìe» dell’AT, dove Dio si manifesta tra lampi, tuoni, terremoti. Queste descrizioni non devono essere prese alla lettera, ma bisogna considerare il genere letterario proprio apocalittico con un suo vocabolario criptato che occorre decodificare proprio perché si tratta di un codice di decifrazione. La comunità di Qumràn aveva assunto la prospettiva apocalittica come dimensione identitaria della propria esistenza, espressa negli scritti come il «Rotolo della Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre». La comunità essena, infatti, era nata nel secolo I a.C., separandosi dal culto del tempio, che considerava ormai corrotto e irrecuperabile, e per prepararsi allo scontro finale. L’escatologia afferma che la storia finirà, l’apocalittica dice come finirà. Qumràn nasce e si sviluppa dentro questa teologia, perché si considera l’ultima comunità dei puri, che Dio prepara nel deserto per la battaglia finale.

Al tempo di Gesù, l’attesa del Messia coincideva con la certezza della fine del mondo, dando vita a «battaglie» escatologiche sfrenate tra angeli e demoni, tra «figli della luce e figli delle tenebre». Per i primi cristiani, per altro provenienti dall’ebraismo, l’apocalittica è un forte e traumatico richiamo alla conversione e quindi è parte integrante della fede cristiana. La morte e la risurrezione di Cristo, infatti, introducono un cambiamento radicale in questa prospettiva, perché ora tutto l’AT è reinterpretato alla luce dell’evento pasquale di Gesù, che per i suoi seguaci è il Messia, non più atteso. Al contrario, Gesù è il Messia non solo d’Israele, ma dell’umanità intera. Egli con la sua morte e risurrezione compie «già» l’escatologia e risolve l’angoscia dell’apocalittica. Il tempo che viviamo tra la risurrezione di Cristo e la fine del mondo è definito «penultimi tempi», in quanto precedono appunto gli «ultimi tempi» della seconda venuta di Cristo che concluderà la storia. Non si attende più la fine come dramma, ma il compimento come pienezza. Paolo nelle lettere ai Tessalonicesi deve lottare per far superare questa concezione della storia e convincere che la novità di Cristo non è la «fine», ma «un modo nuovo» di vivere il tempo e la storia. Il tempo che viviamo tra la risurrezione di Cristo e la fine del mondo è definito «penultimi tempi» in quanto precedono gli «ultimi tempi» della seconda venuta di Cristo per concludere la storia che adesso respira e si compie tra un «già» e un «non ancora».

La 1a lettura rientra a pieno diritto in questa prospettiva e ne offre alcuni titoli: Michele, l’angelo che custodisce il popolo d’Israele, l’angoscia della creazione e la contrapposizione delle «due» vite eterne: la beatificazione e la vergogna. Contenuti e linguaggio sono ripresi dal vangelo che partendo da una lettura della situazione contemporanea proietta a livello cosmico, e con parole drammatiche, il solenne ingresso nel mondo del misterioso Figlio dell’uomo di Daniele che viene a compiere il giudizio. Anche un’immagine gioiosa come la fioritura del fico, che nella natura segna il passaggio dall’inverno alla primavera e nell’AT è simbolo di benedizione e prosperità (Gl 2,22), in questo contesto apocalittico, acquista il valore e il senso di un segno premonitore della catastrofe finale. Il fico infruttifero è segno di sventura, il fico che porta frutti maturi è segno di benedizione. Noi ci disponiamo a celebrare l’Eucaristia che è il crinale tra la storia che viviamo e la fine di essa: apparteniamo alla terra e siamo proiettati verso l’escatologia, verso la pienezza della fine. In questo viaggio che è il senso della nostra vita, abbiamo una guida: lo Spirito del Signore Risorto.

Esame di coscienza

Se ci guardiamo attorno e dentro noi stessi, prendiamo atto di un’agitazione permanente: il mondo si agita e conclude poco, i potenti si agitano e fanno quasi sempre guai maggiori, gli uomini di chiesa provano ad imporre una visione di chiesa anacronistica e non si accorgono di essere ai margini della storia che corre verso «il fine». Dobbiamo educarci a vedere la vita e la storia dal punto di vista della fine cioè della prospettiva dell’escatologia, saremo più sereni nel vivere e nell’affrontare le difficoltà. Tutto si ridimensiona, tutto acquista un senso proporzionato e nulla di ciò che oggi è superfluo verrà vissuto e usato come definitivo e necessario. Mentre gli uomini e i popoli si affannano, Dio conduce la Storia verso il suo pieno compimento: siamone protagonisti attivi nel mondo in cui viviamo e sul quale invochiamo la santa Trinità. La storia ha le sue leggi di sviluppo e compie il suo cammino. Noi abbiamo il dovere di conoscerle, viverle, e trasformarle nella prospettiva che nulla di ciò che esiste è definitivo, ma tutto è provvisorio. Se vogliamo vivere liberi e liberanti dobbiamo lasciarci abitare dal perdono di Dio che è la roccia su cui poggia la forza del mondo e la profezia della Chiesa. Essere perdonati vuol dire prendere coscienza di essere amati oltre ogni limite. Con questi sentimenti esaminiamo la nostra coscienza che non ci inganna mai.

Signore Gesù Cristo, abbi pietà di noi, peccatori. Signore, ti preghiamo. Kyrie, elèison.

Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore. Gesù, noi t’invochiamo. Christe, elèison.

Signore che ascolti chi invoca il tuo Nome. Santo Nome, ascoltaci. Kyrie, elèison.

Signore, figlio di Davide, abbi pietà di noi. Gesù Messia, soccorrici. Christe, elèison.

Cristo, luce del mondo donaci la vista del cuore. Gesù, figlio di Maria. Kyrie, elèison.

Signore, nel tuo Nome liberaci dal male. Kyrie, elèison. Christe, elèison. Christe, elèison.

Dio santo, Signore della Storia e del tempo, che liberandoci da ogni assillo e preoccupazione, ci ridona la speranza del cammino verso la pienezza della vita, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti per la riflessione e la preghiera

Per capire il senso del vangelo e il suo genere apocalittico, bisogna rifarsi al contesto storico in cui le idee e i testi conseguenti sono nati e si sono sviluppati. Al di fuori, infatti, degli avvenimenti che li generano, questi testi diventano assurdi e senza senso. Senza il loro contesto storico-culturale, alimentano il fondamentalismo religioso. Ogni documento orale o scritto nasce come opera per i contemporanei e solo dopo diventa testimonianza del passato per le generazioni future. Profezie, annunci e apocalissi sono scritti che parlano agli uditori contemporanei dell’autore, ma può capitare che il suo insegnamento superi la dimensione dell’attualità per situarsi in una prospettiva più ampia aperta al futuro.

Nota storica

Nella primavera del 40 d.C., a Jamnìa i Giudei avevano distrutto un’ara costruita in onore dell’imperatore romano Caligola (12 – 41 d.C.), considerandola una profanazione della terra santa d’Israele. Caligola, ferito nell’orgoglio e volendo umiliare i Giudei ordinò al suo legato in Siria, Publio Petronio (anni 39-42), di erigergli una statua d’oro, ma non più in una cittadina di periferia, bensì nel cuore stesso di Gerusalemme e di ogni Giudeo: all’interno del tempio, nel Santo dei Santi. Il legato Publio Petronio, ben consapevole delle conseguenze nefaste di questa folle decisione, senza disobbedire all’imperatore, temporeggiò, adducendo scuse di vario genere finché non sopraggiunse la notizia dell’assassinio dell’imperatore. Il sacrilegio per il momento fu scongiurato. Trent’anni dopo, il 6 agosto del 70 d.C., il generale Tito entrò a cavallo nel Santo dei Santi del tempio incendiato, profanandolo davanti agli occhi attoniti e atterriti dei Giudei che videro in quel sacrilegio l’inizio della fine del mondo. Da quel giorno cessarono i sacrifici e in Israele scomparve il sacerdozio. La tassa per il tempio dovuta dai Giudei fu mantenuta, ma venne trasferita al tempio di Giove sul Campidoglio di Roma. Tutto si capovolse: il tempio che era stato interdetto ai pagani, pena la morte immediata, ora era profanato dai pagani e proibito ai Giudei che da lontano potevano veder compiersi la profezia di Daniele: «Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella, aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno l’abominio devastante … Dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l’abominio devastante, passeranno milleduecentonovanta giorni» (Dn 11,31; 12,11).

Anche il vangelo si riferisce esplicitamente a questi fatti: 1 «Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. 2 Egli disse loro: “Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta” … 15 Quando, dunque, vedrete presente nel luogo santo l’abominio della devastazione, di cui parlò il profeta Danièle – chi legge, comprenda –, 16 allora quelli che sono in Giudèa fuggano sui monti, 17 chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere le cose di casa sua, 18 e chi si trova nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. 19 In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano! 20 Pregate che la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. 21 Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà (cf Dn 12,1). 22 E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe; ma, grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati. 23 Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui”, oppure: “È là”, non credeteci; 24 perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti (Dt 13,2-6). 25 Ecco, io ve l’ho predetto» (Mt 24,1-2; 15-23).

Gerusalemme non è più la Santa Città ma un «panno immondo» come aveva previsto il profeta, autore delle Lamentazioni: «1Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo! È divenuta come una vedova, la grande fra le nazioni; la signora tra le province è sottoposta a lavori forzati … 4 Le strade di Sìon sono in lutto, nessuno si reca più alle sue feste; tutte le sue porte sono deserte … 5 I suoi avversari sono suoi padroni, i suoi nemici prosperano … 6 Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore. I suoi capi sono diventati come cervi che non trovano pascolo; camminano senza forze davanti agli inseguitori» (Lm 1,1.4.5.6).

Lo storico Giuseppe Ricciotti conclude la sua Storia d’Israele con queste parole: «Da quel giorno [distruzione del tempio] i Giudei hanno avuto per città il mondo intero, e per Tempio il proprio cuore». Inizia, infatti, la diaspora definitiva del popolo d’Israele e il lungo processo di disprezzo e di emarginazione, che il Cristianesimo prima e il Cattolicesimo poi hanno alimentato e diffuso, contribuendo non poco alla degenerazione che culminerà nei forni crematori della Shoàh. Con l’interdetto agli Ebrei di entrare e dimorare in Gerusalemme, inizia anche la storia della speranza del popolo d’Israele: dovunque si trova, ovunque è disperso, l’Ebreo guarda verso Gerusalemme e ogni anno quando celebra la Pesàch/Pasqua sogna e si augura di celebrarla «l’anno prossimo» nel tempio ricostruito. Ancora oggi gli Ebrei terminano il rito della Pasqua annuale con l’augurio carico di nostalgia e di amore: «L’anno che viene a Gerusalemme».

Nella breve introduzione al vangelo odierno abbiamo detto che il brano appartiene alla cosiddetta «piccola apocalisse» e può essere debitrice a un documento preesistente giudaico, andato perduto, che descriveva in modo angoscioso la distruzione del tempio. Sicuramente il documento circolò tra i cristiani, i quali, in un primo tempo, pensarono che la morte e la risurrezione di Gesù fosse l’ultimo atto della storia e del mondo. Abbiamo molti esempi nel NT dell’attesa spasmodica della fine del mondo immediata, fino al punto che molti smisero di lavorare per prepararsi e l’apostolo Paolo deve porre un freno a questo atteggiamento diffondendo la regola: «Chi non vuole lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10).

I cristiani di Gerusalemme in questa prospettiva di apocalisse immediata, nella convinzione che il mondo stesse per finire di lì a poco, vendono i loro averi e proprietà dividendolo tra i poveri e diventando ben presto tutti poveri. Per ovviare all’indigenza che ben presto si diffuse a Gerusalemme, San Paolo organizza una colletta tra i cristiani di origine greca per venire in soccorso dei cristiani della Chiesa madre (Rm 15,26; 1Cor 16,1). Paolo dà molta importanza a questa colletta che organizza e coordina non come una semplice raccolta di denaro, ma come un segno sacramentale della comunione tra le chiese, anche perché erano «i pagani» che sovvenivano ai bisogni della Chiesa madre «giudea».

È ancora la logica dello «Shema‛ Israel» che domina: i cristiani condividono il Pane, la Parola, la fede e anche gli averi: amare con l’anima, con il cuore e con le forze, cioè con le sostanze, perché la condivisione è il segno della comunione della fede. Lentamente la chiesa primitiva cominciò a capire che la storia non sarebbe finita «subito», ma il Signore avrebbe concesso ancora un tempo supplementare per dare modo a tutti di trovare la strada del Regno di Dio (2Pt 3,8-10). Lentamente si prende coscienza che la distruzione di Gerusalemme non è la fine del mondo, ma la fine di un’epoca, di una religione, di un modo di percepire la divinità. Ciò che doveva accadere «adesso» viene trasferito «alla fine», mantenendo un linguaggio apocalittico. Questo trasferimento «più in là» gradualmente si trasforma in «teologia della storia», perché si comincia a vedere che il mondo vive senza il tempio, senza il culto, senza i sacrifici di animali. Tutto si spiritualizza e cessa la divisione tra «sacro» e «profano»: Dio veramente «opera tutto in tutti» (1Cor 12,6) e dal momento che «il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo» (Mc 15,38), nulla è estraneo a Dio perché il «luogo» dell’incontro tra l’umano e il divino è solo ed esclusivamente l’umanità del Figlio di Dio.

La fine del mondo è nascosta in Dio relativamente al tempo e alle modalità, «quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre» (Mc 13,32; Mt 24,36). La distruzione del tempio diventa un paradigma, un segno, un avviso che alla fine della storia tutto finirà, quando il Cristo riapparirà di nuovo fisicamente per il giudizio finale. È la parusia (sono presente/arrivo) che indica la venuta/avvento di Cristo. I credenti che vivono nel tempo invocano e si preparano a questo giorno con l’invocazione aramaica testimoniata da Paolo: «Maràna tha – O Signore, vieni» (1Cor 12,22). È evidente che con tutto quello che abbiamo detto finora abbiamo solo posto le basi minime per capire il vangelo di oggi, la cui spiegazione esige un tempo che lo spazio di un’omelia non ci consente, pertanto rimandiamo ad un’altra occasione. Oggi riteniamo il messaggio di fondo che il vangelo vuole darci: la Storia e gli avvenimenti non dipendono dai capricci degli uomini o del caso perché l’una e gli altri sono il luogo privilegiato in cui Dio parla a chi ha orecchi capaci di ascolto. Noi non abbiamo la disponibilità del futuro, che dipende da Dio, ma anche dalla nostra responsabilità che si concretizza nelle scelte e nelle non-scelte.

Chi si affida ad oroscopi, carte, tarocchi, sedute spiritiche, maghi, cianfrusaglie e ciarpame del genere non solo offende la dignità della ragione e l’intelligenza, ma nega la stessa esistenza di Dio come Provvidenza e come Creatore. La Storia ha un senso perché è la confluenza della Presenza di Dio e della libertà umana che si realizzano nella fatica, nella ricerca, nel confronto, nella pazienza e nella preghiera per illimpidirsi sempre più lo sguardo per vedere meglio e discernere con sapienza.

Noi sappiamo che tutto ha un termine e tutte le cose finiranno. Anche noi. Ciò non ci sconvolge perché sappiamo che arriveremo a quel traguardo camminando sui sentieri della nostra realizzazione alla costante ricerca della gioia e della felicità. Su questo cammino spesso troviamo ostacoli e inciampi: viviamo dolori, sofferenze, separazioni, lacerazioni, morti. Sperimentiamo la frattura di relazioni affettive, eppure viviamo sapendo che neppure la morte è in grado di spezzarle del tutto: le incrina, non le spezza. Camminiamo verso la nostra morte consapevoli che moriremo come abbiamo vissuto, per questo viviamo la vita con impegno e amando, perché la morte sarà la testimonianza finale del nostro essere noi stessi.

Certamente, accadrà! Dobbiamo prepararci, giorno dopo giorno e saremo pronti se ogni dì inviteremo «sorella morte» (San Francesco) alla mensa dell’esperienza di vita e la faremo sedere accanto a noi. Essa diventerà familiare e noi diventeremo amici suoi: quando giungerà il nostro momento, la nostra «apocalisse» personale, allora saremo pronti e canteremo con Simeone: «Ora, Signore, puoi lasciare che il tuo servo/serva vada in pace, secondo la tua parola» (Lc 2,29). Eppure, noi facciamo un’altra esperienza di «fine» che è la morte vera, quella senza speranza: la fine del mondo per ciascuno di noi accade ogni volta che non viviamo il comandamento dell’amore o lo tradiamo o lo inganniamo o lo mettiamo tra parentesi. Tutte le volte che noi non amiamo non solo siamo morti noi, ma muore il mondo intero.

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