Mensa della Parola: Ger 31,7-9; Sal 126/125,1-6; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52
Oggi partecipiamo all’ultima «guarigione» di Gesù, prima di entrare in Gerusalemme, dove faremo ancora alcuni incontri significativi prima di assistere allo «spettacolo» della sua Gloria con la morte e risurrezione. In una tradizione evangelica di diffuso anonimato, l’evangelista Mc è il solo tra i sinottici a tramandare il nome del cieco, Bartimèo, fatto veramente straordinario nei vangeli: Mt parla di due ciechi anonimi (Mt 20,29-34) e Lc di un solo cieco anonimo (Lc 18,35-43)134. Ciò ci induce a pensare che forse il fatto abbia suscitato scalpore, se quaranta/cinquanta anni dopo la morte di Gesù la comunità conservava ancora il nome del cieco. D’altra parte, l’anonimato assoluto, specialmente in Mt e Lc, è indizio che, a distanza di sessanta/settanta anni, hanno perduto il contesto originario che invece Mc conserva più vivo.
Nota esegetica
Il nome Bartimèo è composto da una parte aramaica «bar-figlio» e greca «timàios-onorabile», per cui si avrebbe «figlio di Timèo [l’onorabile]». In aramaico «bar» vuol dire «figlio», mentre in ebraico si dice «ben»). In Medio Oriente, al tempo di Gesù, i nomi indicavano la funzione sociale di parentela: anche Gesù è conosciuto come «figlio di Giuseppe – Yoshuà bar Yosèph» (Lc 3,23; 4,22) oppure «figlio del falegname – bar naggàr» (Mt 13,55) e in modo dispregiativo come «figlio di Maria – Yoshuà bar Myriàm» (Mc 6,3). Ancora oggi anche tra gli arabi una persona è individuata come «figlio di…» qualcuno, cioè del padre o, se orfano, della madre; oppure come «padre di…» un figlio. La madre addirittura perde la propria identità personale ed è chiamata solo col nome di «madre di…» Gesù, Samuèle, Mosè, ecc.
Connota bene l’uso semitico di indicare una persona in quanto «figlio di… [qualcuno]». Anche Gesù è individuato ora come «bar-Josèph – di Giuseppe» (Mt 13,55; Lc 4,22), ma anche come «figlio di Maria» (Mc 6,3), in modo denigrante.
Il racconto della guarigione del cieco, oltre al nome dell’interessato, è importante perché riporta uno schema d’iniziazione catecumenale alla fede. Questo ci deve far capire che il testo non deve essere preso alla lettera, come racconto storico «puro». Presso i semiti il «nome» esprime la natura di chi lo porta e ha qualcosa di magico; il cieco invocando «Gesù» si dispone a sperimentare in sé la potenza della «salvezza» dalla sua condizione di cieco. Gesù stesso aveva garantito la certezza della risposta di Dio se fatta nel «suo Nome»: «Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qual-che cosa nel mio nome, io la farò» (Gv 14,13-14).
Questa concezione taumaturgica, molto diffusa al tempo di Gesù, si ritrova anche nel Cristianesimo, tanto che l’invocazione del cieco Bartimeo: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» è parte centrale della spiritualità orientale. Chi lo pratica cerca la perfezione (deificazione) nell’unione con Dio tramite la preghiera incessante, ripetuta continuamente. «L’esicàsta è colui che parla a Dio da solo e lo prega senza posa».
L’invocazione di Bartimeo, nella spiritualità orientale è detta anche «preghiera del cuore», perché viene ripetuta incessantemente fino al punto da uniformare il respiro con le parole per arrivare a una forma estatica di indifferenza senza alcuna separazione tra corpo e spirito. Chi la pratica resta quasi sospeso, libero da ogni pesantezza corporea e librato verso la pienezza spirituale che si sperimenta nello svuotamento totale di ogni bisogno, perché nell’immersione in Dio si vive la pienezza del compimento di ogni desiderio vitale.
La 1a lettura, tratta dal profeta Geremia, fa da sfondo al vangelo perché parla di «cieco e zoppo» come protagonisti della restaurazione d’Israele. Gli emarginati diventano gli attori primari dell’azione di Dio. Ger 31 è molto importante perché i primi cristiani di origine giudaica non avevano altra Scrittura che l’AT anche per le loro liturgie e non è strano che in alcuni testi, come in questo capitolo, abbiano ravvisato richiami e connessioni con le parole e la vita del Signore. La 2a lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, prosegue l’omelia del sacerdote giudeo divenuto cristiano che illustra il sacerdozio di Cristo, presentato come realizzazione e superamento del sacerdozio levitico del tempio. La novità di Gesù consiste nel fatto che egli offre non un sacrificio di animali, ma se stesso ed essendo Figlio di Dio, racchiude in sé la funzione perfetta del sacerdozio: è colui che offre, colui che è offerto e anche colui che riceve l’offerta. Gesù è un laico e non appartiene alla tribù sacerdotale di Levi, ma nel momento in cui sceglie di offrirsi come dono in favore di tutti gli altri, egli diventa anche il sacerdote che non immola più animali per placare l’ira divina, ma assume su di sé tutto il male e le sue conseguenze, offrendo la sua vita come dono di ringraziamento a Dio che salva e consola. È la «singolarità» di Gesù di Nazareth che in lui sintetizza la piena identità e sovrapposizione di due versanti: quello divino e quello umano. Per questo il suo sacrificio ha un valore eterno e non temporaneo come quello del sommo sacerdote che doveva ripeterlo periodicamente perché compiuto da un uomo mortale.
Esame di coscienza
Invochiamo il «Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9) su tutti i nomi della terra, degli uomini e delle donne, dei giovani e degli anziani affinché ciascuno possa essere il segno visibile della vera natura di Dio che ci convoca e ci riunisce attorno a questo altare per inviarci in mezzo agli uomini. Possa lo Spirito insegnarci a pregare col cuore e non solo con la mente e la ragione e noi possiamo lasciarci condurre dai sentimenti interiori di unità che ci permettono di conoscere pienamente noi stessi e di riconoscere gli interventi di Dio nella nostra vita.
Signore Gesù Cristo, abbi pietà di noi. Signore, pietà.
Figlio di Dio, abbi pietà di me. Cristo, pietà.
Signore che ascolti chi invoca il tuo Nome. Signore, pietà.
Signore, figlio di Dàvide, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison.
Cristo, luce del mondo donaci la vista del cuore. Christe, elèison.
Signore, nel tuo Nome liberaci dal male. Kyrie, elèison.
Dio, Padre e Signore, noi non possiamo nemmeno pronunciare il Nome di Gesù senza l’assistenza dello Spirito Santo, veglia tu su di noi perché possiamo essere capaci di annunciarlo con la vita e le parole, abbi misericordia, perdona i nostri peccati, specialmente quelli di omissione, tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Il racconto di guarigione dalla cecità è un classico, riportato da tutti e quattro i vangeli, ciascuno secondo la propria prospettiva. Il testo di Mc è il più dettagliato dei sinottici (Mt 20,29-34 Lc 18,35-43) e forse il più preciso. Queste diversità similari sono la prova che i vangeli non si preoccupano di tramandare fatti storici asettici, ma sono animati dal desiderio di comunicare il loro amore verso la persona di Gesù perché i posteri delle generazioni future potessero innamorarsene. Tutti e tre i sinottici sono univoci sia nel titolo «Figlio di Davide», che attribuisce a Gesù una portata messianica, che nella richiesta del perdono «abbi pietà di me», come condizione della guarigione. Mc è il testo più antico perché nulla ci permette di dire che Bartimeo abbia coscienza di rivolgersi a una «divinità»: il nome Gesù e il titolo di «figlio di Davide» sono realtà ordinarie, comuni al tempo di Gesù. I vangeli non sono «cronaca», ma catechesi predicata prima e scritta poi, molto tempo dopo la morte e la risurrezione di Gesù. Il livello storico è superato a beneficio della prassi di fede nel «risorto».
La guarigione del cieco è così lo schema di un rituale di catecumenato e nulla esclude che qui si possa trovare la proiezione del catecumenato della Chiesa nella seconda metà del sec. I d.C. Noi esamineremo questo rituale passo dopo passo secondo il metodo sapienziale per imparare anche noi lo stile della conversione come passaggio dalla cecità alla visione. È evidente che il cieco è il simbolo della comunità dei discepoli che non sono in grado di vedere e conoscere la vera personalità di Gesù, ormai giunto alle porte di Gerusalemme dove incontrerà la morte. Il cieco è chiunque di noi che resta prigioniero della propria immagine di Dio. Chi identifica la propria volontà con quella di Dio e non accetta mai di mettersi in discussione non sarà mai in grado di vedere.
1. Mc 10,46a: [Giunsero a Gerico] Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla.
Giungere e partire, due estremi per indicare che Gesù aveva compiuto tutto quello che doveva. Tutto? C’è ancora qualcosa di imponderabile: vi è qualcuno che aspetta. Secondo Lc 19,1-10, Gesù a Gerico incontra Zaccheo che è il più impuro tra gli impuri perché «capo dei pubblicani». Gerico è una città privilegiata perché due suoi cittadini, un capo dei pubblicani e un cieco senza valore, sono ricordati con il nome proprio. Gesù non vi trova resistenza, come a Nazareth (Mc 6,1-3). Qui invece i peccatori si convertono e i ciechi insegnano il processo della fede. Il cammino della fede non inizia da una decisione della volontà, ma da un fatto: Dio nella persona di Gesù deve passare per la strada dove noi ci troviamo. L’iniziativa è di Dio, a noi il compito di accorgerci della sua Presenza. La partenza di Gesù ha il sapore di un esodo da Gerico a Gerusalemme, alla terra promessa del monte Calvario: egli non va verso «una terra dove scorre latte e miele» (Es 33,3; Nm 13,27 ecc.), ma verso la morte che vedrà scorrere la sua vita e il suo sangue (Gv 19,34). Gerico è la prima città della terra promessa conquistata da Giosuè non con le armi, ma con un atto liturgico: la processione dell’arca che «circonda» sette volte le mura della città al suono delle trombe (Gs 3,1-17; 6,1-27). Il cammino di fede non è un punto di arrivo, ma un esodo nuovo perché per arrivare, bisogna prima partire. A volte nella nostra vita di fede ecclesiale, non solo diamo la sensazione di essere arrivati, ma anche di essere piantati nell’immobilismo. Credere è avere scarpe da montagna per camminare verso una mèta che il Signore indicherà (Gn 22,8) e che noi già conosciamo.
Mc 10,46c: Il figlio di Timèo, Bartimeo, che era cieco.
Riportare il nome in un testo dove quasi tutto è anonimo, può significare che si tratti di un personaggio conosciuto; oppure che il fatto riportato abbia avuto una tale eco da parlarne ancora dopo una quarantina d’anni. Di questo «figlio di Timèo» sappiamo tutto: il nome suo, quello del padre e la sua condizione di cieco. Nella Bibbia la cecità è simbolo delle tenebre che si oppongono alla luce. Gv descrive la lotta escatologica messianica come lotta tra luce e tenebre: «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5). Essere figlio e avere un padre non è uno scudo sufficiente per proteggere dalla «cecità». Essere cieco non significa solo la privazione di una facoltà, ma è qualcosa di più: significa essere tagliati fuori dall’esistenza, perché la malattia impone una dipendenza e una provvisorietà senza soluzione, fino alla morte. Spesso si è ciechi pur vedendoci, perché non siamo in grado di leggere i segni dei tempi e di osservare la vita e il suo senso profondo.
2. Mc 10,46d: Sedeva [se ne stava seduto] lungo la strada a mendicare.
Il testo dice letteralmente che se ne stava seduto, e non semplicemente sedeva: egli sta lì come se fosse inchiodato sulla strada per una scelta obbligata, mettendo in evidenza lo stato di immobilismo costretto. La strada, che è il luogo del movimento, diventa il luogo dell’immobilità: se ne stava seduto, non camminava. Sedere sulla strada significa non vivere, essere alla mercé di tutti e ciò vale anche per la vita di fede, perché credere è andare verso qualcuno, non starsene immobili nel recinto di una religiosità che apparentemente assicura sicurezza. La strada era (ed è) il luogo abituale delle prostitute (Gn 28,21), perché la strada che non conduce a una mèta, è spersonalizzante e dispersiva. Se però si tengono gli occhi del cuore attenti, può essere il luogo dell’incontro decisivo. Camminare è stare nel cuore della vita che è movimento e ricerca.
3. Mc 10,47: Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire.
Bartimeo non vede Gesù perché è cieco, ma «sente» la sua presenza. Gli occhi sono solo un mezzo, la vera vista è quella del cuore. Molto spesso chi ha gli occhi sanissimi è cieco perché guarda, ma non vede. In mezzo alla strada, nel traffico, tra la «molta folla» (Mc 10,46), egli è capace di «vedere», oltre la sua stessa cecità, oltre la barriera della folla: la sua voglia di incontrarlo è tale che rende possibile anche l’impossibile; è forse la sua ultima occasione. La sua capacità di ascolto non è solo una compensazione della cecità, ma è la sua stessa sopravvivenza perché attraverso l’ascolto egli può partecipare alla vita della città, dalla quale diversamente sarebbe escluso. Ascoltare per il cieco è vedere e, infine, vivere. Probabilmente si rende conto che sta avvenendo qualcosa al di fuori dell’ordinario. Lo intuisce dal brusio della folla, dai rumori diversi dagli altri giorni, dall’agitazione che sente attorno a sé. Egli percepisce la novità che passa accanto a lui. Se è vero che Gesù deve passare da quella strada è anche vero che il cieco deve ascoltare il suo passaggio. Nulla accade per caso, ma ha un senso e noi possiamo coglierne la novità.
Ciò che può essere casuale, può anche essere provvidenziale: se siamo attenti e non siamo superficiali, se siamo «presenti» e sappiamo riconoscere che è «Gesù Nazareno». Il titolo «nazareno» è antichissimo ed è il primo titolo dato, non solo a Gesù, ma anche ai cristiani che sono chiamati inizialmente «nazareni». A Bartimeo, angosciato di poter perdere quella occasione «unica» non interessa che sia il Cristo o Figlio di Dio. Ne conosce il nome e quindi è già in comunione con lui prima ancora di incontrarlo.
4. Mc 10,47b: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
«Nazareth» è un villaggio della Galilea che tutti sapevano essere «terra di peccatori», anzi peggio «terra di pagani», «Galilea delle Genti pagane» (Mt 4,15). È da pazzi rivolgersi a un eretico per avere la vista; Bartimeo è confuso, ma lo soccorre il pensiero che il nome «Gesù» significa: «Dio è salvezza». C’è nell’aria una percezione indefinibile e forse l’occasione propizia. Il cieco rompe il vociare della folla e riesce a sovrastare il chiasso con il suo grido disperato e carico di speranza. Fa risuonare sulla strada il «Nome» della salvezza, Yoshuà/Gesù, accompagnandolo con un titolo messianico: Figlio di Davide! Bartimeo sa che il Messia deve essere «discendente di Dàvide» e chiamandolo con quel nome, annuncia profeticamente alla folla che l’era messianica tanto attesa da Israele, ora è lì, tra «la molta folla». Il primo grido, che si leva dall’uomo «che era cieco», non è la richiesta di guarigione, ma l’invocazione di perdono. Qui troviamo tutta l’ebraicità dell’uomo e della circostanza: Bartimeo sa che la sua cecità fisica – così gli hanno sempre insegnato in sinagoga e i suoi genitori – è conseguenza del peccato suo o di qualche suo antenato. Per la teologia del tempo, la cecità e qualsiasi malattia erano un castigo di Dio: «punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza generazione» (Es 20,5; 34,7; Nm 14,18; Dt 5,9; 24,16; Mt 27,25). Egli sa che la guarigione passa dal perdono perché solo Dio salva e può riammettere nella comunità dei redenti. Il povero ha solo la voce per gridare la propria disperazione col bisogno di perdono: credere è farsi sentire come si è.
5. Mc 10,48a: Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte.
Il cieco raggiunge il suo scopo perché la folla capisce che quel grido non è normale e nello stesso tempo contesta al cieco il suo diritto di aprirsi a Dio e vi si oppone. La folla è sempre un ostacolo alla relazione e all’incontro perché vive dell’indistinto e dell’anonimato. Lo sgridano per farlo tacere. C’è sempre qualcuno che mette il bavaglio ad un altro, in nome dell’opportunità, delle convenienze, e anche in nome di Dio. La folla è la stessa di Mc 10,46, quella cioè che segue Gesù nel suo viaggio. Questa folla, apparentemente «discepola», vuole impedire che il cieco «veda», diventando ostacolo tra il cieco e Gesù. Coloro che seguono, che credono, che frequentano possono essere un ostacolo attivo all’incontro. Quel cieco che essi incontravano ogni giorno davanti alla porta e che forse hanno consolato o commiserato, ora viene emarginato ancora di più «in nome di Dio». C’è sempre qualcosa d’importante e di urgente che impedisce di ascoltare le persone e la vita. Il bisogno del cieco è più forte dell’indifferenza della folla: egli grida più forte. Il cieco non accetta di essere messo a tacere e grida di più. Egli contesta la folla con l’urlo della sua vita: vuole la vista per poter credere. Credere è vedere Gesù in tutto lo splendore della sua umanità. Credere è avere una coscienza sveglia, attenta e urlante.
6. Mc 10,48b: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Prima bisogna attirare la sua Presenza, poi gli presenterà la sua richiesta. Colui che nella Sinagoga di Cafarnao si era presentato come il compimento della profezia del profeta dicendo che era venuto a dare la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, a far camminare gli storpi… (Lc 4,18-19; Is 61,1-2) ora è preso sulla parola e il cieco lo obbliga a svelarsi: se sei il Messia inizia a darmi il perdono di Dio perché il tuo perdono è il fondamento della guarigione. Credere è essere perdonati. Credere è guarire.
Mc 10,49a: Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!».
Il grido del povero ha il potere di fermare Dio davanti al bisogno dei suoi figli. Bartimeo da ebreo conosce i Salmi e sa che Dio non può non ascoltare:
. Sal 4,2: «Quando t’invoco, rispondimi, Dio della mia giustizia! Nell’angoscia mi hai dato sollievo; pietà di me, ascolta la mia preghiera».
. Sal 4,4: «Il Signore mi ascolta quando lo invoco».
. Sal 28/27,1: «A te grido, Signore, mia roccia».
. Sal 130/129,1-2: «Dal profondo grido a te, o Signore».
Gesù da quel grande pedagogo che è, coinvolge la folla che prima era stata d’impedimento. Gesù non si avvicina di persona, ma obbliga la folla a condurglielo. Se si fosse avvicinato lui, la folla sarebbe rimasta inchiodata nella sua colpa di emarginante; fermandosi e comandando alla folla di «chiamarlo», riscatta la folla e la trasforma in strumento di guarigione del cieco. Credere è essere capaci di fermare Dio sulla propria strada e di lasciarsi coinvolgere nel suo disegno di liberazione.
7. Mc 10,49b: Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».
La folla si trasforma e diventa strumento consapevole dell’incontro. Gli stessi che lo sgridavano per non disturbare «l’evento», ora si fanno prossimo, consolano, incoraggiano e aiutano direttamente: «Alzati»: il greco usa lo stesso verbo della risurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6): «sorgi/risorgi/alzati». Chi prima dispensava la morte dell’emarginazione, ora offre la mano per la risurrezione. Un capovolgimento totale di mentalità e di mezzi. Credere è alzarsi dalla propria condizione e lasciarsi accompagnare da chi chiama.
8. Mc 10,50: Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Il mantello è l’abito più importante dell’individuo in Palestina, specialmente per un povero: serve a coprirsi durante la notte e spesso è la sola proprietà dei poveri. Tanto è importante che, al tempo di Gesù, se uno avesse fatto un debito, avrebbe potuto dare in pegno il suo mantello, ma il creditore doveva consegnarlo al debitore al tramonto del sole per la notte. Poi se lo riprendeva al mattino… e così via fino all’esaurimento del debito (Es 22,25-26; Dt 24,12-13). Bartimeo butta via anche ciò che è necessario per la sua sussistenza, di fronte a Gesù che chiama. Schizza fuori dalla sua immobilità e butta la sua sicurezza e, nonostante sia cieco, si presenta davanti a Gesù, tra due ali di folla che lo conducono. Anche quando si è schiacciati dal male e si è immersi nell’oscurità e non riusciamo a vedere nulla, è sufficiente ascoltare la Parola per essere capaci di «risurrezione». Credere è essere liberi anche dalle necessità e avere gambe buone per correre.
9. Mc 10,51a: Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io ti faccia per te?».
La situazione è capovolta: prima era il cieco che pregava, ora è Gesù che prega il cieco. La prova che la nostra preghiera è autentica l’abbiamo quando sperimentiamo che è Dio stesso a pregare noi: «Che vuoi che io faccia?». Nella preghiera noi sperimentiamo che la nostra richiesta ai trasforma in domanda di Dio a noi perché vuole sapere cosa ci occorre. Credere è avere coscienza che è Dio a pregarci per donarci «quello che vogliamo». Qui si tocca il vertice della mistica: pregare è prendere coscienza che è Dio a pregare noi. Pregare è rispondere all’anelito di Dio che ha bisogno di vedere il volto dei suoi figli e figlie riuniti insieme in Assemblea, come avviene in una famiglia. Bartimeo: chiede ed è a sua volta richiesto da Gesù di fargli il dono di essere se stesso, prendendo coscienza che fede e vista sono sinonimi.
10. Mc 10,51b: E il cieco gli rispose: «Rabbunì [= Maestro mio], che io veda di nuovo!».
Senza mediazione alcuna, il cieco va subito al cuore della questione: vuole la vista. Egli «sa ciò che vuole» e per questo non si perde in parole inutili, ma chiede con supplica affettuosa: «Rabbunì» che in aramaico significa «Maestro mio». Non è più il «Figlio di Davide», ora davanti al cieco c’è la persona che lui non può vedere, ma di cui sente la voce, voce che sente di sua proprietà perché costui lo ascolta con tutto se stesso. L’uomo sta di fronte al Figlio dell’Uomo e tutto si relativizza: l’umanità, la divinità, la cecità. Accade un evento straordinario: l’uomo isolato sulla strada entra in relazione con il Maestro che passava di là e non a caso. Anche chi legge si accorge che sta accadendo un «nuovo esodo» perché cambia la vita di un uomo e cambia per sempre. A questa consapevolezza affettuosa Gesù risponde in modo singolare.
11. Mc 10,52a: E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
Bartimeo chiede la vista e riceve la salvezza fondata sulla fede. Apparentemente la risposta di Gesù è fuori tema. Qui il termine «fede» significa avere riposto la fiducia in Gesù e questo genera la salvezza. Se per il cieco la salvezza è vedere, per Gesù vedere significa credere. Gesù non dà altro che se stesso, facendosi sperimentare. Giovanni dirà in modo magistrale che credere è toccare fisicamente il Lògos della vita: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - 2la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, 3 quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. 4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4). Senza l’umanità di Gesù noi non abbiamo accesso alla sua divinità e senza sperimentazione non può esserci visione, come dimostra Bartimeo: per credere deve vedere. Il Nome «Gesù» invocato dal cieco trasforma la strada in tempio e «Dio è salvezza/Dio salva» entra nella storia di un uomo, svelandone il senso e la grandezza.
12. Mc 10,52b: E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
La vista non è la conclusione finale perché come abbiamo già visto, il cieco è iniziato alla fede che gli offre il vero obiettivo: «lo seguiva lungo la strada». Siamo partiti da una strada, simbolo d’immobilismo, siamo arrivati ad una strada strumento di movimento. Acquistare la vista produce un movimento verso Gesù e verso nuovi orizzonti che sono già contenuti nella strada che da sé porta e conduce. D’ora in poi il cammino si aprirà solo camminando. Dall’immobilismo della strada al camminare come progetto di vita. È la missione. Si acquista un dono non per sé, ma per andare e annunciarlo agli altri con i quali si condivide il percorso, diventando parte viva di una comunità in cammino. Credere è camminare con gli altri verso lo stesso obiettivo, seguendo l’unico Gesù.
Nota biblico-pastorale
Evidentemente possiamo dire che Mc, con questo racconto, descrive un processo di catecumenato come forse avveniva nella sua comunità. Proviamo a sintetizzare in uno schema questo processo che può esserci utile nella pastorale, fondata sul vangelo:
1. Gesù passa per quella via. Leggere gli avvenimenti e le persone che incontriamo per «accorgerci» che Gesù sta passando. È il tema dell’esodo. Chi sta fermo non incontra alcuno.
2. Il cieco è l’uomo sulla via della fede: non vede Gesù. Ne intuisce la presenza dai segnali che arrivano dal mondo che lo circonda (avvenimenti).
3. Lo invoca: il povero nel bisogno non ha nulla da pretendere, ha solo il grido per invocare: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34/33,7; Sal 72/71,12). Pregare è gridare a Dio la propria cecità e il «grido del povero» accorcia la distanza tra terra e cielo (Sal 77/76,2). La prima richiesta del grido non è la guarigione, ma il perdono: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).
4. L’ambiente circostante è negativo: la folla cerca d’impedire l’apertura verso Dio. Non esiste comunione nella comunità se prima non c’è un rapporto personale con Dio. Noi mettiamo in comune con gli altri ciò che siamo, sperimentiamo e viviamo. Se non viviamo un rapporto intimo con Dio, metteremo in comune solo banalità e la comunità non può reggersi, ma muore. La folla che è un impedimento all’incontro del cieco con Gesù è quella che segue Gesù. Essa lo segue solo materialmente, perché non percepisce la sua presenza salvifica. Può succedere che chi si dice credente possa essere un ostacolo agli altri e a Dio. Ci si abitua a tutto, anche ai miracoli che popolano la nostra vita. Potremmo essere assuefatti anche a Dio e diventare pagani e atei pur facendo atti e gesti religiosi. I discepoli erano preoccupati di accaparrarsi i primi posti: accecati dal potere, non potevano «vedere» né Dio né il cieco. Occorre per noi avere discernimento continuo per capire se cerchiamo la volontà di Dio o se non ci siamo costruiti un «dio-idolo» su misura.
5. Il cieco non si lascia condizionare dall’esterno, ma grida più forte. È il coraggio di aprirsi a Dio nonostante le difficoltà. A volte le difficoltà, anche se schiacciano, possono diventare una forza interiore: se l’ambiente ostacola bisogna attaccarsi a Gesù più profondamente perché la posta in gioco è grande: ne vale della vita.
6. Dio è chiamato e ode il grido del povero. A sua volta lo chiama coinvolgendo la folla, superficiale e bigotta, che diventa strumento di mediazione tra Dio e il cieco. Essa diviene addirittura strumento di risurrezione («alzati!»), perché il catechista Gesù la coinvolge trasformando la sua superficialità in partecipazione attiva.
7. La chiamata trasforma il cieco e trasforma la sua immobilità in un salto di vita: «balzò in piedi», liberandolo da tutto ciò che impedisce il movimento (mantello).
8. Avviene l’incontro che si compie nel dialogo e instaura un rapporto di vita in una reciproca preghiera: quando preghiamo noi supplichiamo Dio, ma anche Dio supplica noi. Il cieco ora vede perché crede. La folla credeva di vedere ed era cieca (non si accorgeva del cieco che cercava Gesù), il cieco invece vedeva meglio della folla e ora può credere in lui. Credere è vedere.
9. Il cieco segue Gesù: è l’uomo nuovo, il discepolo che segue il maestro. In forza della sua fede lascia i bordi della strada, da cui era tenuto prigioniero, e s’inoltra per un cammino nuovo che è già liberazione e visione.
10. Credere infine è vedere Lui, camminare dietro di Lui, andare in avanti e in alto insieme agli altri. Credere è passare dall’essere folla all’essere comunità discepola in perenne esodo.
Solo se somiglieremo a Bartimeo, potremo fare l’esperienza dei discepoli di Èmmaus, perché si apriranno i nostri occhi, arderà il nostro cuore e lo riconosceremo, nello stesso momento in cui sparirà dalla nostra vista perché ora con noi resta per sempre l’Eucaristia, il «luogo» privilegiato dell’incontro e dello spezzare il pane con gli affamati di giustizia e di vita: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista… Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,31-32).
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