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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 32ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: 1Re 17,10-16; Sal 146/145,6c .7.8-9a.9bc-10; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

 

La liturgia ci aiuta a compiere un passo in avanti e ci dà due esempi di questo amore «unico», con protagoniste due donne, due vedove.

- La vedova di Sarèpta, nella 1a lettura, è colta nel gesto di condividere la sua vita, a rischio della sua morte, con uno straniero verso il quale non aveva alcun obbligo.

• La vedova del vangelo agisce nel silenzio della sua coscienza, dove sa di essere alla presenza del Signore Dio.

- La vedova di Sarèpta supera gli obblighi legali che non le imponevano di aiutare un forestiero e si apre al rischio della novità, che può portare la morte, e dall’uomo di Dio riceve la vita per oggi e per domani.

• La vedova del vangelo, colta nella sua autenticità, fa da contrappeso all’ipocrisia dei capi religiosi che si gonfiano nella loro vanagloria e fingono di servire Dio per farsi vedere e venerare. La vedova, al contrario, entra nel sacrario della sua coscienza e, nel silenzio della sua relazione interiore con Dio, decide di osservare la Toràh, pur essendone dispensata; infatti, non getta il superfluo che non ha nemmeno, ma tutto quello che getta nel tesoro è la sua vita: due spiccioli (circa a due centesimi di oggi).

Ci troviamo di fronte a due atteggiamenti contrapposti: nella 1a lettura la regina Gezabele, ricca e assetata di potere, cerca la morte dell’uomo di Dio che si oppone ai suoi atti criminosi; nel vangelo una povera vedova è scelta da Gesù come immagine rappresentativa di Dio in opposizione a chi, come gli specialisti del culto e della liturgia, ne hanno usurpato la rappresentanza. Gli esegeti non mettono in luce con il dovuto rilievo l’aspetto rivoluzionario di questo brano di vangelo che svela come nell’intenzione di Gesù sia la vedova a rappresentare Dio e il suo agire. Nel venire incontro all’uomo, infatti, egli non ha dato del suo superfluo, ma si è svuotato di sé per darsi tutto a tutti (Fil 2,7-8; 1Cor 12,6). Farisei e scribi, rappresentanti ufficiali e legali, non sono il «sacramento» visibile della persona e dell’agire di Dio, ma lo è una donna, con l’aggravante di essere vedova ovvero una nullità radicale, appartenente a una delle tre categorie di marginalità, tipiche dell’epoca: orfani, vedove, stranieri. Quando i cristiani urlano contro gli stranieri si mettono dalla parte opposta di Dio che non solo ha scelto uno «straniero» come Abramo per iniziare l’avventura della storia della salvezza (Gen 21,1.23.34; 23,4; 28,4 Es 2,22; 22,20; Eb 11,8-9), ma sta sempre dalla parte del più debole in forza della giustezza del suo amore e non in nome di una giustizia di comodo. Ciò non vuol dire che la povertà, l’emarginazione, i migranti, specie se di altra religione e cultura, non pongano problemi; al contrario, una visione profonda della realtà che abbia l’orizzonte dello sguardo di Dio, vede i problemi, opera su di essi il discernimento dello Spirito e infine cerca le soluzioni più adeguate e rispettose della dignità di tutti.

La 2a lettura fa da sintesi liturgico-teologica: l’autore della lettera agli Ebrei riflette sullo «Yòm Kippùr», il giorno ebraico dell’espiazione; in questa occasione il sommo sacerdote entrava, unica volta nell’anno, nel Santo dei Santi per pronunciare il «Nome Santo», Yahwèh, sul popolo, invocare il perdono di Dio per sé e per il popolo. A questo scopo si consumavano due sacrifici. Nel primo un ariete era sacrificato nel tempio e il suo sangue era diviso in due parti; con una metà si aspergeva il popolo, compiendo così un «sacrificio di comunione» e l’altra metà era versata sull’altare e bruciata «in sacrificio di lode». Nel secondo sacrificio un altro ariete era simbolicamente caricato dei peccati del popolo e inviato nel deserto, dove era ucciso scaraventandolo in un burrone: il capro espiatorio (Lv 9,3.15, ecc.). Un po’ crudele per la sensibilità di oggi, ma è così. Nel tempo dell’alleanza nuova, non c’è più bisogno di capri espiatori, perché Dio stesso offre se stesso sulla croce affinché nessun profeta debba più essere perseguitato e nessuna vedova debba essere costretta a immolare la sua stessa vita. Accettando il primato dell’incarnazione, Dio stesso s’immola alla quotidianità della vita, accettandone la dinamica e la lentezza e rinunciando a qualsiasi diritto al miracolistico clamoroso. Rinuncia all’onnipotenza per accogliere l’impotenza dell’ordinario e anche del banale, che sono i luoghi propri dell’agire umano: «… se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!» (Mt 27,40).

Il Salmo responsoriale espone in forma sapienziale il volto di Dio che si prende cura degli oppressi, protegge i giusti, sfama gli affamati, libera i prigionieri, sostiene l’orfano e la vedova (Sal 146/145). Il nuovo tempio dell’alleanza nuova è l’umanità di Gesù (Gv 2,21) e l’umanità di ogni persona: è lì che ormai si celebra la liturgia della vita e si compie il sacrificio di redenzione per tutta l’umanità, assumendo su di sé l’ordinarietà della vita come realizzazione compiuta del regno di Dio. Ci affidiamo allo Spirito Santo perché ci doni la misura della «larghezza, altezza e profondità» dell’amore di Dio (Ef 3,18-19). Nell’economia della fede, nulla della nostra vita può e deve essere estraneo alla Presenza di Dio, ben sapendo che ciò non comporta una limitazione della nostra libertà. La lezione che la Parola ci dà oggi è duplice: Dio non fa differenze di persona, ma parla al profeta come alla vedova pagana. Con la vedova del vangelo simbolo di Dio, siamo invitati a essere semplicemente noi stessi per essere autentici testimoni credibili di Dio. Né esaltazione né rassegnazione: essere veri è la condizione dell’autentica umiltà. Sapendo che l’agire di Dio è oltre ogni frontiera, invochiamo la sua Shekinàh. Gli scribi sono superbi e pieni di sé, per questo impediscono a Dio di incontrarli, nonostante siano specialisti della religione, dei riti e della Parola, di cui conoscono anche le prescrizioni più sottili e insignificanti. Spesso la religione è un impedimento alla fede. Chiediamo al Signore, per la potenza dello Spirito Santo, che ci liberi da ogni religiosità superstiziosa, superficiale e alla fine atea. Chiediamo la trasparenza della fede insieme a quella del cuore. Chiediamo perdono.

Breve esame di coscienza

Signore Gesù Cristo, abbi pietà di noi, peccatori, ascolta e perdonaci. Kyrie, elèison.

Figlio di Dio, accogli la nostra piccola povertà, ascolta e redimici. Christe, elèison.

Signore, donaci la purità del cuore che ama, ascolta e purificaci. Kyrie, elèison.

Signore, figlio di Davide, abbi pietà di noi, ascolta e santificaci. Christe, elèison.

Cristo, tu scegli la vedova come segno del tuo agire, ascolta e proteggici. Kyrie, elèison.

Signore, nel tuo Nome liberaci dal male, ascolta e risanaci. Christe, elèison.

O Dio, che nella vedova di Sarèpta hai voluto assistere il tuo profeta e hai scelto quella del vangelo per rivelarci il mistero di Dio, ci conceda la sua misericordia, perché possiamo essere testimoni credibili del suo amore senza confini, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna nei secoli dei secoli. Amen.

Spunti per la riflessione e la preghiera

I protagonisti della 1a lettura e del vangelo sono due vedove, cioè due donne, che per la cultura dell’epoca erano esseri insignificanti, giuridicamente irrilevanti. La vedova poi era una categoria marginale, al limite della schiavitù, perché una vedova che non avesse una qualche forma di protezione poteva essere preda di chiunque. Le due donne sono anonime. Sia la 1a lettura che il vangelo abbondano di contrasti. La vedova di Sarèpta si apre a un Dio straniero, annunciato da un profeta che viene da oltre confine; a lei si contrappone la regina Gezabèle, che, da dentro i confini della terra promessa da Dio, vuole dissacrarla, imponendo il suo Dio, Bàal (1Re 18,20), per corrompere la fede d’Israele. La regina vive nel lusso e ruba ai poveri, ricorrendo anche all’omicidio (1Re 21,1-25); la vedova di Sarèpta è povera e si prepara a morire nella sua povertà estrema. Il profeta Elia colpisce la regina Gezabèle con una maledizione terrificante: sarà sbranata dai cani nel luogo del suo delitto (1Re 21,17-24), lo stesso profeta Elia, invece, riserva alla vedova di Sarèpta una benedizione di vita e di prosperità. La regina Gezabèle muore, la vedova vive.

La prima chiave di lettura del racconto della 1a lettura è certamente la fede, cioè l’abbandono totale nelle mani di Dio. Ebbe fede il profeta, chiedendo da mangiare a una vedova che stava morendo di fame (1Re 17,11-13) ed ebbe fede la vedova che si fidò dell’uomo di Dio, regalando il suo ultimo pasto all’ospite. Sia Elia che la vedova somigliano ad Abramo, il quale, senza conoscere la mèta, si affida alla nudità della Parola di Dio e rischia il suo futuro (Gen 12,4). Credere è sposare il comandamento di Dio senza preoccuparsi del risultato. La seconda chiave di lettura, per noi molto attuale, è il senso di universalità che il testo respira e trasmette. Il profeta e la Parola di Dio superano i confini della teologia dell’epoca e si aprono ai poveri delle altre nazioni (Lc 4,25-26). Il profeta di Dio e la donna pagana esprimono in modo sublime la fede pura che il Dio di Israele chiede ad Abramo e che Paolo esporrà magistralmente nelle sue lettere: «Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). I cristiani non possono perdere tempo a misurare i confini delle singole nazioni: con l’avvento di Cristo siamo entrati nella dimensione dell’universalità e si estende oltre i confini del mondo per giungere fino al cuore dell’eternità. È in questa logica e in questo contesto che dobbiamo affrontare e risolvere i processi migratori che riguardano tutti i popoli. In un tempo come il nostro, segnato dal fenomeno dell’emigrazione di stampo biblico, è penoso vedere singoli, gruppi e popoli che si autodefiniscono credenti nel Dio di Elia e di Paolo, e poi si accostano a questi fenomeni con il sentimento della «paura» predominante sulla razionalità e sui criteri della fede stessa. Di fronte a questi testi che oggi proclamiamo come Parola di Dio, possiamo avere paura dell’altro, chiunque esso sia? Nella nostra fede dobbiamo trovare la forza e la luce per scorgere nell’altro, da qualsiasi confine giunga, un’immagine di Dio, un segno della sua benevolenza, un comandamento di condivisione e amore. Dentro questa logica di Dio dobbiamo vivere le contraddizioni che la 1a lettura ci ha messo davanti: anche se i Musulmani ci disprezzassero come infedeli, noi li ameremo come fratelli e sorelle; anche se l’immigrato è diffidente, noi lo giudicheremo degno di fede; anche se abbiamo paura di dover cambiare modo di pensare, noi ci convertiremo nel Nome di Dio, nel segno della «Chiesa cattolica», cioè nel Nome del Dio unico e universale.

Noi siamo già nel NT e dovremmo avere superato il concetto del «dio territoriale», della religione chiusa negli usi e costumi di un’etnia. Se non abbiamo compreso il testo della 1a lettura di oggi, vuol dire non solo che non siamo ancora nel NT, ma che non siamo entrati nemmeno nell’AT. Se ci lasciamo dominare dalla paura e vogliamo rinchiudere il Dio di Elia, di Paolo e di Gesù in uno schema angusto e in una visione quasi privatistica, è segno che siamo del tutto fuori della fede. Forse siamo uomini e donne religiosi, persone cioè che compiono atti e gesti di ritualità scontata, ma non siamo uomini e donne che professano la propria fede nel Dio creatore del cielo e della terra e nel Signore che censisce i popoli (Sal 87/86,6) o nel Signore a cui «le famiglie di popoli» tributano gloria e potenza (Sal 96/95,7).

La domanda che ci poniamo è: a che punto siamo della storia della salvezza? Come Chiesa universale, come Chiesa locale, come comunità e come singoli, siamo sicuri di avere incontrato Gesù di Nazareth? Se guardiamo alla storia della salvezza come paradigma della storia di ciascuno, dove ci troviamo «adesso»? Siamo ancora con Adamo ed Eva nel tentativo di usurpare il trono di Dio? Siamo con Caino ad attuare il fratricidio? Siamo con Noè nel vortice del diluvio? Siamo dentro la barca tra i vivi o siamo tra i morti che della loro autosufficienza avevano fatto la loro sfida a Dio? Siamo in esilio o nella Terra promessa? Con i profeti o nella siccità della Parola? Siamo ai piedi della croce o ai bordi del vuoto sepolcro o siamo invece a baloccarci con le religiosità giocattolo per dare sfogo ai nostri istinti di uomini e donne immaturi? È urgente trovare la propria collocazione nel contesto della storia della salvezza, perché solo così la salvezza diventerà la nostra storia e la Parola di Dio il codice di accesso e di lettura.

Nel vangelo abbiamo una situazione in parte simile e, in parte, molto rivoluzionaria. Il brano si divide in due sezioni: la maledizione agli scribi, che come la perfida Gezabèle derubano le vedove (Mc 12,38-40), e la benedizione della vedova che non ha nulla se non la sua povertà (Mc 12, 41- 44). Queste due parti sono nell’economia di Mc un commento alla parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-9): il Regno di Dio viene tolto ai capi del popolo e ai responsabili del culto e viene dato ai poveri che non ne avevano diritto, perché erano stati dichiarati impuri. La vedova di Mc 12,42 viene detta «povera»: in greco si usa la parola «ptōchê» lo stesso termine che è usato nella 1 a beatitudine: «Beati i poveri (gr. ptōchòi) in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). La traduzione esatta di questo termine in italiano è «pitocco», essere pauroso e insignificante. È una rivoluzione radicale, un capovolgimento totale che noi abbiamo annacquato in uno spiritualismo per toglierci da ogni coinvolgimento e per impedirci di fare scelte di conversione. Il cristianesimo è tutto qui perché il volto del Dio di Gesù Cristo è questo non altri. O si fa la scelta della povertà come dimensione e condizione della visibilità di Dio o possiamo fare feste, liturgie, usare drappi e panneggi, ma restiamo fuori dal cuore stesso del vangelo, cioè dalle beatitudini.

La povertà non è una categoria sociale, ma una dimensione dello spirito che ci porta ad incarnarci nella storia sull’esempio di Gesù e ad assumere tutte le povertà materiali per trasformarle in sacramento di condivisione e di fede. L’antitesi ricco-povero, che è una caratteristica della predicazione di Gesù (Lc 6,20-24), qui si materializza nel binomio scriba-vedova con una serie di contrasti che servono a mettere in risalto le figure e i contenuti in essa espressi. Gli scribi amano la visibilità e sono ossessionati dalle vesti sontuose per essere visti e osannati dalle piazze: «amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze» (Mc 12,38). La versione italiana traduce con «amano»; il testo greco invece usa il verbo «thèlō» che significa «voglio/desidero/bramo» e quindi esprime una decisione consapevole della volontà e in ultima analisi una ricerca ossessiva dell’applauso popolare. Alla loro ostentazione non può corrispondere la giustizia interiore, perché essi proprio perché hanno il potere lo esercitano per i loro interessi, anche a scapito della Toràh che imponeva di non maltrattare l’orfano e la vedova (Es 20,21) e di renderli partecipi delle decime offerte per il culto (Dt 14,29). La Toràh è per gli Ebrei la Carta Costituzionale, il fondamento di ogni attività legislativa e non può essere appannaggio di interessi privati. Gli scribi che rappresentano l’autorità di Dio avrebbero dovuto proteggere coloro che Dio protegge, invece hanno anteposto i loro interessi ignobili al bene della nazione: divorano «le case delle vedove», escludendosi così dalla rappresentanza di Dio, perché in tal modo hanno perduto la loro autorità di guide religiose. Essi, infatti, non pregano, ma «ostentano di fare lunghe preghiere» (Mc 12,40), infatti ormai vivono solo per se stessi e per alimentare il culto della loro personalità. Per Gesù è la vedova che rappresenta degnamente Dio e ne esprime il volto. Dio si è paragonato al seminatore, al vignaiolo, al pastore, e ora si paragona a una donna, per giunta vedova, e addirittura povera.

Il testo è imbarazzante per la nostra mentalità e la nostra religiosità. Se qualcuno avesse qualche dubbio non deve fare altro che leggere in sinossi questo racconto con l’inno allo «svuotamento» di Dio della lettera ai Filippesi: «5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: 6 egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7 ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9 Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, 11 e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,5-11).

La vedova ha gli «stessi sentimenti che furono di Gesù Cristo» perché ella imita Dio non solo nel suo comportamento, ma anche nel suo essere. A differenza degli scribi che vivono «sdoppiati», la vedova è ciò che appare e appare ciò che è nel suo intimo: essere e apparire sono la stessa cosa in un’unica armonia. Se Dio ci avesse dato solo ciò che gli avanzava, sarebbe stato meglio rappresentato dai ricchi i quali danno ieri come oggi solo del loro superfluo. Dio al contrario ha dato a noi solo ciò che è, il suo necessario, in una parola tutto se stesso e anche oltre. Il testo di Paolo (sopra riportato) per descrivere il comportamento di Dio al v. 7 usa un termine sconvolgente, che in greco è «ekènōsen», e significa «fece il vuoto/svuotò/tolse il pieno» (1Cor 1,17) e quindi anche «si distrusse» (1Cor 9,15). Nell’incarnazione di Gesù, Dio non ci dà qualcosa di sé come la vita, la grazia, la partecipazione alla sua gloria, ma va oltre: svuota, annulla se stesso e si dona «tutto» a noi, esattamente come fa la vedova che non prende una moneta per offrirla al tempio, ma offre l’unica moneta che ha, il necessario per la sua sopravvivenza. Questa pagina di vangelo dovrebbe aiutarci a purificare l’immagine stessa di Dio, a rivedere la teologia che si nutre di un «dio astratto», staccato dal Dio che si è manifestato negli atti, nei gesti e nelle scelte di Gesù di Nazareth, il quale è venuto a dire con chiarezza e senza possibilità di equivoci che Dio è tale solo se serve (Mc 10,45), solo se si mette in ginocchio per lavare i piedi degli uomini e delle donne (Gv 13,1-5): è un Dio che assume a sua immagine la figura di una donna che in quanto donna è l’emblema del servizio puro, gratuito: del servizio fattosi amore, senza chiedere in cambio nulla. Per Gesù, la vedova povera è la profezia che il modo di essere proprio di Dio è la povertà che si fa amore totale.

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