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ASCENSIONE

Mensa della Parola: At 10,25-26.34-35.44-48; Sal 98/97, 1-3ab; 3cd-4. 1Gv 4,7-10. Gv 15,9-17

 

Siamo giunti alla penultima domenica del periodo pasquale, la domenica 7a di Pasqua, in tutti e tre gli anni sostituita dalla solennità dell’Ascensione del Signore con letture diverse per ogni anno. Domenica prossima sarà la solennità di Pentecoste che chiude la «cinquantina» pasquale. Oggi celebriamo la memoria dell’Ascensione del Signore che bisogna ben comprendere, altrimenti la svalutiamo riducendola a un evento materiale quasi che Gesù per «salire al cielo» avesse preso un ascensore. Dobbiamo stare attenti al linguaggio che esprime una realtà, a volte descrittiva a volte simbolica. Il linguaggio dell’Ascensione appartiene alla seconda categoria.

Per esprimere la complessità degli eventi che riguardano la persona e la vita di Gesù noi usiamo un’espressione sintetica: «mistero pasquale» che è diventata una formula tecnica di fede. Questa formula catechetica comprende cinque momenti: la passione, la morte, la risurrezione, l’ascensione di Gesù e la pentecoste. Ognuno di questi momenti rivela un aspetto della vita del Risorto senza esaurirne il contenuto. Il concilio Vaticano II, nella costituzione sulla liturgia Sacrosanctum concilium (= SC), afferma che Dio nella pienezza dei tempi mandò il suo Figlio a compiere la redenzione umana e la piena glorificazione di Dio «specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata Passione, Risurrezione da morte e gloriosa Ascensione» (SC 5, in EV, 1/7). Nell’elenco del concilio manca la Pentecoste che è citata nel paragrafo successivo (SC 6, in EV, 1/8). Questo «mistero» globale predicato dagli Apostoli noi lo realizziamo nei sacramenti, soprattutto nell’Eucaristia (SC, 6, in EV, 1/8). La parola «mistero» deve essere intesa in modo corretto, per evitare confusioni e superficialità.

Lo sviluppo del significato della parola greca «mystèrion» ha una storia biblica molto complessa che è utile ricordare almeno superficialmente. Essa ormai non indica più qualcosa di nascosto che deve essere manifestato, ma è sinonimo di «sacramento» nel senso dato dai Padri della Chiesa a questa parola: l’intervento salvifico di Dio nella storia degli uomini realizzato nella persona di Gesù. «Mistero», pertanto, è la realtà della storia di salvezza che si manifesta nel suo svolgersi, come realizzazione del piano divino relativo alla salvezza dell’umanità. Secondo Paolo, il mistero pasquale comprende sei momenti della vita di Gesù: «Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà: egli si è manifestato nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunciato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria» (1Ti 3,16).

In termini catechistici: incarnazione, passione, morte, risurrezione, pentecoste, missione e ascensione. L’Ascensione è uno di questi aspetti che evidenzia il versante divino della personalità di Gesù, posto sullo stesso piano del Padre e dello Spirito. In sostanza oggi la memoria dell’Ascensione colloca Gesù sul versante della divinità, riconoscendolo «Figlio di Dio» e Dio egli stesso. Non dobbiamo prendere i racconti evangelici di ascensione alla lettera: saremmo materialisti. Bisogna leggerli secondo il loro genere letterario proprio, che è diverso per ogni evangelista. Solo i sinottici parlano dell’Ascensione e Luca ne parla due volte: alla fine del vangelo in prospettiva liturgica e all’inizio degli Atti in prospettiva cosmica. Gv non parla dell’Ascensione perché per lui il «mistero pasquale» si compie in un solo atto: nell’«ora» dell’esaltazione di Gesù in croce che diventa così il trono della gloria, quella che Gesù aveva prima della creazione del mondo.

L’eucaristia è l’ingresso in questa dimensione divina e anche il prolungamento del «mistero pasquale», il luogo della nostra esperienza di Cristo nella Parola, nel sacramento e nella missionarietà. L’eucaristia è veramente la scuola che ci introduce nel cuore stesso della Trinità perché ci rimanda costantemente alla nostra responsabilità nella storia: «Perché state a guardare in cielo?» (At 1,11), ora è tempo di andare perché il mondo ha diritto di conoscere il disegno di Dio.

Nel giorno dell’Ascensione, prendiamo coscienza della nostra missione: non abbiamo infatti ricevuto il battesimo «ad uso personale», ma nella prospettiva della missione della Chiesa. Essere battezzati nell’acqua e nello Spirito Santo significa ricevere la consacrazione missionaria in vista del Regno. Gesù si sottrae alla nostra vista per lasciare intatta la nostra responsabilità di fronte al mondo, davanti al quale da oggi la credibilità di Dio è affidata alla nostra fedeltà credibile. Diventiamo responsabili della credibilità di Dio. Facendoci carico della sete di salvezza che c’è in tutto il mondo, accostiamoci ad ogni uomo e donna. Il Signore si è sottratto alla nostra vista per rendersi visibile negli eventi della storia e nel volto dei fratelli e delle sorelle. Forse ci siamo addormentati, forse ci siamo distratti, forse dobbiamo chiedere perdono per tutte le volte che non abbiamo riconosciuto la sua Presenza nella quotidianità della nostra esistenza, preferendo chiuderci nella sicurezza apparente del nostro egoismo o della nostra religiosità. Domandiamo perdono per essere in grado di vedere il Signore della Gloria nell’oscurità della nostra esperienza.

Esame di coscienza

Signore, ascendi al cielo per insegnarci a vederti senza vedere, perdona la poca fede. Kyrie, elèison!

Cristo, tu lasci la responsabilità di renderti credibile, perdona le nostre contraddizioni. Christe elèison!

Signore, tu ci comandi di non cercarti tra le nubi, perdona i nostri morti spiritualismi. Kyrie, elèison!

Cristo, tu ci mandi nel mondo in missione, perdona la nostra colpevole pigrizia. Christe elèison!

Signore, per quando non ti abbiamo incontrato nel volto di ogni fratello e sorella. Kyrie, elèison!

Dio, Padre dell’umanità, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e per i meriti del Signore Gesù, morto e risorto, che ha dato la sua vita per noi, ci conduca alla vita eterna. Amen!

Spunti di riflessione e preghiera

Racconti di ascensioni non sono nuovi nella Scrittura. Il patriarca pre-diluviano Ènoch che «camminò con Dio» (Gn 5,22.24) fu rapito da Dio (Gn 5,24) all’età di 365 anni, cioè al compimento di un ciclo solare, quasi a dire che tutta la sua vita risplendette davanti a Dio come un sole. Il profeta Elia venne assunto in cielo su un carro di fuoco con una scenografia degna di un kolòssal: «Mentre [Elia ed Eliseo] camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo (2Re 2,11). Anche Gesù «ascende al cielo», chiudendo così l’elenco delle apparizioni del risorto.

Nella 1a lettura odierna, tratta dagli Atti, Luca fa iniziare il tempo della chiesa con l’ascensione del Signore così come un secondo racconto di ascensione conclude il vangelo (Lc 24,44-53), segno che vi attribuisce un’importanza grande. Nell’introduzione agli Atti, l’ascensione ha un valore cosmico e riguarda la missione nella storia sulle cui strade gli angeli rimandano gli apostoli con un lieve rimprovero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto an-dare in cielo» (At 1,11). Nel finale del vangelo di Lc, il fatto ha un’impostazione liturgica: benedizione, prostrazione, elevazione come il fumo dei sacrifici nel tempio. Il vangelo è ancora nell’ambito ebraico, il racconto di Atti ha già varcato i confini di Israele e si proietta a livello universale: è la storia adesso il tempio dell’azione di Dio. Nulla è più profano perché tutto è in Dio.

Strana festa l’ascensione! Nel momento in cui Gesù «è assunto in cielo», rimanda gli uomini sulla terra, entra nel mondo divino da cui era venuto, ma invia i suoi apostoli in missione nel cuore della terra, si sottrae alla vista dietro una nube (At 1,9) e lascia la sua Presenza nella missione e nella parola dei suoi discepoli. Qual è il senso di questa festa così «singolare», ma così pericolosa se non si comprende nella sua dimensione biblica?

Il brano del vangelo odierno è parte integrante del canone, ma non è di Mc che terminava il suo vangelo in 16,8 con le donne che fuggono dal sepolcro perché piene di paura. La svolta avviene nel 70 d.C., quando alla distruzione del tempio non corrisponde la fine del mondo. I cristiani sono spinti a ripensare la Parusìa (= venuta finale di Dio/Gesù) che sfugge ai calcoli umani e quindi sono costretti a misurarsi con la fatica della lentezza della storia, dentro la quale bisognerà trovare i segni della Presenza di Dio. Di fronte alla nuova prospettiva, una comunità cristiana del sec. I o II aggiunse la conclusione di Mc 16,9-20, mentre altre ne aggiunsero di proprie. Ciò spiega perché abbiamo più finali per il vangelo di Mc. Il brano della liturgia afferma che la Parusìa/Presenza del Signore risorto è già avvenuta ed è presente nell’attività missionaria degli Apostoli. A questo scopo il testo è stato uniformato ai racconti dell’ascensione corrispondenti di Mt e Lc, ma anche ai racconti missionari di Mt 10 e Lc 10.

Il racconto di Mc è un «sommario», perché sintetizza in un unico racconto di apparizione tutta la serie di apparizioni che si sono protratte nel tempo canonico dei «quaranta giorni» che seguono la Pasqua. All’inizio del vangelo Mc ha descritto una «settimana tipo» della vita di Gesù (Mc 1-2), come ora ci rappresenta una «apparizione tipo» per darci l’idea di tutte le altre. In questa conclusione spicca una prospettiva ecclesiologica perché Gesù non appare alle donne o ai discepoli, ma solo agli Apostoli, nonostante siano increduli e duri di cuore: «Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato» (Mc 16,14). Lo scopo dell’apparizione non è sconfiggere la paura o consolare gli apostoli paurosi, ma unicamente affidare loro la responsabilità della missione: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15).

Alla luce della Scrittura, attraverso un’analisi interna dei testi, possiamo concludere che l’ascensione è l’esito finale di un lungo percorso o processo di maturazione della fede:

a. Primo momento: i testi parlano di Cristo salito in cielo e «assiso alla destra di Dio» (Rm 8,34) per dire che Gesù non ha più un’esistenza terrena, ma ora vive sul versante divino, essendo Dio.

b. Secondo momento: ancora nella prima generazione (Lc 24,44-53 e At 1,1-11) risponde allo smarrimento della comunità dei fedeli disorientati dalla piega che avevano preso gli avvenimenti: come vivere sulla terra ora che il Cristo è scomparso? Lc colloca l’ascensione Lc 24,51), accenna alla persona di Elia che nella tradizione giudaica deve ritornare per preparare l’avvento finale del Regno. Ancora Gesù che sale al cielo e si sottrae alla vista dietro una nube somiglia al Sommo Sacerdote che scompare dietro il velo del tempio per entrare davanti alla Shekinàh (Eb 6,19-20; 9,24 della stessa epoca di Lc: fine del sec. I) a cui offre una nube d’incenso che onora Dio nello stesso momento in cui lo nasconde.

c. Terzo momento: la generazione successiva, la seconda, non si interroga più sulla partenza di Gesù, ma come egli possa restare presente nella vita dei credenti. La risposta (Mt 28,16-20; Ef 2,4-7; 4,10) è semplice: Cristo è presente nella missione apostolica, nel battesimo e nella parola annunciata.

d. Quarto momento: di fronte al problema dell’incredulità e della perseveranza, di fronte alle difficoltà di una chiesa che ormai si struttura in «istituzione», di fronte ad un fervore stanco, qualcuno aggiunge una conclusione al vangelo di Marco (vangelo di oggi) per incoraggiare in modo molto semplice e popolare: anche gli apostoli, i primi garanti e testimoni, hanno dubitato. La fede nel Signore risorto è un dono a cui bisogna aprirsi, non un premio da conquistare.

Ascensione è sinonimo di Pasqua, ma vista dall’angolo della signoria universale, cioè dell’intronizzazione del Figlio accanto al Padre. Con l’Ascensione noi diciamo che Gesù deve essere letto dal versante della divinità e affermiamo di credere che egli è Dio. Nulla di più e nulla di meno.

Conclusioni applicative

L’ascensione è l’ultimo atto terreno di Gesù e bisogna intenderlo bene se non vogliamo perderne l’importanza che non riguarda solo la cronologia della vita del Signore sulla terra, ma la missione universale, che è la caratteristica del compito lasciato da Gesù agli apostoli. In un tempo come il nostro dove si vuole ridimensionare il Cristianesimo come realtà di una porzione dell’umanità, identificata in quella cultura occidentale che tanta parte ha avuto ed ha negli squilibri di giustizia mondiali, riflettere sull’ascensione significa capire le fondamenta della nostra fede e rafforzare il rifiuto di una religione supporto di una cultura o civiltà. Alla luce dell’Ascensione, lo stesso simbolo del «crocifisso», divenuto ormai simbolo di divisione e di guerra di religione, acquista una luce nuova e un senso inequivocabile.

La chiesa è in stato di missione permanente, ma oggi lo è specialmente nei confronti di se stessa perché i suoi figli sono molto lontani dalla madre o forse la madre si è talmente rintanata nell’intimo della sua casa da perdere il contatto con i suoi figli rimasti sulla strada. Se c’è un’ascensione vuol dire che prima c’è stata una «discesa», un’incarnazione che è avvenuta in «un popolo» concreto e preciso: Gesù non è stato un uomo «generico», ma è stato un uomo «orientale, palestinese, ebreo». Con l’ascensione l’uomo Gesù, «ebreo di nascita» ed ebreo per sempre, diventa il Dio di tutta l’umanità, colui che tutti i popoli e ogni singola persona può incontrare nella testimonianza (missione) degli apostoli, nel battesimo, nella parola udita.

Un altro elemento essenziale della festa di oggi consiste nel fatto che l’ascensione è la risposta di Dio Padre all’obbedienza del Figlio: in lui si salda per sempre l’umano e il divino, il tempo e l’eternità, il finito e l’infinito, l’onnipotenza e la caducità. L’ascensione vuol dire che da ora non è più possibile una storia dell’umanità senza la storia di Dio e la storia di Dio senza la storia dell’umanità, di ogni singola persona umana che diventa così «comandamento» visibile e incarnato della Presenza di Dio. Inizia l’èra della Chiesa, iniziano i penultimi tempi, i giorni della nostra esperienza che ci separano dalla fine del mondo, quando il Signore ritornerà di nuovo sulla terra per radunare tutti i popoli nell’unico recinto/ovile che è la città universale di Gerusalemme (Is 2,1-5).

Nell’attesa noi celebriamo l’Eucaristia, il sacramento della missione e della parola, il sacramento che ci libera da ogni particolarismo e ci apre all’ascensione, cioè ci introduce nell’intimità con Dio perché rivela a noi stessi che siamo nel mondo sacramento visibile della credibilità di Dio e testimoni del suo amore sconfinato. Ascensione per noi significa inoltre che nessuna «discesa» è definitiva, ma che dentro di noi c’è il Dna del mondo di Dio, il sigillo della sua vita; così nessun fallimento può dire l’ultima parola su di noi, perché siamo chiamati ad «ascendere» al cielo, ad andare in alto per abitare «con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» del cuore di Dio (Ef 3,18).

 

Da Sant’Agostino, «Discorsi» (Disc. sull’Ascensione del Signore, ed. A. Mai, 98, 1-2; PLS 2, 494-495)

Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo.

Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con lui salga pure il nostro cuore. Ascoltiamo l’apostolo Paolo che proclama: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2). Come egli è asceso e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che ci è promesso. Cristo è ormai esaltato al di sopra dei cieli, ma soffre qui in terra tutte le tribolazioni che noi sopportiamo come sue membra. Di questo diede assicurazione facendo sentire quel grido: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9, 4). E così pure: «Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25, 35).

Perché allora anche noi non fatichiamo su questa terra, in maniera da riposare già con Cristo in cielo, noi che siamo uniti al nostro Salvatore attraverso la fede, la speranza e la carità? Cristo, infatti, pur trovandosi lassù, resta ancora con noi. E noi, similmente, pur dimorando quaggiù, siamo già con lui. E Cristo può assumere questo comportamento in forza della sua divinità e onnipotenza. A noi, invece, è possibile, non perché siamo esseri divini, ma per l’amore che nutriamo per lui. Egli non abbandonò il cielo, discendendo fino a noi; e nemmeno si è allontanato da noi, quando di nuovo è salito al cielo. Infatti egli stesso dà testimonianza di trovarsi lassù mentre era qui in terra: Nessuno è mai salito al cielo fuorché colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo, che è in cielo (Gv 3, 13) … Perciò egli è disceso dal cielo per la sua misericordia e non è salito se non lui, mentre noi unicamente per grazia siamo saliti in lui. E così non discese se non Cristo e non è salito se non Cristo. Questo non perché la dignità del capo sia confusa nel corpo, ma perché l’unità del corpo non sia separata dal capo.

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