Mensa della Parola: Gen 3,9-15; Sal 130/129, 1-6; 2Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35
La liturgia di oggi ci propone quattro scene molto marcate: l’irresponsabilità che genera divisione e fratture (1a lettura), la vanità della vanagloria come culto della propria superiorità che arriva ad accusare il maestro mentre propone una via di verità (2a lettura) e il vangelo che descrive un’appropriazione indebita di Dio, negando il diritto di cittadinanza anche a chi da lui è inviato. Tra questi atteggiamenti che potremmo identificare nell’individualismo patologico, teso al proprio esclusivo interesse chiuso e vanitoso, emerge il salmista (Sal 130/129) che misurando la propria consistenza, dal «profondo» dell’esistenza, imprigionata in errori e desideri, riesce a elevare un «grido» verso l’alto con cui varca i cieli dei cieli e arriva direttamente a Dio. La verità, che non è mai disgiunta dall’umiltà, è sempre la porta principale non solo per essere in grado di stare davanti a Dio, ma anche di riconoscere gli altri come soggetti di diritto come noi.
La 1a lettura riporta il brano della Gènesi che descrive la trasformazione della relazione tra Adamo ed Eva: solidale nel sogno di rapire il potere a Dio, scaricabarile nell’assunzione delle responsabilità personali. Secondo gli antichi, acuti osservatori della natura, tutto deve avere una «spiegazione» perché tutto è sotto il segno del «potere di Dio». Se Dio è il creatore, nulla può essere lasciato al caso, ma ogni cosa, anche la più apparentemente assurda, come un serpente che striscia senza camminare sulle proprie zampe, deve avere un senso. Il racconto «mitico» è la risposta scientifica del tempo agli avvenimenti spiegabili e inspiegabili che si offrono agli occhi dell’umanità. Si tratta di illustrare la maledizione antica che, per responsabilità dell’uomo, pesa ancora oggi sulle condizioni di vita perché essa ha dato una svolta tragica al corso della storia.
Adamo ed Eva furono creati per la complementarietà fusa nell’unità che si esprime nell’armonia interpersonale e con la natura che circonda i progenitori; l’universo, infatti, è descritto come un giardino, cioè un mondo a misura di uomini e donne, un ambiente antropologico, non un cosmo lontano e inimmaginabile. In questo mondo avviene una frattura esistenziale che nasce non dall’esterno, ma da «dentro» il cuore umano. I due vogliono «di più», vogliono sperimentare cosa significhi «essere come Dio», desiderano superare la propria identità e sostituirla con una diversa, che loro immaginano più grande, potente, infinita. Tutto ciò li porta a chiudere gli occhi e a non vedere l’indefinita libertà e l’enorme potere che hanno: «tutti gli alberi del giardino» (tranne uno) e tutti gli animali, di cui conoscono l’intima natura (questo significa infatti «dare il nome»).
Il dramma di Adamo ed Eva non è il sesso, come ancora oggi qualcuno si ostina a dire, ma la lussuria del potere immaginato: «essere come Dio». È la sindrome di onnipotenza che, puntualmente, ancora oggi, sempre, distrugge il mondo e le relazioni umane. Non riconoscere i propri confini e quindi la propria vera identità che passa attraverso la cruna del proprio limite e delle proprie possibilità, significa sperimentare la «nudità» dell’esistenza, cioè l’inconsistenza e la fragilità della propria stabilità: «polvere sei e polvere ritornerai». Polvere è lo strato più superficiale del suolo ed è sufficiente un soffio per disperderla nel nulla. Eppure anche la polvere può essere raccolta e protetta dal vento perché «nulla deve andare perduto», dal momento che Dio, veramente, non può fare nulla di casuale.
Perdere il contatto con il proprio confine, che è al tempo stesso la soglia del contenimento e della proiezione in avanti, significa sperimentare anche la peggiore nudità, quella della mancanza della relazione, o peggio ancora, quella della strumentalizzazione della persona nata per essere pienezza, mentre finisce per essere un mero strumento da sacrificare per la propria salvezza apparente: non è colpa mia, ma di lei che io non volevo neppure, ma che tu, o Dio, mi hai voluto dare d’autorità. Nasce la teologia e la filosofia e la scienza dello «scarica barile» che penetra il costume di ogni epoca e ogni psicologia.
Dall’abisso profondo in cui è prigioniero il salmista, che però riesce con un «urlo» a chiedere aiuto, s’intravede un futuro lontano, anzi un volto, per ora sfuocato, ma che ha le sembianze di una «stirpe» pronta alla lotta (Gen 3,15).
Nella 2a lettura, la comunità di Corinto, molto cara a Paolo che l’ha fondata, va ancora oltre Adamo ed Eva perché non vuole impadronirsi dell’autorità dell’apostolo, ma semplicemente nega che ne abbia una dal momento che la sua vocazione non è come quella degli altri apostoli, ma è fasulla: forse perché Paolo non ha conosciuto «fisicamente» Gesù? Non lo sappiamo, di certo però sappiamo che i Corinzi hanno un’altissima stima di sé, reputandosi tra i più colti e intelligenti, disponendo del pensiero filosofico come nessun altro. Sono greci e sono fieri di esserlo. A loro Paolo non dà prove dell’autenticità della sua vocazione, ma si limita a trasportare il «pensiero» ad un livello più alto mettendo tutto in relazione a Cristo Signore che pur essendo Dio, si sottopose ad ogni sorta di prova. Se i Corinzi sono uniti a Cristo e Paolo ne è un imitatore, forse che la condizione dei primi e la vita del secondo non è la stessa cosa? È la proprietà transitiva della vita cristiana che passa attraverso al «gloria di Dio» (1Cor 4,15). Questa prospettiva dà un volto nuovo alla speranza che Paolo cerca di descrivere ai Corinzi: la speranza non è prospettiva futura, quasi attesa passiva o desiderosa di un tempo o realtà che deve ancora venire; questa speranza è già sperimentata nel presente.
La «gloria di Dio» è il Signore Gesù risorto e chi lo sperimenta partecipa di essa a pieno titolo, per cui vive «oggi», sapendo che nemmeno il superamento della morte farà perdere questa intensità di vita. Edificare il regno di Dio o dei cieli significa costruire sulla terra un mondo nuovo dove nessuno deve essere escluso o esaminato secondo criteri particolaristici. Che cosa è la sapienza dei Greci se non la loro presunzione di essere superiori agli altri? Dio non ha agito così e nemmeno l’apostolo agirà così, ma accetterà la debolezza dei suoi figli, facendola propria e aiutandoli a guardare in altro, a guardare oltre per imparare vivendo la presenza del Risorto; a operare nel mondo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà «per la gloria di Dio» che chiama ciascuno con i propri doni e i propri limiti.
In Mc la «casa» o la «barca» sono sempre simboli della Chiesa. Qui è probabile che la casa reale sia quella di Pietro a Cafàrnao, dove Gesù era solito recarsi quando si trovava nei pressi del lago di Genèzaret. Gli scribi, inviati appositamente dal sinèdrio che ha sede a Gerusalemme (oltre km 100 di distanza), non potendo negare quello che vedono e sentono, accusano Gesù di possessione diabolica e quindi di operare in nome del demonio che abita in lui. Al tempo di Gesù si credeva non solo nell’esistenza del demonio, ma anche nel dominio da lui esercitato su cose e persone. Gesù non contesta simile credenza, ma afferma che la sua azione invece è proprio contro il possesso del demonio perché egli «libera» le persone e li restituisce all’identità di figli di Dio. Questo discorso si può comprendere solo nel contesto dell’epoca, in cui ogni espressione «strana» come convulsioni, epilessia, tic nervosi, lebbra, ecc. non avendo altre spiegazioni scientifiche, era attribuita all’opera del demonio. Non è un caso che Gesù cominci la sua attività di ràbbi itinerante operando esorcismi dalle possessioni. Nel vangelo odierno, se Satana è «forte» (Mc 4,27), non c’è alcun dubbio che Gesù sia «più forte» (Mc 1,7) infatti annuncia il «tempo compiuto» (Mc 1,15) della liberazione dal dominio del male e l’inizio del regno di Dio.
Nel giardino dell’Eden avviene il dialogo dopo la caduta. «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,9-10). Il primo sentimento che la Bibbia registra, all’alba dell’umanità, è la paura, non come sentimento di prudenza e di vigilanza, ma come distintivo di difesa e di diffidenza verso un altro, qui Dio. Adamo ed Eva abbandonano il loro «Dove sei», cioè la loro consistenza, la loro identità, la loro vita e si rifugiano nel buio, nell’ombra, nella diffidenza. La «nudità» che prima era un privilegio e una identità comune, ora diventa una colpa e una barriera insormontabile. Adamo ed Eva sono due, sono una comunità, non sono solitari. Lo diventano nel momento in cui si vestono di paura, smarrendo ogni capacità di rapportarsi all’altro nella verità e nell’accoglienza. Per questo ci sediamo all’ombra della Trinità e impariamo a stare e a vivere in comunità.
Giunti a questo punto, prima di procedere con l’Eucaristia, è necessario fare una sosta e bere il sorso d’acqua della libertà. Discerniamo da quale «dove» noi partecipiamo al banchetto, quale progetto di vita vogliamo realizzare non contro, ma semmai insieme a quanti sono disponibili. Per questo, è solo lo Spirito che può allargare le nostre profondità e liberare la nostra libertà. Lasciamoci visitare da Dio e, come il salmista, lanciamo il nostro grido per invocare la salvezza che mai ci viene negata perché Dio è Padre e non padrone per noi e per l’umanità intera.
Esame di coscienza
Signore, che sei venuto a chiamare i peccatori e non i giusti alla mensa del Regno. Kyrie, elèison.
Cristo, che ti scuoti nelle viscere con la medicina della misericordia verso tutti. Christe, elèison.
Signore, che ci liberi da ogni dèmone di possesso, potenza e avere, ascolta e perdona. Kyrie, elèison.
Cristo, che ci guarisci per restituirci la dignità di figli di Dio liberi di amare. Christe, elèison.
Dio onnipotente che non ha abbandonato Adamo ed Eva al loro destino di morte certa, ma ha annunciato loro il primo vangelo della redenzione affinché non smarrissero la via della speranza, pur tra molte difficoltà; che tutto ispira perché possiamo vivere, agire e scegliere «per la gloria di Dio»; che trasforma la famiglia naturale in famiglia di identità spirituale nell’ascolto comunitario della Parola, per i meriti di Gesù Cristo che per noi e con noi si oppone e combatte ogni Beelzebùl, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
La 1a lettura di Gen 3 descrive l’inizio del cammino d’incarnazione, che in Maria trova compimento come descrive Lc 1, costituendo così un «unicum» ininterrotto da Eva a Maria, da Adamo a Gesù. Nel giardino di Èden, Adamo ed Eva hanno disobbedito a Dio per emanciparsi da lui; non vogliono cioè accettare alcun limite alla natura e pretendono di essere loro stessi «dio», ma si ritrovano nudi e così «opachi» da temere la luce di quel Dio con cui conversavano amabilmente al sorgere dell’alba (Gen 3,8). Si nascondono perché c’è una frattura tra loro e il Creatore: non sono più la sua immagine riflessa, infatti si vergognano perché sono opachi, a differenza di prima che erano luminosi. Prima della ribellione Adamo ed Eva erano «vestiti» di luce e la loro pelle era luminosa; dopo il tentativo di spodestare Dio per prenderne il posto con il potere di giudicare «il bene e il male», attraverso il possesso della «conoscenza», si accorgono di essere «nudi» e si nascondono (Gen 3,10-11). Immediatamente sperimentano che la separazione da Dio è anche frattura tra di loro. Nessuno riesce ad assumersi la propria responsabilità, ma si accusano a vicenda: l’uomo accusa la donna, la donna accusa il serpente. Inizia il gioco dello scaricabarileche tanto successo avrà lungo i millenni e i secoli.
Dio chiama a rapporto e comincia l’interrogatorio in quest’ordine: Àdam, Eva e il serpente. La condanna è sanzionata in senso inverso: serpente, donna, uomo. Letterariamente è una costruzione a cerchio (o a chiasmo) che dà al testo una portata di straordinaria bellezza. Il serpente presso gli antichi è simbolo della fecondità e della vita, di cui Eva e Adamo volevano impossessarsi. Nel racconto biblico il serpente è condannato a strisciare nella polvere, sul ventre, senza piedi e senza virilità; la vita è di Dio, mentre al serpente, simbolo del male, appartiene la furbizia che genera la nudità di Adamo ed Eva, cioè la perdita della personalità: l’immagine di Dio.
Ricostruire questa immagine sarà compito del «nuovo Adamo» che dovrà passare attraverso la nuova donna. Gen 3,15: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» è detto «protovangelo», perché è il primo annuncio in assoluto della nuova alleanza che si concluderà con la morte e la risurrezione di Gesù. Il patto è appena consumato e spezzato e Dio già offre un’àncora di salvezza. Inizia il cammino di speranza e la salvezza di Dio entra nella storia, che diventa così la tenda del convegno. Inizia un lento e progressivo allontanamento dell’umanità da Dio, finché la storia non incontrerà una ragazza ebrea, adolescente, una donna che con la sua scelta modifica il corso della storia donandosi: ella accetta di essere il punto di congiunzione tra il divino e l’umano, l’eterno e il temporale, Dio e l’uomo.
Il brano del vangelo di oggi riporta l’intervista ufficiale degli scribi, venuti appositamente da Gerusalemme per verificare «il potere» esercitato da Gesù (Mc 3,22-30). L’evangelista lo incastona dentro un quadretto familiare, valutabile come un «incidente domestico», o se si vuole, una incomprensione familiare. Mc incastona il racconto di esorcismo corredato dall’intervista degli scribi con l’incidente occorso con la famiglia. Gesù è accusato dagli scribi, cioè dagli inviati ufficiali del sinèdrio di Gerusalemme, di essere posseduto dal capo dei demoni (Mc 3,22). I suoi familiari, non abituati ad avere su uno di loro l’attenzione delle autorità, si spaventano e ritengono che la risonanza pubblica che ha Gesù possa costituire un pericolo grave per lui, per cui non esitano a imputargli la pazzia: solo un folle poteva mettersi contro il sinèdrio e quindi la religione. Non si tratta qui di «pazzia clinica», ma dell’atteggiamento della famiglia che cerca di giustificare il proprio congiunto, tranquillizzando il mondo esterno dicendo: non fateci caso, è uno stravagante, come al solito esagera; cosa volete farci, è fatto così: è un pazzo! Noi diremmo: eccesso di zelo e anche di paura.
È certo che tra i familiari vi è pure la madre: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano» (Mc 3,22) La conseguenza è inevitabile: anche la «Madonna» ha ritenuto Gesù «pazzo», tesa alla ricerca di un espediente per salvarlo dal conflitto con l’autorità religiosa. Possiamo dedurre che Maria abbia fatto fatica a capire chi fosse Gesù e solo un lento cammino la condurrà alla fine a comprendere il senso degli avvenimenti. D’altra parte se lo stesso «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; 2,40), non si capisce perché la crescita non debba riguardare sua madre e i suoi familiari.
Nota esegetica. Attorno a Mc 3,21 c’è sempre stata e c’è discussione perché a seconda dell’interpretazione cambiano le prospettive. La domanda è: «Chi sono i suoi»? L’espressione greca non può indicare i «discepoli» perché essi sono implicitamente presenti in Mc 3,20 nella «casa» con Gesù dove tutto sta accadendo. L’evangelista, pertanto, si riferisce esclusivamente alla famiglia di Gesù, la quale non è abituata a essere al centro dell’attenzione e nei villaggi vicini si comincia a parlare e a «sparlare» di lui come di un profeta o come di un «assatanato» (Mc 3,30). Da questo punto di vista l’atteggiamento della famiglia combacia con quello degli scribi: i primi lo ritengono «pazzo», i secondi «indemoniato». I primi sono terrorizzati che il loro congiunto si metta in dissidio con le autorità religiose, ponendo a rischio la sua stessa vita, i secondi temono che possa avere seguito di popolo e quindi essere un avversario temibile. I familiari, dunque, «uscirono per impadronirsene/trattenerlo/impedirglielo». Con ogni probabilità, essi provengono da Nazareth che dista circa km 45 da Cafàrnao per cercare di convincerlo a non fare lo «strano» e a tornare a casa. Dire che «è pazzo/fuori di testa» può essere un modo per alleggerire la sua posizione e quasi giustificarla davanti alle autorità, quasi a dire: Non è colpa sua, poverino! Non lo vedete che sragiona? Ciò comporta una riflessione a prova del fatto che anche sua Madre, Maria, imparò lentamente a conoscere il figlio e a capire il suo cammino e la sua tragedia. D’altra parte se Gesù «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52), è facile supporre che anche sua Madre ha vissuto la stessa crescita, allo stesso modo. Nessuno può stare fuori dell’umanità che è la condizione unica della nostra esperienza, qualunque essa sia, fosse pure il Figlio di Dio.
La famiglia da una parte ha paura che faccia «pazzie», la religione ufficiale è certa che il nuovo ràbbi itinerante è figlio del demonio (Mc 3,22.30) e in mezzo sta Gesù che ribalta la prospettiva, dando una risposta a tutti e due i suoi interlocutori: la religione e la famiglia. Agli uomini di religione fa notare l’illogicità del loro ragionamento: se egli combatte Satana, guarendo le malattie che fanno capo a lui, come è possibile che egli possa essere suo figlio? Una famiglia, un gruppo, una coppia, se sono divisi non possono stare in piedi. È importante sottolineare nella strategia catechetica dell’autore la geografia in cui avviene la diatriba a distanza con la famiglia:
1. In Mc 3,20 «Gesù entrò in una casa», dove è attorniato dalla folla.
2. In Mc 3,31 «Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo».
Con ogni probabilità la casa dove è Gesù è il simbolo della nuova comunità, mentre la casa di carne e affettiva, che dovrebbe essere legata a Gesù da vincoli forti, «sta fuori». Non basta avere rapporti di sangue per giustificare una relazione spirituale, cioè un rapporto di fede. Può capitare che chi crede di stare dentro, si trovi fuori e chi è esterno, altro, diverso, incompatibile, sia dentro. Il comportamento di Gesù è illuminate: «Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,34). Nasce, quindi, un nuovo modo di parentela, quella generata dall’ascolto «comunitario/ekklesiale» della Parola che ridimensiona ogni altro rapporto, compreso quello affettivo di sangue che al tempo di Gesù aveva un significato molto forte e impegnativo.
C’è però in tutto il brano un senso ancora più ampio. Si tratta della lotta tra «i due spiriti», dottrina molta in voga a Qumràn e nella cultura religiosa e sociale dell’ambiente di Gesù. Si prende atto che nel mondo c’è il male e che questo si diffonde per opera delle azioni degli uomini e delle donne che con le loro scelte ne aggravano le conseguenze o le ridimensionano. Chi opera il bene ridimensiona il male, chi opera scientemente il male, lo allarga. Il mondo è tenuto prigioniero dal male dilagante, contro cui opera Gesù che si oppone e lotta per liberare gli uomini da questa prigione maligna in cui tutti sono prigionieri. L’opera di pulizia di Gesù è l’inizio del regno di Dio e il segno che lo spirito liberatore di Dio è già operante in mezzo agli uomini (Mt 12,28). In questo contesto il «bestemmiatore» è colui che è incapace di discernere il bene dal male nell’operato di Gesù e quindi di attribuire le sue azioni al potere del male, impedendosi così di accostarlo e accogliere la novità che egli porta a ciascuno. Il «Peccato contro lo Spirito» è travisare la lettura degli accadimenti e della parola, chiudendosi alla comprensione, a causa dei propri interessi di qualsiasi genere; coloro che badano ai propri interessi, infatti, per difenderli sono pronti addirittura ad accusare Gesù di «essere posseduto» oppure fanno come la famiglia che, per non avere fastidi, non esita a farlo passare per «pazzo». Ambedue bestemmiano perché non sono in grado di lasciarsi interrogare dalla nuova proposta di un nuovo mondo. Gesù si auto-presenta come il più forte che vince «il forte» (Mc 3,27) e tutti possono partecipare a questa lotta, scegliendo da che parte stare.
Sta qui il senso della celebrazione eucaristica: imparare «ekklesialmente» ad ascoltare la Parola per avere gli strumenti del discernimento allo scopo di saper scegliere dove stare e come. Il rapporto con Dio potrebbe essere vissuto in maniera individuale e privato, ma vivendo nel mondo, abitato da uomini e donne che fanno o subiscono eventi, anche drammatici, è necessario condividere con altri la propria esperienza, «la propria porzione di Spirito». L’Eucaristia è la scuola infallibile dove lo Spirito ci affina e la Chiesa ci protegge da rischio di essere auto-sufficienti.
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