Mensa della Parola: Ez 17,22-24; Sal 92/91, 2-3;13-16; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34
La 1a lettura è tratta dal profeta Ezechiele, un sacerdote di Gerusalemme, deportato nel 597 a.C. in esilio a Babilonia insieme al re Ioiachìm dopo la disfatta del regno di Guida a opera di Nabucodònosor. Il profeta, uomo dalla fervente ed esuberante fantasia, si dedicò a consolare il suo popolo oppresso e depresso, attento a quanto stava accadendo sullo scacchiere delle grandi potenze. Babilonia è equiparata a un’«aquila grande» che «venne sul Libano e strappò la cima del cedro» (Ez 17,3), cioè la tribù di Giuda, rappresentata dal deposto re Ioiachìn, anche lui deportato a Babilonia. Il «germoglio» di cui parla Ez 17,5 è il re Sedecìa, messo sul trono di Guida da Nabucodònosor e quindi senza alcuna autorità. Un’altra «aquila grande» è descritta dal profeta (Ez 17,7), simbolo dell’Egitto, cui si rivolge Sedecìa per fare alleanza e scrollarsi di dosso il dominio babilonese. Fu un disastro, perché Israele subì una disfatta (Ez 17,7-8.9-10), mentre all’orizzonte della storia si profila un evento di straordinaria portata.
La Persia di Ciro (555-530 a.C.) cominciava a minacciare la stabilità di Babilonia, che sconfiggerà una quarantina d’anni dopo, aprendo così uno spiraglio di speranza per i popoli esiliati. Babilonia, infatti, è stata sottomessa dall’impero persiano di Ciro e Israele, schiavo, cominciò a sperare di porre fine al proprio esilio in terra straniera. Il profeta s’inserì in queste coordinate storiche per preannunciare un possibile ritorno e per mantenere alto il morale del popolo ebreo, parlando per immagini, non fidandosi dell’ambiente circostante e non essendo ancora chiaro in che modo si sarebbe mosso il nuovo «padrone del mondo» di allora. Il nuovo re Ciro, che, per lo stesso motivo, il profeta Isaia non esitò a definire «il Cristo» del Signore (Is 45,1), nel 538 con un editto concesse la libertà ai popoli sottomessi da Babilonia, compreso Israele, che venne autorizzato a ricostruire Gerusalemme e il suo tempio. Il popolo oppresso divenne un «ramoscello» che il Signore avrebbe preso dalla «cima del cedro» (Ez 17,22), cioè dalla tribù di Giuda, per piantarlo nuovamente nella terra promessa. Si profila un nuovo esodo ideale sul canovaccio dell’esodo dall’Egitto col passaggio del Mare Rosso: «una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata» (Sal 80/79,9), che, con un riferimento al profeta Isaia, intendeva affermare il progetto di Dio sulla stabilità del casato di Davide e la sua discendenza: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1).
Il tema dell’albero è ricorrente nella Bibbia, da quello della vita nel giardino di Èden (Gen 2,9), che non è più un albero mitico, ma il «segno» dell’obbedienza alla parola del Signore (Gen 3,22), a quello dell’Apocalisse che porta frutto di eternità (Ap 2,7). Sullo sfondo di questo aspetto si svilupperà la riflessione del sapiente che privilegia la prospettiva morale come appello alla coscienza. Il tema dell’albero cambia prospettiva con i profeti che lo usano in chiave storica: l’albero è Israele che porta i frutti dell’alleanza (Is 5,1-7; Ger 2,21; Ez 15; 17,22; 19,10-14; Sal 80/79,9-20). L’esilio in Assiria o in Babilonia è espresso con l’immagine della recisione dell’albero che non porta frutto e viene gettato via (Gv 15,2.4.6), ma Dio non può venire meno alla sua fedeltà e allora interviene ancora e ripianta Israele nuovamente nella terra dei Padri (Ez 17,20-24). Accanto a questa corrente di profezia si sviluppa anche un secondo pensiero profetico che paragona il Re, e di conseguenza anche il Messia, a un albero(Gdc 9,7-21; Dn 4,7-9; Ez 31,8-9); questa considerazione è comune in oriente perché espone l’idea della salvezza dei molti che trae origine dalla vita di uno solo: è la sostituzione vicaria per cui il re è la personificazione di tutto il suo popolo. La riflessione d’Israele però non si ferma per cui anche il giusto, cioè colui che vive di e in Dio, è equiparato ad un albero rigoglioso e fruttifero: «È come albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo» (Sal 1,3; 92/93,13-14; Ct 2,1-3; Sir 24,12-22) perché è un albero che Dio stesso irrigherà e renderà fecondo come mai (Ez 47,1-12). Anche Gesù si riferisce all’immagine dell’albero, prendendo atto che Israele non ha dato frutti (Mt 3,8-10; 21,18-19), per cui propone se stesso come l’albero della vita che dà frutto (Gv 15,1-6). È lui, il Cristo, l’albero definitivo della vita trapiantato dall’Apocalisse nella Gerusalemme celeste, che sperimenta una nuova riedizione del giardino di Èden popolato da alberi ricolmi di frutti d’eternità (Ap 2,7; 22,1-2.14.19). In questa corrente s’innesta anche san Paolo quando parla di «frutto dello Spirito» (Gal 5,22), intendendo le opere della vita nuova come pegno e garanzia per la nuova umanità.
Nella 2a lettura l’apostolo celebra la riconciliazione dopo la crisi vissuta con la comunità di Corinto, che è sempre stata conflittuale con il suo fondatore. Il brano riportato dalla liturgia odierna si può capire solo se si legge anche il primo versetto del capitolo: «Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2Co 5,1), da cui rileviamo che il pensiero di Paolo espone la teologia diffusa nel NT della spiritualizzazione del tempio. I Giudei, che riconoscevano Gesù come Messia e ne diventavano discepoli, facevano fatica a ritrovarsi nel tempio e in sinagoga per cui ben presto lo sostituirono nell’umanità di stesso Gesù, che così diventava il «Luogo» dell’incontro con Dio (2Co 5,1; Mt 14,58; Gv 2,19). Non è più necessario «salire a Gerusalemme» per andare nel tempio del Signore; Dio è nel cuore stesso dell’umanità, perché in essa il Figlio ha posto la sua tenda «non fatta da mani d’uomo» (2Co 5,1). Ogni credente vive ancora lontano dall’intima unione con il Cristo di Dio, per cui in qualche modo sperimenta l’esilio come i suoi progenitori, il popolo d’Israele, infatti, visse a Babilonia e in Assiria (2Co 5,6). Questo esilio però è meno tragico e drammatico di quello degli Ebrei, perché, partecipando alla resurrezione del Signore e avendo ricevuto lo Spirito suo, ogni battezzato nel suo Nome è «la tenda» dell’alleanza (2Co 5,4; 1Co 3,16) nella quale si celebra il Patto quotidiano dell’intimità nella parola e nella testimonianza. Paolo offre anche la chiave per superare il passaggio più doloroso della vita, cioè la morte, perché innesca il desiderio di andare incontro al Signore, non più come «salita a Gerusalemme», ma come aspirazione di vedere e godere il volto di Dio che abbiamo già sperimentato nel volto umano di Gesù. Se Mosè ha desiderato ardentemente «vedere» il volto di Dio e non ha potuto essere esaudito pienamente se non di riflesso, (Es 23,15; 34,23-24; Dt 16,16), ora nel tempo messianico della Chiesa, squarciato il velo del tempio (Mc 15,38; Lc 23,45; Mt 27,51), Dio è accessibile in tutto il suo splendore insieme a tutti i popoli della terra che convergono verso il monte del Signore (Is 2,2-5) per abitare sempre con lui (2Co 5,6-9). L’altare è per noi il tempio della rivelazione e della visione perché sperimentiamo il Pane e il Vino, i segni poveri dell’impotenza di Dio che si lega a noi, adeguandosi alla nostra misura. Non abbiamo più bisogno di scalare il cielo, ora basta sedersi a mensa perché è Dio stesso che viene ad imbandire il banchetto (Is 25,6) attorno al quale mangiamo il pane e il vino preparati da «donna Sapienza» per i suoi figli di tutti i tempi (Pr 9,5).
Dopo il battesimo e le tentazioni nel deserto, dopo la chiamata dei primi discepoli come testimoni qualificati del suo ministero itinerante, dopo molte guarigioni e i primi scontri con i farisei, rappresentanti della religione ufficiale, e la sua famiglia di sangue, nel capitolo 4 Mc raccoglie tre parabole, tra le quali quella del seminatore spiegata ai discepoli (Mc 4,1-20), e alcuni insegnamenti sotto forma di due parabole-sentenze: la lampada sul candeliere (Mc 4,21-23) e il metro di compensazione per cui si sarà misurati allo stesso modo con cui ciascuno misura gli altri (Mc 4,24-25). Le due parabole odierne sono il seme che nasce da solo e l’albero di senape, riparo degli uccelli del cielo. Possiamo definirle come parabole di contrasto. I primi cristiani si domandavano se Gesù non avesse fallito la sua missione dal momento che pochi Ebrei lo avevano riconosciuto come Messia, ma principalmente per la fine ingloriosa che ha fatto: crocifisso come un malfattore. Qual è il senso di tutto ciò? A questi dubbi e a questi interrogativi risponde l’evangelista, invitando ad andare oltre le apparenze perché agli occhi di Dio, dalla sua prospettiva, ciò che sembra fallimento può essere un metodo, e ciò che appare senza senso può avere una dinamica nascosta che deve essere scoperta e vissuta. Troviamo qui la teologia paolina del capovolgimento che attua la logica delle beatitudini e fa vedere la storia alla luce di un’altra angolatura: «27 Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; 28 quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono» (1Co 1,27-28).
Questa è logica della croce e del Dio che ha inchiodato su di essa la propria onnipotenza per indicarci la via, la sola che conduce alla risurrezione: nessun fallimento può avere il sopravvento su di noi, se impariamo il metodo di Dio che non esita a svuotare se stesso (Fil 2,7) e permettere a noi di accedere alla sua parola, al suo Pane, e al suo Vino. Ognuno di noi può essere paragonato a un albero perché abbiamo le radici della nostra storia, il tronco della nostra personalità, i rami e le foglie dei nostri sentimenti, la linfa delle nostre relazioni e i frutti delle nostre azioni. Un albero non vive per se stesso, ma solo in funzione di chi se ne serve, prendendone i frutti o sfruttandone l’ombra. Mai un albero si è chiuso in se stesso e ha detto: io vivo per me stesso. Neppure noi possiamo vivere ripiegati su di noi. Chi lo facesse, sarebbe un derelitto perché avrebbe come misura la grettezza, l’avarizia e l’egoismo che sono i frutti dell’isolamento spirituale e dell’accidia sociale. L’albero, al contrario, estende i suoi rami in alto e in orizzontale; è espansivo per natura e per vocazione, come la croce, l’albero nuovo della vita, il quale spalanca i rami sull’umanità e s’innalza verso Dio, offrendo a tutti il frutto maturo di Cristo morto e risorto che annuncia a noi la verità su Dio, comunione di persone, Trinità di relazione. Siamo stati trapiantati nel cuore di Dio e anche quando ci sentiamo in esilio e abbandonati, smarriti e paurosi, Dio in silenzio preserva il germoglio che custodisce dentro di noi, in attesa del tempo della crescita perché diventi un albero rigoglioso, sorgente di ombra accogliente e generoso di frutti ristoratori.
Esame di coscienza
Ai piedi del monte di Dio, che è l’altare dell’Eucaristia, piantiamo l’albero della Parola che genera per noi il frutto del Pane e del Vino, gli alimenti della nostra libertà e del nostro bisogno di comunione. Sostiamo all’ombra dello Spirito e impariamo cosa vuol dire «essere liberi» alla luce del vangelo, che ci libera da ogni superfluo per renderci idonei all’essenziale. Visitiamo senza paura la casa del nostro cuore e lasciamoci incontrare dal Dio di Gesù Cristo che ci pervade con il suo Spirito perché possiamo sempre più essere noi stessi, liberi da noi stessi e liberanti per gli altri.
Signore, veniamo nel tuo tempio perché tu purifichi il nostro cuore che anela a te. Kyrie, elèison!
Cristo, tu sei il germoglio che il Padre ha piantato perché portassimo frutti di vita. Christe, elèison!
Signore, tu ci doni lo Spirito, la linfa che alimenta l’albero della nostra fede. Kyrie, elèison!
Cristo, tu ci convochi all’ombra dell’albero della vita che è la croce di risurrezione. Christe, elèison!
Dio, che consola il suo popolo in esilio, custodendo il germoglio da trapiantare nella terra della vita perché porti testimonianza e frutti di condivisione; che si prende cura dei giusti per farli germogliare come palme e cedri del Libano; per i meriti di tutti i giusti d’Israele e della Chiesa santa e peccatrice, per i meriti del Signore Gesù, l’albero della vita che porta il frutto eterno della risurrezione attraverso lo Spirito di consolazione, abbia pietà di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
Gesù si rivolge alla folla, che in Mc 4,11 è definita con l’espressione «quelli che sono fuori», destinataria delle parabole. Parla a tutti con le immagini vive e vitali desunte dalla vita agricola e campestre e poi ognuno deve rileggerle attraverso la propria esperienza che può essere religiosa o culturale; ai discepoli invece le parabole vengono spiegate, perché devono avere la chiave di lettura autentica e non possono improvvisare, perché saranno tentati di parlare a nome di Dio e non devono correre il rischio di confonderlo con le proprie convinzioni. Le due parabole sono legate insieme perché hanno un andamento omogeneo: «un uomo» senza articolo determinante ha valore generico di «un uomo senza qualifica». L’uomo senza nome e volto svolge un’azione: getta il seme sulla terra, come il «luogo» dell’umanità, la «casa comune» che qui diventa l’obiettivo del seme, quasi a dire che ogni persona, uomo/donna, è figlia della terra, cioè è parte del tutto. È questo il senso delle spiegazioni che dà Gesù stesso della parabola del seminatore (Mc 4,10-20)
Il seme dal canto suo mette in moto un processo di sviluppo, ma in modo indipendente dall’attività dell’uomo che lo ha gettato. Egli pertanto è presente, ma è ininfluente e anche passivo: di fronte al processo di crescita del seme che si sviluppa secondo un ordine intrinseco (stelo, spiga, chicco), l’uomo può solo attendere e l’attesa diventa l’attività più intensa perché mette in moto un altro processo interiore che non è visibile e spesso è silenzioso. Chiunque sia in stato di attesa di qualcuno o di qualcosa attiva la speranza del risultato, ma anche il possibile fallimento di esso; l’ansia di vedere e l’impossibilità di prevedere; il desiderio di anticipare i tempi e la lentezza di dover rispettare i tempi di crescita; l’aspettativa della riuscita e anche la paura della delusione. Nell’attesa tutti i sentimenti umani sono messi in movimento e rendono irrequieti, pur dovendo restare solo ad attendere il momento propizio. Durante il tempo dell’attesa la caratteristica dell’uomo è l’ignoranza: sa che sta avvenendo un processo di vita, ma non sa come ciò accade; vorrebbe gestirlo, ma deve solo subirlo; può essere presente, ma non può intervenire: sia che stia sveglio, sia che dorma, il seme procede da solo, cresce e si realizza in forza della sua natura e della terra che lo ha accolto. La terra vive il processo di crescita e mette in atto le condizioni perché esso si svolga pienamente, non trattiene il seme, ma lo accompagna, lo sostiene e lo lascia andare: lo accoglie per lasciarlo libero, non per imprigionarlo. È la dinamica della crescita verso la maturità che ogni educatore dovrebbe mettere in atto: accogliere creando le condizioni della libertà e spingendo verso la libertà nel cuore dalla quale soltanto può svilupparsi la coscienza della responsabilità.
Osserviamo la nostra vita: Dio ci sembra assente perché agisce e non si presenta secondo i nostri schemi e le nostre categorie, mentre in realtà non è mai andato via, perché resta lì ad occhi chiusi ad aspettare che la terra della nostra vita spinga il seme e questi cresca e germogli fino a portare frutti di maturazione e di relazioni. Se è vero che non possiamo disporre nemmeno del numero dei nostri capelli (Mt 10,30), è pur vero che possiamo accompagnare la crescita di qualsiasi seme, condividendone la fatica e la gioia. La caratteristica di questa parabola è il superamento del particolarismo d’Israele attraverso l’annuncio di Gesù che è rivolto «a tutti»; si mette così in evidenza l’universalità del messaggio esposto a tutta l’umanità. Il testo, infatti, dice che «un uomo ha gettato il seme sulla terra» (Mc 4,26): non è il terreno circoscritto della seminagione; non è il contadino che si occupa del suo pezzo di terra; al contrario qui si tratta di tutta quanta «la terra», intesa come abitazione dell’umanità. Lo stesso avviene nel racconto del paralitico (Mc 2,1-13 e in modo esplicito in Mc 13,10 e 14,9). Sta qui la novità della «signoria di Dio»: il messaggio del vangelo è indirizzato a tutta l’umanità per cui chi segue il Cristo, accetta di accogliere tutti come suoi consanguinei e familiari. Al seguito di Gesù si diventa discepoli di un Dio che abolisce i confini del tuo e mio, le definizioni di cittadinanza e di nazionalità per costituire una «nuova umanità», che si chiama regno di Dio, a cui tutti, nessuno escluso, possono accedere: «Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt 18,14).
Possiamo dire che il vangelo prospetta un «regno» sulla terra che è l’abitazione «comune» dove l’umanità è chiamata a realizzare lo schema di alleanza che ha sperimentato con Israele e che ora propone in maniera rinnovata in Gesù che comporta un’idea di comunità universale. Nessuno può essere escluso perché la terra è di Dio che la governa tutta (Sal 58/57,12). Da questo punto di vista, sia il seme che la terra hanno una portata educativa: essi insegnano il valore del tempo, il senso dell’impotenza e l’importanza della collaborazione. Si cresce insieme: o si riesce insieme o si fallisce anche da soli. Il tempo della Chiesa è il tempo della scuola dove s’impara la convivenza con tutta la «terra», avendo la certezza che essa porta in sé il seme di Dio e dell’umanità.
Il credente in Gesù non solo supera, ma rigetta qualsiasi forma di nazionalismo, di etnìa, di confine. Certo i confini possono esistere, ma solo per motivi organizzativi e pratici, e non possono essere ideologici o peggio segnali di appartenenza: questo è mio. Nella comunità cristiana si fa «noviziato» per apprendere, prima di entrare nel cuore di Dio, l’universalità come orizzonte, la fraternità come dimensione normativa e la condivisione come regola quotidiana. Il mondo laico è stato capace di esprimere questo con le parole «Libertà, Fraternità, Uguaglianza» (Rivoluzione francese del 1789). Possono i figli di Dio, colui che essi nella preghiera dicono non Dio, ma «Padre nostro», essere da meno? Pietro lo dice espressamente, mettendoci in guardia da una fretta inconcludente: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). La crescita di ciò che conta ha la caratteristica della lentezza, così come il dolore esige tempo per acquietarsi, come l’amicizia ha bisogno di tempo per «accudirsi», come l’amore e la preghiera hanno bisogno di tempo per esistere ed esprimersi perché si realizzano solo nel «perdere tempo per la persona amata». In questa dinamica l’attività dell’uomo o del contadino, o del genitore, o dell’educatore può essere l’inattività, anche lunga, ma proiettata nella prospettiva della mietitura, la stagione della raccolta dei frutti. È evidente che l’accenno alla falce e alla mietitura è un richiamo al profeta Gioele che annuncia il giudizio finale, descrivendolo alla maniera profetica, come raduno universale di tutti i popoli (Gl 4,12-14).
Anche l’Apocalisse descrive la fine della storia come una mietitura per opera della falce: «Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura» (Ap 14,14-16). La mietitura nella Bibbia è l’immagine del giudizio di Dioche inaugura il regno definitivo, perché opera il discernimento, anzi la verità, tra ciò che è consistente (il frutto) e ciò che invece è superfluo e passeggero (la paglia, la pula, la zizzania). Cristo appare come abbandonato a se stesso: è venuto per portare un vangelo di alleanza e di novità e invece è rifiutato e combattuto proprio da chi aveva gli strumenti per riconoscerlo. È il tempo del silenzio di Dio che solo chi ha lo sguardo complessivo della storia legge in vista della mietitura finale, come l’inettitudine e l’inattività del contadino hanno senso se viste in funzione del raccolto finale. Alla richiesta dei segni particolari perché dimostri di essere il Messia, Gesù si rifiuta e si abbandona alla dimensione dei tempi di crescita, aspettando che il seme della sua parola produca il suo frutto, cioè scenda nel profondo del cuore.
Le due parabole di oggi, quindi, vogliono rispondere a questo interrogativo: se Cristo è venuto per inaugurare il regno perché ha permesso di essere avversato e combattuto e di sperimentare egli stesso insuccesso e fallimento? Perché la sua predicazione non ha avuto l’effetto dirompente che avrebbe dovuto avere, come è accaduto in Egitto, a Pasqua, al Sinai per l’alleanza? Perché Dio non impone la verità con la sua onnipotenza? L’atteggiamento di Cristo si rivolge a un altro villaggio accettando l’insuccessoimmediato, lasciando il tempo necessario per la crescita e la scoperta della sua personalità. La pazienza e il senso di inutilità apparente portano i loro frutti, come spiega bene la seconda parabola del seme di senapa. A vederlo sembra insignificante, tanto è piccolo e microscopico, ma quando cresce diventa riparo di tutti gli uccelli del cielo. Tra le due parabole vi è corrispondenza: nella prima si parla di terra, intesa come abitazione dell’umanità; nella seconda si parla di cielo come luogo proprio degli uccelli. Abbiamo qui dunque l’espressione semitica «terra e cielo» che ci riporta ancora una volta al tema dell’universalità, perché indica la totalità, il tutto, racchiuso tra gli estremi (cielo e terra).
L’evangelista non dice che gli uccelli fanno il nido sui rami, ma «che gli uccelli del cielo possano accamparsi alla sua ombra» (Mc 4,32). Il verbo greco richiama l’atto del nomade che «pianta la tenda» per ripararsi dal sole o dal freddo della notte. L’umanità può aspirare a ristorarsi all’ombra dell’albero del vangelo, che sembrava avere fallito perché rifiutato dalla maggioranza di coloro che lo hanno, forse, sentito, ma non ascoltato. Alla luce di questa parabola si può leggere la strategia che il vangelo esige per instaurare il regno di Dio. Il vangelo del granello di senapa ci insegna che i mezzi del regno devono essere adeguati alla natura di esso e al fine che si prefigge, che non è quello di dominare, ma di servire, non quello di sfruttare, ma di unire nella solidarietà di comunione.
Un regno che annuncia le «Beatitudini», il «Magnificat» e la politica del «Padre nostro», deve necessariamente usare mezzi «non di questo mondo», che devono essere poveri. La povertà, poi, deve essere vera e visibile sia nelle strutture che nelle persone impegnate nel ministero. Non possono esistere mezzi ricchi per annunciare «Beati i poveri… guai ai ricchi»: sarebbe, anzi è una contraddizione insanabile. Dio è una persona seria e noi dobbiamo essere coerenti fino in fondo, fino allo spasimo. La chiesa del granellino di senapa deve essere povera e deve anche apparire povera. Il lusso non è dei poveri, e la realtà deve essere la povertà, come il pane, il vino e l’acqua sono i simboli della povertà di Cristo. Nella logica del vangelo essere ed apparire sono sinonimi, con identico valore e specchio dello stesso volto credibile di Dio.
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