Mensa della Parola: Gb 38,1.8-11; Sal 107/106, 23-24. 25-26. 28-29. 30-31; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41
I mari hanno sempre suscitato negli uomini antichi sentimenti di impotenza e di paura, tanto che si riteneva che negli abissi di essi abitassero gli spiriti nemici dell’umanità. Dominare le acque è un potere di Dio creatore. L’acqua è al tempo stesso nemica e amica dell’uomo: è nemica quando si rivolta contro con le alluvioni, i maremoti, i temporali violentissimi del deserto che mettono a repentaglio la vita delle carovane e degli armenti. È invece amica, quando disseta, quando irriga i campi, quando si rende disponibile nelle oasi, quando si può disporre di un pozzo che è la vera ricchezza dell’uomo orientale e del suo gruppo. Quando uno o un gruppo vogliono sfregiare e rovinare il nemico, inquinano e avvelenano i pozzi con lo sterco degli animali: è l’offesa più grande, perché mette in pericolo la vita di un’intera tribù. I patriarchi biblici vivono la loro esistenza migrando per pozzi e alla ricerca di pozzi e chi ne trova o ne scava uno deve lasciare ben visibile un segnale per coloro che vengono dopo. L’acqua non è mai proprietà privata, ma diritto di tutti.
La prima lettura ci rivela la mentalità ebraica del sec. V a.C., epoca in cui non solo fu redatto il libro di Giobbe, ma specialmente perché è l’epoca in cui si raccolgono le tradizioni che compongono il Pentateuco, compresi i racconti di creazione (Gn 1 e 2) che risentono l’influsso delle cosmogonie contemporanee, specialmente babilonesi. La nascita del mondo ha sempre affascinato e incuriosito l’uomo. Il libro di Giobbe risponde con la riflessione dominante nel sec. V a.C. in cui Israele vive sotto l’influsso delle dottrine babilonesi.
La creazione è una lotta, un combattimento tra Dio e le acque (Gn 1,2), vinto da Dio che sottomette non solo le acque, ma anche i mostri marini che essa contiene. La vittoria di Dio è spesso enfatizzata come «minaccia»: Dio le «sgrida» e le acque si acquietano. La stessa immagine di Giobbe che descrive i confini posti da Dio al mare, è utilizzata in forma più poetica dal salmista che immagina Dio che racchiude il mare come in un otre e mette i serbatoi negli abissi per conservare le acque (Sal 33/32,7). Il salmo odierno 107/106 sviluppa il tema della creazione in provvidenza: ispirato al 2° Isaia (Is 40-54), ricorda le «provvidenze» di Dio come l’esodo, il ritorno dall’esilio, il sostegno ai sofferenti e a quanti viaggiano per i mari. Tutto ciò non sorprende nel contesto biblico, dove la stessa storia della salvezza è letta e interpretata come una lotta tra Dio e le acque che si frappongono alla libertà del popolo d’Israele: è questo il senso del passaggio del Mar Rosso.
L’uomo moderno si è evoluto e ha acquistato un dominio sempre maggiore sulle forze naturali fino a dominarle, ma anche quando queste forze si rivelano ancora imprevedibili e superiori, egli non ricorre più all’intervento di un Dio «combattente», bensì va alla ricerca delle risposte scientifiche per trovare una spiegazione soddisfacente. Ciò non è negazione di Dio, ma rispetto della volontà dello stesso Creatore che ha consegnato la terra alla gestione autonoma dell’uomo e della donna (Gn 1,28-30). Oggi l’uomo è in grado più dell’antico di avere di Dio un’immagine non meccanica e materiale, essendo capace di una religiosità più profonda e dinamica. Il «Dio di Gesù Cristo» non è il «dio-tappabuchi» di cui si serve la religione per dominare. La lotta descritta nelle letture di oggi è una lotta mistica tra Dio e le potenze del male: a questo combattimento spirituale siamo ammessi anche noi perché ogni giorno dobbiamo solcare il mare agitato della vita che ci obbliga a scelte, errori e anche a tradimenti e cedimenti. Facendo sosta al monte di Dio che è l’Eucaristia, riprendiamo la nostra bussola per camminare secondo coscienza.
Esame di coscienza
Non può esserci combattimento senza equipaggiamento adeguato e la nostra lotta non è contro qualcuno o qualcosa, ma un percorso di purificazione per costruire la pace in noi stessi, con gli altri e con Dio. L’equipaggiamento per la nostra lotta spirituale è il perdono di Dio che ci restituisce alla nostra integrità, alla nostra dignità perché essa è capace per il sostegno dello Spirito Santo di riconoscere la propria fragilità e la grandezza di Dio. Dal profondo del cuore chiediamo perdono per i nostri peccati.
Signore, che domini le acque del cielo, liberaci dalle acque della superbia. Kyrie, elèison!
Cristo che sgridasti la tempesta, acquieta i desideri disordinati del cuore. Christe, elèison!
Signore, che salvi i piccoli e i poveri, salvaci dal peccato di presunzione. Kyrie, elèison!
Il Dio dell’alleanza con i padri Abramo, Isacco e Giacobbe e le madri Sarà, Rebecca, Lia e Àgar, Dio Padre del Signore Gesù e degli apostoli, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen
Spunti di riflessione e preghiera
Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (indemoniato). Nell’uomo Gesù si è manifestata la potenza di Dio che conduce la creazione e libera l’umanità dalla schiavitù del male che la imprigiona. Gesù manifesta i poteri di Dio creatore, imponendo alle acque di ritirarsi, e i poteri di Dio legislatore, guarendo i figli dell’alleanza. Proviamo a leggerli in parallelo e scopriremo che Mc vuole presentarci Gesù come colui che con la sua venuta riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», perché domina gli spiriti che rendono schiavo l’uomo come fece il serpente nel giardino di Eden (Gn 3) e impone la sua autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gn 1).
Gli ebrei e i cristiani erano spinti ad abbinare la persona di Gesù con Yahwèh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e onnipotente(Sinai). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio che riprende in mano l’opera creatrice di Dio compromessa da Adamo ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori e domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione per colpa dei progenitori fu assoggettata alla decomposizione perché il peccato di Adamo ed Eva immise nel mondo l’attitudine alla corruzione, causa di distruzione e morte (diluvio in Gn 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» Creatore che è venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione (l’attesa sofferente della creazione in Rm 8, 18-23).
Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente utile a trattenere le acque della pioggia, mentre i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone (Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggia su colonne piantate sulla terra piatta che così forma una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (Gn 1,7). Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Quando Dio chiude le cateratte, si scatena la tragedia della siccità che genera morte.
Le quattro chiavi, che Yahwèh non ha affidato nemmeno a un angelo, appaiono ora nelle mani di Gesù che quindi è come Yahwèh o sullo stesso suo piano. In questo modo, l’autore intende insinuare che egli è veramente in Dio. I primi cristiani provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti di lingua greca si fosse mantenuto il ricordo delle tradizioni giudaiche e applicate secondo le circostanze.
Della tradizione delle quattro chiavi abbiamo indizi in tutto il vangelo e ci fanno capire meglio certe espressioni di Gesù:
Chiave dell’acqua: «Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).
Chiave del nutrimento: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).
Chiave dei sepolcri: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25)
Chiave della sterilità: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).
Entriamo nel vivo del vangelo, dando una traduzione più letterale:
Mc 4,35: In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: «Passiamo all’altra riva».
La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato. La sera incombe sempre come simbolo del sonno e della morte. Essa naturalmente impone da sé il bilancio della giornata, anticipo di quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo, bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non finisce con noi, ma c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che nell’urgenza della missione c’è sempre un‘altra riva che aspetta. La riva è sempre dall’altra parte, è necessario che siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare ad esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio non al teatro delle debolezze umane. «Passare oltre» è anche il nome di «Pasqua», dunque è un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza ci propone. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – e in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci lascia avventurare nei sentieri di Dio bisogna lanciarsi non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente.
Mc 4,36: Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui. Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se altri si prendono cura di noi, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciar condurre da altri, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che è per natura e per grazia, «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella braca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, noi custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche.
Mc 4,37: Allora sopraggiunse una forte tempesta di vento; le onde si scagliavano contro la barca tanto che ormai era piena.
Questo versetto pone il problema della presenza di Dio che il nostro ateismo religioso semplifica con la convinzione che Dio dovrebbe intervenire come un orologiaio ad aggiustare le cose della natura e gli errori degli uomini. Quando si dice: se Dio è Padre (se è buono, se è onnipotente, ecc.), non dovrebbe permettere questo o quello, il dolore, la sofferenza, i cataclismi, noi non siamo consapevoli della bestemmia che stiamo pronunciando, ma affermiamo la nostra incapacità di credere. La presenza di Dio nella barca della vita e della chiesa non ci risparmia il cammino personale della nostra storia e del nostro percorso di maturazione con la fatica che comporta e le regole insite nella vita stessa che è vita «umana», cioè limitata, caduca, mortale. Essere cristiani non ci mette al riparo dalle tempeste e dalle bufere che possono anche sovrastarci. Sullo sfondo di questo racconto c’è quello di Giona che scappa da Dio perché non accetta che egli sia «salvatore» dei pagani e si mette a dormire nella stiva (Gio 1,5), scatenando così una grande tempesta che solo l’ammissione della colpa farà cessare. Nel racconto del vangelo la colpa della tempesta è determinata dall’ incredulità degli apostoli (vv. 40-41) che vorrebbero impedire a Gesù di andare verso i pagani. È lo stesso atteggiamento che moltissimi cosiddetti credenti hanno verso gli immigrati, i poveri del sud del mondo che vengono, novelli «Lazzari», a mendicare le briciole delle nostre mense (Lc 16,21).
Al di fuori di questa logica che è quella dell’agàpe, il sacramento per eccellenza del riconoscimento dell’altro e dell’accoglienza, ogni discorso religioso, diventa un gargarismo vacuo. La tempesta è un’opposizione all’ordine di Gesù: «Passiamo all’altra riva». I Giudei che si ritengono superiori ai pagani non vogliono mischiarsi con essi. Se così fosse il Dio di Gesù Cristo rimarrebbe ancora nell’ambito della concezione territoriale: il Dio di una parte, non il «Padre nostro» di tutta la famiglia dei popoli della terra.
Mc 4,38a: Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Il versetto è drammatico per due motivi: mentre tutto attorno parla di paura e di pericolo mortale, l’evangelista sottolinea il contrasto di un Gesù che se ne sta a poppa, cioè in fondo alla barca, dietro a tutti. Quasi indifferente e disinteressato a quanto accade. Non solo, se ne sta anche «sul cuscino», che è un non senso in questo contesto. Una barca di pescatori non porta un cuscino per riposare comodi; la barca è sporca, piena di salsedine e nessuno porterebbe un cuscino in essa. Bisogna fermarsi e interrogarsi sul senso «nascosto» che l’evangelista vuole esprimere, probabilmente ricevuto dalla tradizione orale che vi ha annesso un significato importante. Il cuscino (lett. capezzale, guanciale, cuscino) è un termine che indica ciò che si mette sotto la testa di un defunto.
In questo contesto, allora il cuscino e il sonno di Gesù sono un riferimento anticipato alla sua morte e alla sua lontananza: verrà veramente un giorno in cui Gesù non ci sarà più fisicamente e regnerà l’angoscia della persecuzione: «Ancora un poco e non mi vedrete più» (Gv 16,16-20, qui 16). L’episodio è un’evidente riflessione post-pasquale, quando ci si interroga in che modo Gesù assente fisicamente possa essere presente nella storia. Come a dire: il Signore è morto, se n’è andato, noi siamo soli in balia delle onde: chi ci salverà? Perché il Signore ci abbandona e non interviene? È il dramma che si consuma nella storia, specialmente del sec. XX, che vide i genocidi pensati scientificamente, la shoàh programmata in ogni particolare. In tutto questo: dov’era Dio? Con una formula a effetto oggi si parla di «silenzio di Dio». Già nel capitolo 4, l’evangelista ci mette in guardia che andare dietro a Gesù non è una passeggiata, ma un cammino verso la morte e la morte violenta (tempesta). La vita di Gesù descritta nei vangeli, è illuminata costantemente, a posteriori, dalla luce della Pasqua: morte e risurrezione, che ci vengono offerte come le chiavi per entrare nella dinamica del pensiero di Dio.
Mc 4,38b: Allora lo svegliano (lo risorgono) e gli dicono: “Maestro, non t’importa che moriamo?”.
Non è sufficiente per loro la presenza assente del Signore, essi lo vogliono vedere all’opera e quindi non si rassegnano alla sua morte. Quando non ci si rassegna per pavidità o interesse si è sempre fautori di risurrezione per gli altri. Gli apostoli sembrano dire: come facciamo adesso che tu non ci sei? È un’accusa a Dio di non occuparsi di loro. Questo verso dice la fatica che vissero gli apostoli nel loro cammino di fede prima di interiorizzare la risurrezione e la presenza di Gesù nella dinamica delle proprie responsabilità. Solo dopo la Pasqua con l’irruzione dello Spirito Santo, capiranno che sono essi i responsabili dell’«Assenza-presente» del Signore Gesù attraverso la testimonianza.
Mc 4,39a: Dopo essersi svegliato, intimò al vento e disse al mare: “Silenzio! Sta’ zitto!”.
Gesù deve risorgere perché i suoi apostoli non sono in grado di portare/reggere la sua morte: sono perduti. Egli deve svegliarsi dal sonno della morte e riprendere in mano la situazione per ristabilire i confini della competenza di Dio e quelli della natura. «Intimò» (io intimo/minaccio) è un verbo che è riservato all’autorità con cui Dio domina le forze negative (Sal 9,6; 67/66,31; 105/104,9; 118/117,21), mentre nel NT anche Gesù lo utilizza negli esorcismi contro le forze del maligno che dominano l’uomo (Mc 1,25 per l’uomo posseduto e Mc 3,12 per gli spiriti impuri). Il mare è sede degli spiriti malvagi ed è dominato da Gesù che assume su di sé la potenza creatrice di Dio: «Silenzio! Sta’ zitto!». Il silenzio che impone Gesù è quello del suddito che deve obbedienza al suo signore.
Mc 4,39b: Il vento cessò e sopraggiunse una grande calma.
Alla parola autoritaria di Gesù corrisponde un fatto: «il vento cessò». Gesù domina le acque come Yahwèh dominò il Mare Rosso (Es 14,15-31), come il creatore dominò gli abissi e le acque delle origini (Gn 1) che regolò e rinchiuse entro i confini prestabiliti. In Gn 1, abbiamo lo stesso schema: «Dio disse …. E così fu!» (Gn 1,3.6-7.9.11.14-16.20-21.24.26-27.29-30). Anche Gesù ordina, intima, comanda e così avviene. Gesù è il senso nuovo del creato e con lui l’ordine della creazione è ristabilito per essere riportato al suo «principio» e al suo fine. Dio è la prospettiva del nostro senso, la direzione del nostro obiettivo.
Mc 4,40: Poi disse loro: “Perché siete codardi? Ancora non avete fede?”.
Non basta stare fisicamente con il Signore per avere il coraggio della lotta o vivere un impegno di fede. Si può essere specialisti di Dio, praticanti di molta religione, si possono fare indigestioni di preghiere precostituite, si può passare la vita a imparare a memoria la Bibbia, si può essere specialisti di essa, ma si può anche contemporaneamente restare del tutto privi di fede perché fuori dalla prospettiva di Dio e dalla sua logica. La fede non è uno stato o un accredito, ma solo un impegno da assolvere e da condividere. La fede non è la conseguenza di un miracolo, ma la premessa di un incontro che la rafforza e la semplifica: avere fede è una questione di cuore perché il cuore ha l’intelligenza della volontà (Lc 24,25.32). Si crede perché si vuole intraprendere un cammino di fede. Anzi, un’avventura d’amore.
Mc 4,41a: E li prese un enorme timore e si dicevano l’un l’altro:
È la stessa paura dei marinai di Giona (Gn 1,16). È lo stesso stupore e timore degli abitanti di Cafarnao di fronte alla guarigione dell’indemoniato (Mc 1,27) o del paralitico (Mc 2,12). È lo stesso timore e stupore che popola la vita dei discepoli: «Non abbiate paura!» (Mt 28,5.10; Gv 6,20). Se fosse vero che noi crediamo in Dio, nulla e nessuno ci potrebbe smuovere di un solo millimetro dalla trasparenza della testimonianza che non può conoscere né paura né coraggio perché essa esige solo che siamo noi stessi.
Mc 4,41b: “Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”.
Per conoscere «chi è» Gesù non basta stare con lui e condividerne la vita, è necessario partecipare alla sua azione liberatrice. Per stare con Gesù bisogna essere e agire come lui. Somigliare a Gesù Cristo o meglio essere «come lui» significa farsi carico della croce della sofferenza del mondo, diventare cirenei dei poveri della terra e assumere l’annunzio di liberazione del vangelo per combattere ogni forma di ingiustizia e disuguaglianza per impiantare l’inizio del Regno di Dio che ha diritto di cominciare sulla terra per estendere le sue propaggini fino ai confini dell’eternità. Bisogna pescare nel pozzo profondo del proprio essere e divenire una cosa sola con lui che non perde mai di vista il senso della sua vita e non ha paura di sporcarsi le mani. Nell’intervento di Gesù notiamo che egli prima agisce per ristabilire l’ordine e la calma poi parla ai discepoli e li rimprovera. Un secondo elemento è dato dalla personificazione degli elementi della tempesta: il vento e il mare ai quali Gesù parla come se fossero persone. Ciò ci fa supporre fondatamente che il racconto sia da leggersi in modo figurato anche perché Mc usa lo stesso termine per descrivere il silenzio ostile dei farisei (Mc 3,4). I farisei anteponevano la struttura «religione» alla persona: l’osservanza materiale della Toràh prima di ogni cosa. Allo stesso modo il popolo ebraico non immaginava che anche i pagani potessero accedere alla salvezza con gli stessi diritti e le stesse prerogative loro. Gli apostoli, da ebrei religiosi, sono sulla stessa linea.
Con questo racconto simbolico, post-pasquale, quando già Paolo ha evangelizzato i pagani della Turchia e della Grecia, l’evangelista ci presenta il vento/pnèuma come parallelo dello spirito impuro che si è impossessato dei discepoli, la cui mentalità ristretta e chiusa provoca la reazione del mare, simbolo del mondo pagano. Questo è il senso ultimo dell’Eucaristia: prendere coscienza che Dio si prende cura di noi per avere la forza di prenderci cura degli altri.
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