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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 13ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 30/29,2.4.5-6. 11-12a.13b; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

 

Il vangelo di Marco è un catechismo scritto per coloro che si affacciano per la prima volta alla fede e alla conoscenza di Gesù: i catecumeni. L’intento dell’evangelista è semplice: attraverso gli avvenimenti vissuti da Gesù, vuole farne «vedere» la personalità nascosta, quella che la sua umanità non riesce a esprimere appieno. Marco ci dice che non si può separare l’umanità dalla divinità: ogni volta che si tenta quest’operazione per accentuarne un aspetto, si finisce per perdere di vista la persona stessa di Gesù.

Per conoscere Gesù abbiamo una via obbligata che è l’intimità con la sua umana esperienza. L’uomo Gesù precede il Cristo della fede, lo precede sempre, anche dopo la risurrezione: senza l’uomo non possiamo nemmeno immaginare di incontrare Dio. Gesù stesso «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52). Qui si colloca quella caratteristica teologica che si chiama «singolarità» di Gesù Cristo: egli manifesta tutto lo splendore della sua divinità nella pienezza della sua umanità. Non esiste altra strada per incontrarlo. Per incontrare il Dio, bisogna attraversare tutto il cammino dell’uomo Gesù che arrivò a «svuotarsi» (Fil 2,7). Oggi c’è la tendenza a uniformare tutte le religioni per cui si negano le differenze per uniformare al ribasso, evitando così la fatica del dialogo, della ricerca, della sintesi. Eliminare le differenze significa strumentalizzare se stessi e gli altri, perché alla prima occasione, il più furbo o il più lesto prende il sopravvento. Rispettare le differenze invece significa considerare l’altro come un baluardo invalicabile, un limite da rispettare, la parte migliore di sé perché nell’altro, a qualunque cultura o nazione o popolo appartenga, c’è il segno dell’immagine di Dio (Gn 1,27). Chi ama il dialogo, sa ascoltare, ma si rifiuta di semplificare perché ciò spesso significa far diventare tutto semplicistico.

In un contesto di multi-religiosità che oggi coinvolge il mondo intero, a qualsiasi latitudine, il cristianesimo, insieme all’ebraismo, non può essere assimilato a nessuna delle religioni esistenti nel mondo, che, infatti, sono il tentativo di raggiungere Dioattraverso sforzi ascetici e liturgie di separazione dalla materia e dal mondo, considerati il male e il limite assoluto. Il cristianesimo è l’opposto: Dio è venuto a cercare l’uomo nell’unico ambiente dove l’uomo poteva incontrarlo, cioè nella storia e in mezzo agli avvenimenti. Non è l’uomo che diventa Dio, ma è Dio che si fa uomo perché questi, senza eccezione alcuna, potesse incontrarlo, conoscerlo e amarlo. Conoscere il volto «fisico» di questo Dio è la fede. Conoscere Dio non è un processo diretto perché l’uomo Gesù è morto e noi oggi non possiamo raggiungerlo: andando a ritroso nel tempo, siamo obbligati a fermarci ai bordi di un sepolcro vuoto. Noi però possiamo conoscerlo in ogni tempo e spazio attraverso la mediazione apostolica, cioè la testimonianza di coloro che hanno mangiato, bevuto, camminato, dormito con lui (1Gv 1,1-5).

Il vangelo è questa mediazione, perché in esso troviamo le testimonianze credibili di coloro che ci garantiscono l’autenticità del nostro incontro con lui. Non possiamo credere come vogliamo, non esistono modi personali di credere, esiste al contrario un solo modo di credere: la fede apostolica. Coloro che dicono «credo in Dio, ma non nella Chiesa» oppure «credo, ma a modo mio», dicono una stupidaggine frutto di ignoranza. Possiamo essere solo «apostolici». Rigorosamente parlando, noi non possiamo nemmeno dire: «Io credo in Gesù Cristo» perché è un’affermazione astratta. Noi possiamo solo dire correttamente: «Credo nel Gesù annunciato dagli apostoli». Questo è il compito dell’autorità nella Chiesa: affermare solennemente la fede degli apostoli e confermare i credenti nell’autenticità del loro percorso. Ciò esige che l’autorità sia «credente» e libera da altri interessi che non siano il Vangelo e la Chiesa, come progetto non definitivo, ma proiettato verso il Regno del compimento della Storia. L’autorità non nasce da sé, ma è generata dalla testimonianza e dalla sua credibilità. È autorevole chi parla con la propria vita, spesso senza molte, morte parole. Questo è il nostro impegno e la nostra apertura: il futuro è veramente dietro di noi e ci obbliga a vivere il nostro presente. «Chi è Gesù?». Oggi con due racconti incatenati l’uno dentro l’altro ci accompagna a scoprire che Gesù domina la morte e imprigiona il male che tiene schiave le persone: due donne, due emarginate dalla cultura imperante del tempo.

Sullo sfondo del Vangelo fa da risonanza la I lettura, tratta dal libro della Sapienza che riflette sulla morte e la vita, attribuendo la prima a un intervento esterno e non alla volontà di Dio che invece convoca l’uomo e la donna alla mensa della sua immortalità (Sap 2,23). Spesso noi siamo così presi dai nostri piccoli minuti che non ci accorgiamo di smarrire il senso di eterno che urla dentro di noi, restando affannati in una trappola di provvisorietà. Ci lasciamo accompagnare da Marco per scoprire questa dimensione di eternità, invocando lo Spirito Santo. «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Questa è la fotografia del Dio di Gesù Cristo scattata intorno alla metà del sec. I a.C. ed è un imperativo di purificazione per l’idea che una certa forma di spiritualità pagana ci ha trasmesso di Dio. La sofferenza, il dolore e la malattia sono state spesse volte presentate come «volontà di Dio». Il Dio della Scrittura ama i suoi figli e non vuole per loro né la sofferenza, né il dolore, né la morte. Sofferenza, malattia e morte appartengono alla fragilità della condizione umana: esse sono estranee a Dio e alla sua logica che vuole la felicità per i suoi figli. Una certezza ci accompagna in questo cammino di fragilità: quando la vita ci visita con la malattia, la sofferenza e la morte, che sono elementi ordinari dell’umana condizione, noi non siamo soli, perché Dio è «già» lì ad aspettarci per farsi nostro cireneo e compagno di viaggio. Con questi sentimenti affidiamoci alla tenerezza della Trinità Beata. Chiediamo perdono per tutte le volte che abbiamo fatto di Dio un «mostro», quasi che egli potesse alimentare la sua divinità con le disgrazie dei suoi figli. Lasciamoci rapire dalla misericordia di Dio che purificando il nostro cuore purifica anche l’immagine che abbiamo di lui e ci introduce nel pozzo della sua tenerezza.

Esame di coscienza

Signore, tu sei Dio della vita e non della morte, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei la vita del Padre sparsa su tutta l’umanità, abbi pietà di noi. Christe, elèison!

Signore, tu sei venuto a liberare le donne da ogni schiavitù, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison!

Dio Padre, che ha inviato Gesù a rendere giustizia ai poveri, a liberare le donne dalla loro sudditanza senza onore e senza dignità, che ama la vita e dona la sua per salvare i suoi figli, per i meriti dei Santi Apostoli, dei santi Patriarchi e delle sante Matriarche d’Israele, per i meriti della santa Madre del Signore, dei Santi e delle Sante, che attraversano la storia, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti di riflessione e preghiera

L’autore del libro della Sapienza si pone il problema del destino del genere umano, ma riesce a impostare questa ricerca razionale più facilmente con le categorie del pensiero greco che non con quelle della tradizione giudaica. Egli vive ad Alessandria di Egitto, dove anche gli Ebrei non parlano più l’ebraico, ma solo il greco e si sono dotati anche della Bibbia greca, meglio conosciuta come la «Bibbia dei LXX=70». Nel brano della liturgia di oggi, egli s’interroga sul senso della morte. L’autore deve essere abbastanza giovane perché sa esprimere un entusiasmo e una carica emotiva ricca di sentimenti: ama la vita e la valuta in tutta la sua estensione, dall’origine alla fine. Per lui la vita è incorruttibile perché è partecipazione del Creatore: tutta la creazione è vitale ed esiste per la vita perché la «giustizia è immortale» (Sap 1,15). È interessante questo termine che deve essere recuperato anche da noi, superando lo sconforto di una giustizia umana o al servizio dei potenti o lenta fino al punto di uccidere l’anelito di verità dei poveri. Per il Sapiente biblico «giustizia» ha il significato di corrispondenza al disegno creatore. È la verifica dell’adeguamento della realtà al progetto ideato dal suo Autore. La vita è tale se corrisponde al dinamismo che le ha impresso Dio per cui non è mai una vita «vissuta», una vita che passa lentamente nella noia e nella desolazione, ma un’esistenza in cammino che si perfeziona sempre più, di superamento in superamento. La giustizia, come la fede, è mettere a fuoco la realizzazione che noi facciamo della nostra immagine misurata sul volto e il cuore di Dio, mediati da Gesù Cristo, il quale diventa così la misura, il prototipo e il modello. È lo stesso discorso di Giovanni quando parla di «Lògos» (Gv 1). San Paolo dedicherà la lettera ai Gàlati e quella ai Romani al tema della «giustizia/giustificazione», che è l’atto gratuito e libero con cui Dio ci restituisce al progetto originario dell’alleanza con Abramo.

Nella Bibbia per dire che un uomo corrisponde alla volontà di Dio si dice che è un «uomo giusto» (Noè; Giovanni Battista; il vecchio Simeone; lo stesso Gesù per il centurione che assiste alla sua morte). Essere giusti significa non millantare chi non si è e non apparire diversi da chi si è nell’intimo e nella verità della propria coscienza, che è il pozzo dove Dio cerca riposo. D’altro canto, però, l’esperienza insegna che la morte esiste nel mondo e costruisce vuoti attorno a noi, che, essendo limitati e mortali, viviamo con angoscia e lacerazione. La morte c’è. Come elaborarla, senza esserne schiacciati? L’autore ha una risposta biblica e anche originale per risolvere l’interrogativo della morte: la morte non è parte del progetto di Dio, ma è il risultato di una concomitanza di circostanze che l’hanno introdotta dall’esterno iniettandola in un contesto esclusivo di vita.

La morte è la conseguenza del peccato dell’uomo: Adamo non vuole più adeguare il suo progetto a quello del Creatore. Adamo nel giardino di Èden si rifiuta di somigliare al Lògos che presiede la creazione (Gv 1,1; 17,5). Il paradigma di Adamo ed Eva non è una semplice disobbedienza a un ordine capriccioso di Dio, mettendo così in sordina la vera tragedia. Essi rifiutano di essere l’immagine del Cristo-Lògos «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose» (Col 1,15-16). Vogliono essere loro «i primogeniti» e aspirano a essere «come Dio» (Gen 3,5), al contrario del Lògos-Gesù che, invece, vive tutta la sua vita all’insegna della volontà del Padre suo e del suo progetto di alleanza eterna (Mt 26,42; Fil 2,8). L’uomo è immortale secondo la natura di Dio, ma quando decide di essere immortale contro Dio, al di fuori del progetto personificato in Gesù-Lògos, diventa mortale e vittima della morte.

L’associazione peccato-morte è un concetto classico nel contesto biblico. Se vivesse oggi l’autore entrerebbe nel pieno della problematica sulla bioetica e direbbe qualcosa alla scienza che presume di dire l’ultima parola sull’esistenza umana. Eppure lascerebbe piena libertà alla scienza come estensione della «signoria» che Dio ha affidato all’uomo perché dominasse tutto il creato (Gn 1,28). C’è una dimensione che supera l’aspetto biologico dell’esistenza perché esiste anche l’aspetto progettuale che in parte dipende dall’uomo individuo/gruppo e dall’altra dipende anche da una volontà creatrice che sta all’origine e che è in dialogo d’amore con ciascuno. Il senso della vita in termini assoluti può venire solo da chi sa sprigionare la vita, liberandola anche dalla tentazione della morte, conseguenza del peccato che è la presunzione dell’autosufficienza. Chi ci libera da questo fardello, per essere credibile nel suo anelito di immortalità, deve essere personalmente incorruttibile e non soggetto alla morte anche se questa è un accidente della vita, cioè un momento essenziale di essa. Quest’uomo non può essere che Dio stesso, il Creatore che scioglie la morte e libera la vita nella risurrezione del Figlio, che è il progetto di vocazione definitiva dell’umanità. È l’uomo Gesù, il volto umano e visibile di Dio.

Un secolo e mezzo circa separa l’autore del libro della Sapienza da Gesù di Nazareth, per cui è facile intuire come fosse questo l’ambiente vitale degli Ebrei del sec. I d.C. e della primitiva comunità cristiana. È questo, infatti, il contesto in cui si muove il vangelo che propone due racconti di liberazione, di cui il secondo è incastonato dentro al primo. Il racconto della figliola di Giàiro è riportato da tutti e tre i sinottici (Mr, 5, 21-43; Mt, 9, 18-26; Lc, 8, 40-56), segno che vi è una tradizione orale e scritta precedente unanime.

L’inserzione del racconto della donna malata all’interno di quello della fanciulla morente è con ogni probabilità molto antico. Forse il collegamento sta nella duplice menzione del numero dodici: 12 anni di malattia per la donna adulta e 12 anni di vita per la bambina morente (Mc 5, 25 e 42).

Vi sono due donne, tutte e due ebree, ma una è impura per flusso di sangue (Lv 15,19-24) e l’altra è morente e quindi sorgente di impurità secondo la Toràh (Nm 19,11.13). Tutte e due sono inabili al culto, impure e da evitare. Nel racconto di Mc esse sono simbolo d’Israele perché il numero dodici è il numero che racchiude la totalità delle differenze del popolo in tutte le sue componenti: le dodici tribù. Israele è malato e morente perché i medici non hanno saputo curarlo, ma hanno solo dato palliativi e proibizioni. Se da un lato il numero 12 indica la totalità d’Israele, ripetuto due volte indica che in Israele è inclusa anche la nuova prospettiva del mondo pagano che gli Ebrei consideravano come morto, perché escluso dalla salvezza. Ora però i pagani accedono alla Chiesa per mezzo dei «dodici» apostoli che aprono così Israele alla sua missione, quella del «Servo sofferente» che deve radunare i popoli dispersi (Is 42,1).

Nel caso dell’emorroissa, anche l’ambiente dei discepoli è «ostile», tanto che arrivano a rimproverare Gesù di non essere pratico: non si rende conto della situazione (Mc 5,31). La donna vuole «toccare» il mantello di Gesù (Mc 5,27-28.30), forse con intento magico, e Gesù si sente «toccato» perché ha coscienza di avere instaurato una relazione profonda che la ressa della folla non riesce a sopraffare. La Toràh (Lv 15,19-24) stabilisce che la donna affetta da flusso di sangue è impura e chiunque la tocca partecipa della sua impurità.  A rigore di legge, Gesù diventa impuro e avrebbe dovuto andare al tempio a purificarsi. Sia la donna che Gesù disattendono la Legge e diventano «impuri», pur di accedere alla libertà dalla malattia. La vita precede sempre il rito e questo è solo il segno della gratuità di quella. L’obbedienza deve essere valutazione di priorità in base al principio: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

Davanti a Gesù che la cerca, la donna sta «impaurita e tremante», lo stesso atteggiamento che si ha davanti a Yahwèh (Es 15,16; Sal 2,11; 55/54,6). Ella lo sperimenta davanti a Gesù che le restituisce la dignità della vita. In segno di riconoscenza, la donna si prostra davanti alla Maestà di Dio rivelata in Gesù (Mc 5,33; Es. 15,16; Dt 2,25; 11,2). Gesù da parte sua, non solo non la rimprovera, per avere trasgredito la Legge, ma disattende lui stesso la Legge e la libera definitivamente invitandola a ritornare a quella comunità di credenti da cui era stata espulsa per il rigore della Legge stessa: «Va’ verso [la] pace» (traduzione letterale dal greco) che potrebbe essere letto come «torna a casa tua»: rientra pacificata nella tua casa, che è la tua comunità. La pace non è un pacchetto confezionato una volta per tutte, ma un «processo» verso cui occorre camminare sempre: «vai alla/verso la pace» indica che la direzione è solo la pace e verso questo orizzonte bisogna tendere continuamente perché il cammino di pace si apre e si perfeziona solo camminando verso di essa. Tornare a casa significa riprendere possesso della propria vita e della propria quotidianità con un nuovo orizzonte e un nuovo ideale.

La dimensione comunitaria si comprende ancora di più nel racconto della fanciulla, vittima di una malattia che la porta alla morte. Qui il contesto giudaico è «ostile» fino all’inverosimile: i presenti «lo deridevano» (Mc 5,40) e Gesù non perde tempo con chi crede di sapere tutto su Dio; egli non ci pensa due volte: «dopo averli sbattuti tutti fuori» (Mc 5,40), si dedica alla ragazza che ha compiuto dodici anni e quindi è all’inizio del suo tredicesimo anno di vita, che gli Ebrei celebrano con il rito del Figlio/Figlia del comandamento. Fino al 12° anno le figlie devono ubbidire ai genitori, ma alla fine del compimento del 12°, cioè all’inizio del 13° anno, sono responsabili delle loro azioni e delle loro scelte, rispondendo alla Toràh e alla comunità. Per la tradizione ebraica a questa età avviene il passaggio alla maggiore età che per le ragazze significa anche la possibilità di sposarsi. C’è dunque in quest’accenno all’età della ragazza, un tenue riferimento alla nuzialità d’Israele che sta morendo infeconda senza poter celebrare le nozze della nuova alleanza. La folla che piange e fa chiasso rinuncia alla speranza perché è schiava della morte e «deride» la speranza stessa della vita. La folla piangente non è addolorata, ma il simbolo vivente di un fallimento generale che tutto degrada a spettacolo, a impotenza e a rassegnazione; Gesù con la risurrezione ristabilisce di nuovo il tempo della fecondità nuziale e rimanda tutti alle loro responsabilità. Gesù opera davanti a testimoni come prescrive la Legge, affinché il fatto abbia valore giuridico.

Egli però non manda la giovane al tempio per il riconoscimento ufficiale della guarigione (Lc 17,14), come sarebbe doveroso, ma la lascia a casa, tra i suoi affetti, cioè alla dignità delle sue relazioni. La donna che soffre di perdite di sangue ha una concezione magica della religione: considera Gesù un taumaturgo e pensa che basti toccare le vesti per guarire. Gesù senza fare prediche la libera anche dalla religione del bisogno e la rimanda alla libertà della fede: «la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34). La fede non è la religione. Per la bambina Gesù ha un atteggiamento di tenerezza perché per affidarla alla vita, suggerisce ai genitori di darle da mangiare, cioè di mettersi a servizio della sua crescita. Anche in questo caso della bambina morente, Gesù disobbedisce alla Legge e tocca la moribonda/morta; infatti, il testo non dice espressamente che la ragazza sia morta, ma solo che Gesù ha la certezza che la ragazza stia dormendo (Mc 5,39), mentre tutti i presenti hanno già iniziato il lamento funebre. La Legge proibiva il contatto con i morti o presunti tali, pena l’impurità di sette giorni, e chi non si fosse purificato, avrebbe contaminato la dimora di Dio e avrebbe dovuto essere espulso dalla comunità (Nm 19,11.13).

Ancora una volta per Gesù, come nel caso delle due donne (Mc 5, 27) e come per il lebbroso (Mc 1,40), la persona umana è un assoluto che viene prima della morale e del culto. L’unico criterio che guida Gesù è il bene delle due donne (Mc 3,4), che la Legge e la cultura escludevano dalla vita sociale autonoma, dalla preghiera al tempio, mentre le obbligava alla sottomissione all’uomo. San Paolo può ben dire che ora nel tempo di Cristo «non c’è Giudeo o Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio o femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Il comportamento e il modo di pensare di Gesù è totalmente «laico» come segno di grande distanza dalla religione di massa e del dovere esteriore.

Un altro elemento che ci richiama alla dimensione nuziale è la presenza di padre, madre e tre discepoli. All’inizio del racconto, quando Gesù ritorna dal territorio pagano e rientra in terra d’Israele, lungo il mare si presenta a lui «uno dei capi della sinagoga» (Mc 5,22). Di fronte alla vita che prende il posto della morte si ristabiliscono le relazioni «vitali» non quelle d’autorità. Padre, madre e figlia sono i testimoni viventi della relazione d’amore feconda, segni di profezia perché Gesù va via, ma essi restano per essere la parola viva dell’azione di Dio il quale ha fatto irruzione nella loro vita, dominata dalla morte. Gesù è attento a queste sfumature che segnano la condizione umana nel suo risvolto più profondo. «Il padre e la madre» che avevano dato la vita destinata alla morte ora ricevono la vita dal Dio della vita, come Abramo ricevette Isacco per la seconda volta dalle mani di Dio (Gen 22,1-19). La scena della risurrezione della fanciulla ha un profondo significato nuziale, contiene tutti gli elementi prescritti dalla tradizione giudaica:

- I genitori che per legge devono consegnare la loro figlia allo sposo.

- Gesù che in Mc 2,19 si era presentato come lo sposo atteso, lo «sposo alternativo».

- La sposa dodicenne, simbolo d’Israele, che Gesù chiama espressamente con il termine riservato alle ragazze non sposate. 

- Infine i tre discepoli che fungono da amici dello sposo (Mc 2,19; Is 5,1) e garanti della legittimità delle nozze.

Poiché tutto si svolge nella casa materna è immediato e diretto il richiamo a Ct 3,4 dove la sposa conduce lo sposo ritrovato «nella casa di mia madre, nella stanza di colei che mi ha generato». La guarigione non è solo un modesto miracolo di risurrezione, ma un piccolo midràsh sull’alleanza nuziale che Gesù annuncia con le parole e le opere.

Il testo si presenta a noi come una vera catechesi sull’iniziazione della fede: per incontrare Gesù bisogna avere la mentalità della relazione vitale e feconda che genera alla vita e che trova nel rapporto uomo-donna-figlia l’espressione più alta e più dinamica dell’immagine di Dio. Questo è il tempo dei figli perché è iniziato il tempo delle nozze. Il tempo di Gesù è il tempo delle nuove nozze a cui si accede tramite la risurrezione. Rivolgendosi alla sposa che «non è morta, ma sta dormendo» (Mc 5,39) Gesù le dice in aramaico: «Talità kum – Ragazza, svegliati/risorgi» e la ragazza obbedisce: l’evangelista usa il verbo con cui indica la risurrezione di Gesù stesso (Mc 9,31 e 10,34). Il profeta Ezechiele aveva predetto che quando Dio avrebbe riaperto i sepolcri con la chiave della vita, avrebbe ridato di nuovo il suo spirito vitale (Ez 37,12-14), ora con Gesù-sposo, l’Israele, che era morto, cammina e indossa la veste nuziale (Mc 5,42-43).

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