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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 14ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Ez 2,2-5; Sal 123/122,1-2a.2bc.3-4; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1 -6

 

Per riassumere in una sola parola gli atteggiamenti che descrive la liturgia di oggi si può scegliere il termine «sazietà». Sono sazi gli Ebrei a cui si rivolge il profeta Ezechiele, sazi di benessere e di comodità, di ricchezze e di prosperità, di autonomia e anche sazi di Dio. L’esperienza insegna che si può essere bulimici di Dio ed essere senza Dio. I famelici di Dio e i difensori dei «diritti di Dio», coloro che fingono di dare la vita per la trascendenza di Dio, negando di fatto la pienezza della sua umanità, finiscono per trattarlo come un vecchietto parcheggiato in un ospizio perché impedisce le agognate vacanze. Gli Ebrei sono così sazi che solo l’esilio e la conseguente schiavitù riuscirà a ridare loro la coscienza della loro abbondanza di religione e nel contempo della loro povertà di fede. Gli Ebrei del VI sec. a.C. sono talmente sicuri di sé da fare della durezza di cuore lo stile della loro vita e del loro futuro. Vivono la Toràh come garanzia di privilegio e non come impegno di responsabilità. Per loro Dio è un ornamento da mostrare nei giorni di festa, un feticcio da usare come scusa per giustificare l’immoralità dei loro traffici e della loro ingiustizia che arriva a calpestare i poveri e a sentirsi al tempo stesso buoni credenti, mentre invece sono praticanti interessati. Nei giorni feriali rinchiudono Dio nella prigione della sua divinità, dichiarata estranea alla vita feriale di tutti i giorni, e nei giorni di festa cantano a squarciagola «Alleluia!» e pagano il pedaggio del loro ateismo religioso.

San Paolo porta in sé conficcata «una spina nella carne»; non è una malattia, ma l’ostilità dei suoi stessi fratelli e sorelle nella fede che non lo riconoscono come apostolo, perché non proviene dalla loro cerchia, e diffidano del suo pensiero in quanto non coincide con il loro. Essi lo boicottano dovunque egli vada, denigrandolo davanti alle comunità da lui stesso fondate e inviando spie: «falsi fratelli intrusi» (2Cor 11,26; Gal 2,4). I Giudei convertiti al cristianesimo vogliono che il messaggio di Gesù resti sottomesso alle prescrizioni mosaiche, annullando così la novità dirompente della morte e risurrezione del Figlio di Dio. I «crociati» di questa campagna antipaolina provengono dalla Chiesa di Gerusalemme, dal gruppo di Giacomo «fratello del Signore», (Gal 1,19) che contestano le aperture di Paolo ai pagani. Per loro non si può diventare cristiani senza «prima» farsi giudei attraverso la circoncisione: sono i sazi del «si è sempre fatto così»; in tal modo bloccano la crescita e il futuro. Sono così sazi e zelanti della religione che la trasformano in «ideologia» aberrante arrivando a giustificare in nome di Dio anche i delitti più feroci e le azioni più immorali (la guerra, l’inquisizione, la tortura, la lapidazione della donna adultera, ecc.). Essi di solito hanno questa concezione della vita e dei fatti che accadono: li piegano al loro modo di pensare che identificano semplicemente con «la volontà di Dio». Gesù accusa i farisei e gli scribi del suo tempo e di tutti i tempi e di ogni religione di anteporre i loro piccoli orizzonti alla Maestà della Parola di Dio (Mc 7,9.13). Essi sono credenti finché sono convinti che Dio pensa come loro, ma quando la stessa Chiesa o il Papa, come Francesco, prendono strade differenti non esitano ad accusarli di «eresia» e ad agire per proprio conto.

Nel vangelo ci troviamo di fronte a una nuova sazietà: quella dell’ambiente circostante che vive di chiacchiericcio e di mentalità paesane; queste non cambiano nemmeno di fronte ai «segni» compiuti da Gesù. I compaesani di Gesù non possono accettare che uno di loro possa avere successo, specialmente se è stato catalogato come un poco di buono: è uno scandalo che uno come lui di cui conosciamo la nascita e la famiglia possa «dire e fare» queste cose e se le fa e le dice significa che sotto dev’esserci un trucco. Come è possibile che parli in nome di Dio «il figlio di Maria» (Mc 6,3)? L’espressione è fortemente dispregiativa perché Gesù è considerato dall’ambiente figlio illegittimo di ragazza-madre. È la sazietà dell’opinione pubblica che bolla le persone in nome di un perbenismo di facciata. Essi invece di approfittare e curare i propri malati, perdono il tempo a scandalizzarsi (Mc 6,3): preferiscono la morte piuttosto che mettere in discussione la loro presunzione. Ieri come oggi, i paladini pubblici della moralità e i censori più accaniti sono coloro che privatamente sono immorali per debolezza o per convenienza; parlano di «principi non negoziabili», di difesa della vita, di dignità della persona e poi fanno affari e alleanze con chi denigra e calpesta quegli stessi valori, disattendendoli nella vita. Se Gesù fosse fisicamente presente tra di noi, andrebbe lui a cercarli e li inviterebbe alla mensa del regno di Dio. Ci si professa cristiani, si frequentano i riti religiosi, possibilmente sontuosi e paludati, li si pretendono, ma contemporaneamente si esternano sentimenti razzisti e xenòfobi contro gli immigrati, colpevoli di essere poveri e di volere esercitare il loro diritto naturale di cercare una vita migliore per sé e per i propri figli. Nessuno vuole rendersi conto che le migrazioni sono la conseguenza diretta di politiche ed economie corrotti dell’occidente, giunto al capolinea dello sfruttamento della terra e le sue risorse, mettendo a rischio l’esistenza stessa della Terra, casa comune e l’equilibrio del clima. Per secoli si sono depredate le ricchezze e le materie prime di quei Paesi che destabilizza e schiavizza con il lercio mercato delle armi per tenere vivo uno stato di guerra permanente come mercato inesauribile. Poi, senza logica conseguenza, si lasciano morire i migranti che scappano dall’Africa e dall’Asia, accusandoli di destabilizzare l’occidente, negando loro anche le briciole che cadono dalla mensa dei loro predatori. I credenti sono disorientati di fronte ai comportamenti di uomini di potere clericale che pagano con il loro tacere leggi acquiescenti e si appropriano di denaro d’iniquità. Chi non ammette mai di sbagliare, giudica gli altri in modo negativo; invece dovrebbe cambiare vita, per non finire come molti che muoiono atrofizzati nella loro presunzione morale. Gesù si meraviglia della loro incredulità (Mc 6,6) e, annota l’evangelista amaramente, «non vi poté operare nessun prodigio» (Mc 6,5). È necessario un ritorno urgente alla morale della pagliuzza e della trave (Mt 7,3-5). Nella riflessione cercheremo di capire le ragioni di questo atteggiamento. La liturgia con queste letture intende dirci che dovremmo sempre avere un po’ di fame, anche quando siamo sazi e non dare per scontato nulla perché ogni giorno è nuovo e porta con sé ragioni che ieri non conoscevamo. Bisogna essere liberi, specialmente da noi stessi, se vogliamo cogliere la presenza di Dio che oggi ci parla e ci nutre nell’Eucaristia, il luogo della verità di Dio e nostra.

Esame di coscienza

Quando siamo sazi e senza bisogni, siamo pesanti e ci chiudiamo in noi stessi: abbiamo la sensazione di essere il perno del mondo. Difficilmente ci accorgiamo dei bisogni degli altri, mentre facilmente siamo portati a giudicarli e ad escluderli dal nostro orizzonte; anche di Dio ci facciamo un’opinione che riflette la nostra sazietà. Celebrare l’Eucaristia è proclamare la profezia cheabbiamo fame e sete della giustizia di Dio (Mt 5,6), cioè del primato del regno sui nostri idoli. Coscienti della nostra fragilità invitiamo il mondo intero a entrare attraverso di noi nel cuore di Dio nel segno della Trinità. Davanti a Dio non possiamo giocare a nascondino: egli scruta «i reni e il cuore» (Ger 11,20; 20,12), ci conosce cioè più di quanto noi possiamo conoscere noi stessi. Lasciamoci introdurre dallo Spirito Santo nel mistero della verità che è il segreto della nostra identità e della nostra coerenza.

Dio della misericordia! Kyrie, elèison!

Signore della Pace Christe, elèison!!

Maestro di Giustizia! Kyrie, elèison!

Dio di tenerezza! Christe, elèison, 

Padre di misericordia, accogli la nostra fragilità! Kyrie, elèison.

Messia di riconciliazione, fa’ che diventiamo figli della Pace! Christe, elèison

Spirito Santo, Ministro di Pace, consolaci nell’afflizione! Kyrie, elèison.

Dio santo, apparso a noi nella debolezza della fragilità umana, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e per i meriti dei Padri e delle Madri che ci hanno preceduti nel cammino della fede in vista della redenzione di Gesù morto e risorto per noi, ci conduca alla vita eterna. Amen!

Spunti di riflessione e preghiera

L’esperienza di disprezzo che vive Gesù nel suo paese di residenza ci apre a una dimensione non solo della personalità di Gesù, ma anche della nostra fede che si concretizza in scelte missionarie. Durante uno dei suoi viaggi missionari, Gesù decise di tornare nella sua regione in Galilea e al suo paese, Nazareth, nella sua famiglia. Forse aveva l’obiettivo di riposarsi accanto a sua madre e condividere con i suoi concittadini i frutti della sua missione. Probabilmente si aspettava un minimo di accoglienza che qualunque paese avrebbe tributato a un figlio che cominciava a diventare famoso. Non raccolse che stupore e disprezzo (Mc 6,2-3). Marco ci offre un indizio per spiegare il comportamento ostile dell’ambiente: «Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Jòses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» (Mc 6,3). Secondo l’uso dell’epoca che vive ancora oggi, un figlio è identificato non con il proprio nome, ma come «figlio del padre», per cui di Gesù si dovrebbe dire: «Non è costui il falegname, il figlio di Giuseppe, il fratello di…». Qui, al contrario, è illogica l’identificazione come «figlio di Maria» che era non solo offensiva, ma pure il segno di un disprezzo pubblico: in una struttura sociale di stampo patriarcale, equivale a dire che Gesù è senza padre e sua madre è una poco di buono, come spiegheremo subito. La donna al momento del parto perdeva la propria identità individuale e diventa per tutti «la madre di…», per cui Maria era comunemente conosciuta e individuata come la madre di Gesù (Gv 2,1.3; At 1,14). Gli altri due sinottici (Mt 13,54; Lc 4,22) cercano di stemperare la dirompenza dell’affermazione, riportandola all’usanza patriarcale e parlando di «figlio di Giuseppe». Se osserviamo in parallelo i tre sinottici ce ne rendiamo subito conto:

Mc 6,1-3

Mt 13, 53-56

Lc 4,22-23

1 Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga.

53 Terminate queste parabole, Gesù partì di là. 54 Venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga.

 

E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano:

e la gente rimaneva stupita e diceva:

22 Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati

«Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?

«Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?

delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano:

3 Non è costui il falegname, il figlio di Maria,

55 Non è costui il figlio del falegname?

«Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 3,23)

il fratello di Giacomo, di Iòses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?».

E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? 56 E le sue sorelle, non stanno tutte da noi?».

 

 

Mc non ha particolari preoccupazioni da tutelare perché i suoi uditori non hanno problemi di discendenza giudaica e quindi afferma con semplicità che i paesani di Gesù, usando la formula «figlio di Maria», danno un giudizio dispregiativo, in quanto indica che Gesù non ha una paternità reale essendo solo figlio di una donna: egli è bollato come illegittimo e per questo è scandaloso che operi miracoli e parli delle cose di Dio. Come è possibile che il «figlio di una ragazza madre» possa essere scelto da Dio per una missione di evangelizzazione? È probabile che molti abbiano anche pensato: perché non mio figlio che è «regolare»? Noi osserviamo tutte le regole, mentre costui, «figlio di Maria», pretende anche di essere un profeta di Dio. «Anche se era ammesso che un fidanzato avesse rapporti con la sua promessa sposa, le chiacchiere su una nascita prematura avevano via libera a Nazareth. Maria dovette soffrire per questo e dopo essere rimasta incinta si assentò spesso da Nazareth, particolarmente al momento della sua gravidanza [Lc 1,56; Mt 2,21-22] per non dare eccessivamente nell’occhio e al fine di evitare polemiche umilianti. Essere la madre del Messia non è soltanto un privilegio: Maria impara a portare il disonore come Gesù imparerà a portare la croce».

Mt che invece scrive per i credenti in Gesù ma provenienti dal giudaismo, si pone il problema e modifica l’identificazione di Gesù, con l’espressione «figlio del falegname e figlio di Giuseppe», dove ancora non si dice il nome di suo padre, lasciando intravedere qualche problematicità. Lc invece che è fuori da queste prospettive e forse perché al suo tempo, ormai, Gesù è solo il Signore risorto, non ha problemi a usare il nome del padre, per cui Gesù è semplicemente: «figlio di Giuseppe» come stabilisce la Toràh (Mt 1,20-21). In questo modo elimina ogni fraintendimento e risolve il problema dell’identità di Gesù e dell’imbarazzo che invece provano Mt e i nazaretani. Mc dunque ci mette di fronte alle reazioni di coloro che incontrano Gesù. I suoi paesani sanno (credono di sapere) tutto di lui: conoscono la famiglia, i suoi parenti, l’hanno visto crescere, ne hanno sperimentato l’evoluzione della crescita, forse sono andati a farsi servire da lui in bottega, eppure hanno messo una siepe insormontabile davanti ai loro occhi: essi non lo conoscono. Non basta guardare per vedere dentro e non basta sapere i fatti esteriori per conoscere l’anima e il cuore di una persona. Bisogna voler vedere e ascoltare. L’hanno rinchiuso e condannato nel loro pregiudizio per cui anche i miracoli diventano stranezze.

Se solo potessimo immaginare cosa ha vissuto Maria, la madre di Gesù, nel suo paese natale! Additata da tutti come ragazza che ha partorito un figlio senza padre, portando in sé il marchio del ludibrio e addossando sulla pelle del figlio il disprezzo dell’ambiente puritano e religioso. Per cogliere il senso degli avvenimenti, è necessario essere liberi da pregiudizi e preconcetti, ben disposti a «voler vedere» persone ed eventi come sono, senza steccati e mediazioni prevenute. Quest’atteggiamento preclude ogni conoscenza di Dio perché chi è prevenuto non può accettare un Dio incarnato che ci parla attraverso due comandamenti: gli avvenimenti e le persone.

I tre sinottici mettono in straziante evidenza che l’ambiente circostante è impenetrabile e non cambia nemmeno di fronte ai miracoli fatti da Gesù. Per loro è un illegittimo, uno cioè che nemmeno Dio può prendere sul serio se vuole essere serio lui. Qui è il primo passo verso l’incarnazione: Gesù vive l’esperienza umana in tutta la sua interezza a cominciare dal rifiuto e dal disprezzo. A ragione San Paolo dirà parlando di sé: «la forza si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Questa pagina di vangelo ci dice come spesso noi ci facciamo di Dio una nostra illusione e invece di impegnare la vita a conformare la nostra con la sua volontà di salvezza, perdiamo, buttiamo la nostra intera esistenza a costruirci un simulacro di Dio sul cui altare siamo disposti a sacrificare tutto purché corrisponda alla nostra idea perché ci garantisce nelle nostre perversità. C’è una religiosità pagana che si serve di Dio per uccidere le persone e i popoli, magari dal chiuso del proprio comodo perbenismo. Quando il popolo d’Israele trasforma il Dio dell’esodo in un idolo, vede aprirsi le porte dell’esilio come viaggio di purificazione e ritorno alla schiavitù d’Egitto.

Per vedere Dio all’opera nella storia e nelle persone che incontriamo, al di là di ogni apparenza, è necessario purificare la religione della nozione di Dio stesso. È stato il tentativo del concilio ecumenico Vaticano II che oggi sembra abortito perché parte della gerarchia e del laicato clericalizzato hanno avuto paura di esplorare le vie nuove dello Spirito Santo e si sforzano di rifugiarsi nel loro passato e nel ritorno a una impossibile cristianità come regime e contenitore di una religiosità scomparsa e che mai più potrà ritornare. Il concilio Vaticano II ha liberato Dio dall’etichetta di «nostro» e lo ha restituito all’umanità intera e questo comporta un prezzo: la confusione iniziale, la paura di sbandare, il terrore del futuro, il disorientamento provvisorio, tipico di un popolo che esce dalla tranquillità mono-culturale per entrare a pieno titolo e senza privilegi in un contesto umano di multi-etnicità e poli-culturalità. Non c’è più una sola religione che ha il monopolio di Dio, ma bisogna prendere atto di una molteplicità di «Chiese» con la stessa dignità e diritti. È più facile organizzare una liturgia esteticamente perfetta che incontrare la fame e il problema dell’acqua che attanagliano il mondo; è più facile e gratificante fare una processione che affrontare il problema degli immigrati; è più facile e più rilassante cantare in gregoriano che impolverarsi camminando a fianco delle fatiche e dei dubbi degli uomini e delle donne di oggi.

Paolo ai suoi denigratori risponde mettendo in luce la sua debolezza perché risplenda colui che lo ha chiamato e il vangelo che annuncia, lotta e si oppone a viso aperto anche a Pietro pur di essere fedele alla sua chiamata e alla sua coscienza: «Quando Cèfavenne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11) perché si comportava in modo contrastante a seconda che fossero presenti Giudei o Greci. Paolo gli rinfaccia la doppia morale e lo obbliga a fare una scelta pubblica. Paolo non è mai stato accettato come apostolo e la Chiesa di Gerusalemme, che faceva capo all’apostolo Giacomo, dubitò sempre della sua apostolicità, creando in Paolo una sofferenza interiore che potrebbe identificarsi anche con la «spina» conficcata nella sua carne di cui parla la lettura di oggi e con la quale convive, ma senza lasciarsi intimidire e senza scendere a compromessi con essa.

Anche di fronte all’ostilità più dura bisogna mantenere l’umorismo dello Spirito che ci guida con il suo discernimento e quando questa ostilità proviene direttamente dall’autorità di riferimento, non possiamo temerla e nello stesso tempo non possiamo tacere, perché se è vero che l’autorità è responsabile della nostra salvezza, è anche vero che noi abbiamo una responsabilità ancora maggiore: davanti a Dio siamo responsabili di chi detiene il servizio dell’autorità che dobbiamo aiutare a servire e non a spadroneggiare. È compito dei figli educare i genitori a comprendere i tempi dei figli, altrimenti come fanno a leggere i «segni dei tempi» che vanno verso il futuro? Se siamo veri, se siamo coerenti, se siamo fedeli alla vocazione della nostra anima, nulla e nessuno potrà mai separaci dall’amore di Cristo, ma saremo sempre pronti nel rendere conto a tutti della speranza (1Pt 3,15) che è in noi e ci stupiremo, sì, delle opere di Dio, perché sapremo leggerle e accettarle per quello che realmente sono: opera di salvezza e di liberazione. Che possiamo non essere mai gelosi dei doni e delle ricchezze degli altri, con l’aiuto di Dio.

 

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