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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 15ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Am 7,12-15; Sal 85/84,9abc-10.11-12.13-14; Ef 1,3-14 (lett. breve 1,3-10); Mc 6,7-13

 

I «veggenti» che predicono un futuro glorioso, oroscopi antesignani, si vendono per poco pur di avere il pane assicurato; come sempre accade, costoro «tengono famiglia». Tra questi c’è Amasìa (Am 7,12), che è riuscito a diventare il capo dei veggenti (oggi si direbbe un organizzatore di consenso/influencer) Mentre tutti predicono felicità, prosperità e benessere per il re, la sua corte e il popolo, all’improvviso spunta un profeta giudeo del sud, estraneo al sistema cortigiano, che annuncia una catastrofe imminente: non ingannatevi, il tempo dei gaudenti sta per finire.

Dopo il catecumenato fatto con Marco, a sua volta, Mt scrive per i catechisti, cioè per i formatori, i maestri che educano i discepoli ad annunziare il vangelo. Accanto ai vangeli sinottici, si situa Gv che può essere considerato il vangelo del presbitero, colui che ormai contempla la Gloria rivelata nel volto di Gesù di Nazareth. Gv è la storia che diventa pura teologia, anzi «alta teologia», che attraverso «i segni» svela la personalità profonda di Gesù: il Figlio unigenito che rivela il volto del Padre (Gv 1,18).

La 1a lettura ci propone la vocazione del profeta Àmos, contemporaneo di Osèa e Isaia, vissuto nel sec. VIII. Egli è di Tekòa, sobborgo a 10 km a sud di Betlemme, dove svolgeva un umile lavoro: raccoglitore e tagliatore di sicomori (specie di more di poco prezzo che maturano se incise). Il profeta abbandona il suo lavoro, emigra dal sud al nord e s’insedia a Sìchem, nel cuore stesso del regno di Geroboàmo II (787ca.-747; Am 1,1), che aveva portato il regno del nord, Israele, a un nuovo sviluppo economico.

La corte del re pullulava di «veggenti» a libro paga del re, per cui, come tutti i prezzolati «servi volontari», predicevano tutto quello che poteva fare piacere al re o quello che loro pensavano che il re volesse sapere. È il comportamento tipico delle corti abitate in modo stabile, in comodato perpetuo, dagli adulatori di professione di ogni sistema di potere, che si vendono o si offrono gratis pur di appartenere alla casta dei potenti o più modestamente per avere accesso alla corte, anche dalla porta di servizio.

Questa tragedia è sviluppata anche nella Chiesa: quando non si crede in Dio o lo si trasforma in un idolo, si persegue la carriera, si aspira a cariche di prestigio, si mettono in moto macchinazioni e dipendenze pur di far valere «le proprie qualità» che naturalmente vengono sempre messe a disposizione «per spirito di obbedienza e di sacrificio». Quando qualcuno pronuncia queste parole, è segno che ha speso la vita per comprarsi la carica, il titolo, l’ufficio. Il passaggio dall’adulazione alla corruzione è insapore e indolore perché avviene in maniera quasi naturale e impercettibile e se qualcuno lo fa notare, si sente inevitabilmente rispondere con insolito candore: «Che male c’è»?

Il profeta di Yhwh non è un veggente di corte, ma uno che rischia la sua vita per portare un messaggio impellente che non è suo, ma che deve consegnare come lo ha ricevuto. Àmos non si sognava nemmeno lontanamente di diventare profeta, ma quando la forza della Parola lo afferrò, strappandolo dalla sua vita ordinaria, egli non esitò a lasciarsi «afferrare» e a cambiare vita, stile, patria per mettersi in cammino verso una mèta sconosciuta, ma verso la quale lo guida la Parola che lo ha «afferrato». Come Abramo, si mette a servizio della Parola di cui diventa discepolo e responsabile: il profeta è il nuovo Abramo che parte alla volta di un futuro che appartiene al cuore di Dio (Gen 12,1-4). Per questo non può compiacere il potente e le autorità, non può contrabbandare la sua coscienza perché egli ha regalato la sua libertà a Colui che lo ha chiamato, scegliendo di diventare schiavo del messaggio che deve portare. Il profeta è un tutt’uno con la Parola che lo porta.

Il profeta è «strabico» per vocazione e per natura. Egli non vive per sé, ma è lacerato tra due esigenze uguali e contrarie: egli ha un occhio a Dio da cui dipende per la vita e la morte e deve avere un occhio verso il suo popolo di cui è scudo e speranza. Senza la sua parola il popolo è cieco; senza il suo popolo il profeta è muto; senza il profeta Dio è assente, ma senza Dio il profeta è un disastro perché annuncia solo se stesso o la ditta da cui dipende.

Quale lezione per il personale apostolico della Chiesa! Chi lavora per affermarsi in vista della carriera fino a diventare così prudente da non esporsi mai, immergendosi nel «silenzio del tacere» somiglia al veggente cortigiano Amasìa, non al profeta Àmos che abbandona ogni sicurezza per andare incontro al suo ministero. Chi è così succube dell’autorità fino a deformare la verità in base al principio che al superiore bisogna riferire quello che lui vuole sapere, somiglia ad Amasìa e non al profeta il quale non è portatore di interessi, ma annunciatore di libertà. Chi spegne l’anelito profetico che lo Spirito ha seminato nel suo cuore per non avere grane con l’autorità, in nome della prudenza o dell’opportunità, è solo un trafficante nel cortile del tempio e non sarà mai un celebrante del mistero di Dio e della Gloria della Parola. Chi antepone il proprio tornaconto e si serve del proprio ministero per esporre se stesso all’ammirazione e alla lode del mondo, ha già avuto la sua ricompensa perché anche i pagani agiscono allo stesso modo (Mt 6,2.5.16). Purtroppo, oggi la struttura della Chiesa cerca e alimenta sovente i veggenti che sono funzionari della mediocrità e, in quanto tali, funzionali al potere che alimenta solo se stesso. Se il profeta Àmos vivesse ai nostri giorni, sarebbe considerato un sovversivo, un inaffidabile, un non allineato e quindi un antagonista del potere da mettere a tacere.

Nel Vangelo ci troviamo di fronte a un metodo particolare; i discepoli non hanno ancora capito l’anelito universale della missione di Gesù e sono chiusi nella visione di una religione angusta e ristretta: pensano che Dio sia solo «giudeo» e che quindi debba ragionare come loro e in favore di loro, abbandonando gli altri al loro destino. È l’eterna dannazione del nazionalismo religioso e politico: «Prima noi, e poi se ne resta, anche per gli altri, ma senza fretta». Gesù afferma con decisione che Dio ha creato la terra senza confini e per questo decide di inviare i suoi discepoli in missione, così «come sono», senza paracadute, senza difese, ma solo uomini e donne tra altri uomini e donne.

Li manda oltre confine con la loro chiusura e i loro limiti. Non li cambia con una predica, ma li immerge nell’esperienza dell’incontro. Non capiscono che nel mondo non esistono solo i Giudei e che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è anche il Dio di Adamo, cioè del genere umano? Niente paura! Non c’è che un metodo: mandarli a conoscere il mondo «dall’interno», andando per le sue strade, incontrando i diversi, i non giudei, la parte migliore di sé. Li vuole mettere a confronto diretto con la vita: quello che lui non è stato in grado di far capire, lo capiranno camminando con gli uomini e le donne che incontreranno. È il principio della formazione in itinere.

Gesù non ha paura dell’esito, se resteranno scioccati o schiacciati; non si preoccupa di proteggerli da se stessi o dal condizionamento della loro religione angusta, perché sa che senza il popolo in carne ed ossa non può esserci formazione alcuna per chi è chiamato ad esercitare l’autorità: è il popolo di Dio il vero maestro che insegna ai pastori il metodo della pastorale. I discepoli, infatti, ritorneranno trasformati (Mc 6,30) ed entusiasti e ancora una volta Gesù dovrà prendersi cura di loro perché non si montino la testa di effimero e di vanagloria.

Quando l’autorità accetterà di farsi educare anche dal proprio popolo, quel giorno sarà un grande giorno per la Chiesa e per la missione. Quel giorno avremo un’autorità autorevole, non autoritaria, umile e fiera, orante e in ascolto. Un profeta, Àmos, va’ perché «afferrato» dalla Parola (Fil 3,12), i discepoli vanno perché mandati a scoprire il senso dell’universalità del Regno e ritornano contaminati da quell’umanità che hanno sperimentata oltre i confini del loro particolarismo.

Nei due casi vi sono resistenze e opposizioni: gli opportunisti di regime come Amasìa e i tranquilli di professione che non accettano di essere messi e di mettersi in discussione: rifiutano Dio e non accolgono la Pace che in suo Nome gli inviati portano. Per gli uni e per gli altri non resta che la polvere dei calzari, muta e silente testimone di un mondo che cambia, ma che Dio ama perché non è ancora stanco dell’umanità: gli uomini possono tradire, Dio non può venir meno alla fedeltà a se stesso e alla sua promessa. La condanna di Dio è salvare il mondo.

Esame di coscienza

Profezia e missione vanno di pari passo. L’una senza l’altra è un non-senso. Senza profeti, la missione è pura propaganda di merce scadente e senza missionari la profezia rischia di restare «una voce che grida nel deserto» (Mc 1,2). Bisogna andare nel mondo incontro agli uomini e alle donne, ma per questo bisogna essere mandati, averne la consapevolezza e non essere protagonisti narcisisti.

Missione e profezia esigono la «franchezza», cioè la verità di se stessi e la trasparenza del messaggio che non deve essere confuso con i propri interessi. Andare nel mondo con lo spirito del dialogo, nel rispetto della coscienza di ciascuno, senza pretesa di fare proseliti, perché solo Dio apre i cuori alla Verità. Spalancando le porte del cuore al mondo intero, entriamo davanti al mistero della Trinità che è il mistero di un Dio che non si chiude in sé, ma si apre alla comunione e alla partecipazione d’amore. Nella celebrazione dell’Eucaristia non siamo solo noi a metterci davanti alla presenza di Dio, ma è anche Dio che si pone alla nostra presenza e si mette a nostra disposizione. Egli è ansioso di contemplare il volto orante della nostra Assemblea eucaristica. È la preghiera ufficiale della Chiesa e in essa siamo in comunione con tutte le donne e gli uomini che in tutto il mondo celebrano la stessa Eucaristia. Nel segno di una piccola comunità esprimiamo il sacramento dell’universalità della fede. Dio è davanti a noi! Noi davanti a lui possiamo solo esercitare la virtù della «franchezza», cioè esporgli la verità su di noi, sapendo che egli ci conosce meglio di noi stessi perché scruta «i reni e il cuore» (Sal 26/25,2; Ger 11,20; 17,10;20,12). Domandiamo perdono per essere liberi da noi stessi.

Signore, inviato dal Padre, perdonaci quando non ascoltiamo la profezia che è in noi. Kyrie, elèison.

Cristo, tu sei più che un profeta, perdonaci le colpe di omissione e di silenzio. Christe, elèison.

Signore, rendici liberi servitori della Parola e purifica il nostro cuore da ogni egoismo. Kyrie, elèison.

Dio dei Profeti Àmos, Osea, Isaia, Geremia ed Ezechiele, abbia misericordia di noi, purifichi i nostri cuori, perdoni le nostre colpe e ci conduca alla vita eterna insieme ai testimoni martiri della Parola che vivono in Dio per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Spunti per la riflessione e preghiera

Non è un caso che l’invito costante del Vangelo sia la vigilanza: «Siate sobri, vegliate» (1Pt 5,8; Mt 24,42; 25,13; 1Cor 16,13; Eb12,15). Non basta essere vigilanti per non cadere nelle trappole della sazietà, ma bisogna anche essere «distaccati» perché il viaggio del vangelo non sia appesantito da bagagli superflui. Due cose sono necessarie: essere inviati da qualcuno e avere l’autorità sugli spiriti impuri (Mc 6,7). Per svolgere questo compito l’equipaggiamento è descritto nei minimi particolari perché il missionario non abbia la scusa di avere frainteso. Gesù dice cosa si può portare: un bastone, i sandali e una tunica; e cosa non si può portare: pane, bisaccia, denaro e tunica di riserva (Mc 6,8-9).

L’equipaggiamento del missionario non è casuale perché l’essenzialità riguarda il viaggio, il camminare (bastone, sandali e tunica): chiunque vede il missionario deve immediatamente capire che egli non persegue interessi materiali e nemmeno di sopravvivenza. Chi vede l’uomo di Dio, deve vedere subito la Parola che tracima dalla sua vita che deve riflettere il volto umano di Dio, volto di tenerezza. Egli è solo uno che cammina e da questo punto di vista credere è avere le gambe per camminare, libero da qualsiasi necessità, fossero anche le necessità primarie come mangiare e dormire che devono essere parte dell’accoglienza perché «l’operaio è degno del suo salario» (1Tm 5,8).

In sostanza il missionario non deve preoccuparsi né perdere tempo; il Dio che nutre gli uccelli dell’aria e veste i gigli del campo, si prenderà cura dei «servi della parola»: «non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete … guardate gli uccelli del cielo … osservate i gigli del campo» (Mt 6,25-34).

Un altro elemento fondamentale della missione è l’assoluta mancanza d’imposizione: bisogna fare la proposta, ma senza imposizioni, lasciando la libertà di dire anche di «no». È il metodo di Gesù e deve essere il metodo dell’evangelizzazione in un contesto multi-culturale e plurireligioso. Accostiamoci al testo e con l’aiuto dello Spirito cerchiamo di coglierne la profondità per quanto ne siamo capaci. Il discorso della missione che Gesù affida ai suoi discepoli è riportato dai sinottici in due versioni: la forma breve (vangelo di Mc, liturgia di oggi) e la forma lunga (vangeli di Mt e Lc). Mt ne fa un «discorso» pilastro del suo vangelo, insieme ad altri quattro grandi discorsi per un totale di «cinque discorsi» di cui si compone il suo Vangelo, quasi una Toràh della nuova alleanza in corrispondenza con quella di Mosè, composta da «cinque libri».

Mc conserva la forma breve riportata nel vangelo di oggi e che forse corrisponde alla forma originaria, più vicina alla realtà. Tutto è segno dell’esistenza di diverse tradizioni che gli evangelisti non sono riusciti o non hanno voluto armonizzare meglio. Gesù è reduce da un duplice insuccesso: i suoi discepoli non capiscono la portata messianica della sua missione (rimprovero a Gesù a proposito del mantello toccato dall’emorroissa) e Israele non lo accoglie (reazioni nella sinagoga di Nazareth). Sia gli uni sia gli altri lo vogliono rinchiudere negli ambiti ristretti del particolarismo della loro visione della storia: i discepoli schiacciati nelle proprie convinzioni religiose e i Nazaretani pieni di gelosia frutto dei loro pregiudizi. La chiusura e il pregiudizio sono la prigione della vita.

Gesù decide per una scelta radicale e manda i suoi discepoli allo sbaraglio, nel cuore della vita, là dove si vivono le vere relazioni umane: l’incontro con le persone e i loro bisogni aprirà loro la mente e il cuore oppure li seppellirà. Bisogna rischiare e Gesù rischia, mandando gli apostoli da soli, equipaggiandoli con istruzioni sul comportamento che devono avere con chi li accoglie e con chi non li accoglie. Alcune osservazioni interpretative: i discepoli sono inviati «a due a due» (Mc 6,7), probabilmente un rimando alla loro chiamata iniziale che avvenne in coppia (Mc1,16-21). Il mandato non comporta la predicazione, che, invece, era compresa nella scelta dei dodici (Mc 3,14), ma solo il dominio sugli spiriti impuri (Mc 6,7) e la verifica dell’ospitalità (Mc 6,10-11) che diventa una discriminante anche geografica. In Mc 6,10, infatti, l’accoglienza avviene in una «casa», cioè in uno spazio di relazioni familiari e affettive; in Mc 6,11, al contrario, il rifiuto trasforma «la casa di relazioni» in un «luogo», qualcosa di anonimo e senza vita e di cui non si deve conservare traccia, come si fa quando si ritorna da un territorio pagano, scuotendo la polvere dai sandali per non portare l’impurità pagana dentro la propria casa. Il rifiuto dell’accoglienza dello straniero che porta una Parola nuova, trasforma in pagani, cioè in esseri ostili. I discepoli, ubriacati dal loro nuovo stato e dal loro entusiasmo acritico, vanno oltre il mandato ricevuto e non si attengono alla consegna del Maestro che circoscriveva il loro mandato alla testimonianza attraverso lo stile di vita povero e il potere sugli spiriti. Essi da veri Giudei in cerca di «proselitismo», invece, predicano la conversione come Giovanni il Battista (Mc 1,5) e cercano di imitare Gesù che l’aveva posta come condizione previa per ricevere il Vangelo e predisporsi ad accogliere il Regno (Mc 11,15), quindi un passo successivo.

Il primo atto della «pastorale» è l’incontro, la conoscenza sperimentale delle persone: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì» (Mc 6,10). Il vangelo prima di essere una «dottrina» è l’incontro vero tra persone che condividono la vita. I discepoli scacciano gli spiriti impuri e guariscono i «prostràti» (Mc 6,13; cf 6,5), cioè gli abbattuti, quelli che non vedono speranza davanti a loro e vivono la vita come un peso insopportabile: la guarigione dei malati (che sono male in arnese) è una prerogativa di Gesù (Mc 1,34). Essi hanno bisogno di porre gesti sensibili come ungere con olio, a differenza di Gesù che impone la mano e guarisce a distanza (Mc 6,5). Infine non fanno l’esperienza del rifiuto di cui Gesù parla in Mc 6,11.

Concludendo questa breve panoramica sul brano evangelico di oggi, traiamo una conclusione per noi, evidenziando tre momenti/atteggiamenti.

Il primo: Gesù si preoccupa di far uscire i suoi discepoli dalle «sicurezze ingannevoli» in cui erano prigionieri, perché in quanto Ebrei essi ritenevano insignificante il valore morale e religioso del mondo non-ebraico che era rifiutato e disprezzato da Dio. Mandandoli in mezzo al mondo non-giudaico Gesù dichiara finita e innaturale la separazione tra sacro e profano perché tutto è nel segno della benevolenza di Dio: nulla è estraneo a lui e non c’è più un recinto o un confine che determina ciò che è sacro e ciò che non lo è. Più che di fronte ad uno schema di missione ci troviamo davanti ad un metodo di cambiamento di mentalità del personale apostolico.

Il secondo momento/atteggiamento è questo: il missionario non deve programmare la sua accoglienza, ma deve affidarsi alla disponibilità degli uomini di cui deve fidarsi. La sua stessa sopravvivenza come il mangiare, dipende dall’ospitalità che deve essere gratuita perché nessuno può comprare o vendere Dio e tanto meno il cuore delle persone. Giuseppe Flavio testimonia che gli Ebrei in ogni città avevano un incaricato responsabile di accogliere i pellegrini e offrire loro cibo e vestito. Ogni diocesi dovrebbe avere un centro di accoglienza per gli immigrati cristiani, almeno in prima battuta, i quali dovrebbero sentirsi accolti nella propria casa e non essere sbandati allo sbaraglio, stranieri nella loro stessa Chiesa. Siamo diventati custodi dell’illegalità dello Stato pagano a danno della moralità richiesta dal Vangelo.

Il terzo momento/atteggiamento è lo scuotimento della polvere dai calzari che non è giudizio morale, ma un’affermazione di responsabilità. Il gesto è un atto simbolico che ogni ebreo compie dopo un viaggio in terre abitate da non Giudei. La terra forma un tutt’uno con le persone e il loro atteggiamento morale e religioso (Nm 5,17): separarsi dagli impuri significa distaccarsi anche dalla loro terra. Con questo gesto l’inviato mette coloro che li rifiutano di fronte alla loro responsabilità che resta intera anche nelle conseguenze. Dio non impone nemmeno se stesso, ma si offre alla libera ospitalità perché senza libertà non può esserci né umanità né fede. Quando riusciremo a scuotere la polvere della nostra incredulità, allora potremmo pensare di poter iniziare il lungo cammino del catecumenato che ci condurrà, a Dio piacendo, prima a diventare discepoli, quindi catechisti-testimoni-discepoli e infine contemplativi della volontà di Dio, una volontà senza confini e senza condizioni, universale e aperta: «cattolica» nel vero senso della parola. 

 

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