Mensa della Parola: Ger 23,1-6; Sal 23/22,2-3.4. 5.6; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
Il tema dell’autorità nella Chiesa è il cuore dell’annuncio profetico della Parola. È un tema delicato perché c’è sempre un duplice rischio: se si accenna qualche rilievo al modo di esercizio dell’autorità nella Chiesa, si passa per «ribelli»; se invece si tace anche di fronte a manifestazioni autoritarie che esulano dal mandato ricevuto, prevaricando dalla propria missione, si passa per paurosi e succubi. Per evitare questo cerchio asfissiante, c’è una sola via: entrare dentro la Parola di Dio e lasciarsi liberamente modellare da essa senza pregiudizi e senza secondi fini.
Nota esegetica
Presentandosi come il «Servo di Yahwèh», venuto per servire, in opposizione a chi esercita il potere per la propria vanagloria (Mc 10,40-45; Lc 4,18-19), Gesù agli apostoli non ha dato un mandato di autorità, ma di «diaconìa» (Mc 10,40-45). Il testo greco di Mc 10,42 chiama «coloro che appaiono/sembrano essere capi delle nazioni signoreggiano/ spadroneggiano su di esse e i grandi di loro esercitano il potere su di esse». Ogni forma di potere non governa, ma appare governare perché l’obiettivo è il dominio non il servizio; i governanti/potenti non sono reali, ma figuranti. Se poi vogliono sentirsi anche «i grandi», lo dimostrano perché «sottomettono/opprimono/dominano». La loro azione non è per la vita (portare all’esistenza), ma per la libidine del potere dittatoriale. La scelta di Gesù è diametralmente opposta perché: «il figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire». Gesù aggiunge come buon peso «e dare la sua vita come prezzo di liberazione per molti/tutti». È la logica che emerge dalla preghiera di Gesù, prima di morire (Gv 17,11.14-16). Chi vuole essere dentro la logica del vangelo di Gesù, sia nella Chiesa sia in Politica, o in Economia o ovunque c’è il rischio di un potere che può rivolgersi verso altri, condizionandone la vita e le scelte o le condizioni esistenziali, deve fare il salto dall’apparenza all’essere, dalla finzione al servizio disinteressato. Fuori di questa logica, non c’è fede.
Gesù propone il suo stile e la sua visione nuova principalmente offrendo l’esempio delle sue scelte: mettendosi in fila con i peccatori sulle rive del Giordano (Mc 1,4-9), andando per villaggi alla ricerca dei perduti, dei dispersi (Mc 1,38) e dei pagani con altre religioni (Lc 4,26-27). Nella Chiesa governare dovrebbe essere il compito più facile del mondo perché dovrebbe essere sufficiente, a chi esercita il ministero del servizio, fare come ha fatto Gesù: liberarsi da ogni suppellettile ornamentale e conformarsi al dettato austero del vangelo. La dignità di chi serve nel ministero dell’autorità è solo ed esclusivamente nell’autorevolezza coerente di chi l’esercita. Nessuno che voglia essere fedele alla Parola di Dio può dichiararsi contro l’autorità nella Chiesa: nel vangelo è della massima evidenza la sua funzione e nessuno può eliminarla senza snaturare il vangelo stesso. Gesù concepisce l’autorità come sacramento della misericordia di Dio in modo specularmente opposto al «sistema mondo» (Mc 10,40-45), come abbiamo appena visto: «Essi sono “nel” mondo… essi non sono “del” mondo» (Gv 17,11.14).
Nota storico-teologica
Si è verificata anche una trasformazione semantica: il termine «Chiesa», che indica la «convocazione dell’Assemblea», nella quale si diversificano ministeri e funzioni, è diventato sinonimo di «gerarchia». Ciò comporta la distrazione dell’autorità da quelli che sono i compiti suoi propri: la custodia, la formazione e la tutela dell’integrità del popolo di Dio di cui dovrà rendere conto al Dio «pastore d’Israele» (Sal 80/79, 2). Papa Francesco, per grazia di Dio, sta cercando di riportare – con immensa fatica – le cose al loro posto logico e «teo»-logico, ripartendo dall’ecclesiologia centrata sulla nozione di «popolo di Dio» che espose da subito, la stessa sera della sua elezione a «Vescovo di Roma»: «Fratelli e sorelle, buonasera! Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo ... ma siamo qui ... Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo Vescovo: grazie! … E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese … E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima — prima, vi chiedo un favore: prima che il Vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me. Adesso darò la Benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà».
Quando la gerarchia ha paura del laicato è segno che lo vive e lo interpreta come un concorrente e, di conseguenza, ne rifiuta la mediazione sia culturale sia propriamente laicale, rapportandosi direttamente con la politica e i governi, occupando così uno spazio che non le compete a norma dello stesso magistero della Chiesa, compendiato nella Dottrina sociale della Chiesa. Nella storia della Chiesa cattolica la gerarchia ha ceduto spesso al rischio di tenere il laicato in uno stato di «minore età», creando gli strumenti di una perenne dipendenza e sudditanza che ne hanno sempre bloccato la crescita. I laici hanno perso il diritto di parola e nelle cose che sono del mondo è stato loro amputato il dovere della rappresentanza. Per tutti parla il papa o il presidente della Cei. Ai laici resta il diritto di rispondere: «Amen!» in segno di assenso e di sottomissione. Essi sono tollerati come collaboratoridei preti, ma solo se stanno al loro posto. Papa Francesco non si stanca di sollecitare, stuzzicare e spronare vescovi e clero a «stare in mezzo al popolo» per assumere «l’odore di pecora» e anche a camminare non solo davanti, ma anche a «camminare dietro il popolo … per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare strade nuove». Papa Francesco espone concetti così ovvi che risultano vere rivoluzioni culturali e pastorali: «Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello –; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini», rendendo plastica l’immagine di Gesù «pastore».
L’immagine del pastore che porta addosso «l’odore di pecore» è così cara a Papa Francesco che egli stesso l’ha richiamata spesso in modo continuo: «Ai sacerdoti ho chiesto di essere pastori con l’odore delle pecore». «Nell’omelia della Messa Crismale di quest’anno dicevo che i Pastori devono avere «l’odore delle pecore». Siate Pastori con l’odore delle pecore, presenti in mezzo al vostro popolo come Gesù Buon Pastore. La vostra presenza non è secondaria, è indispensabile. La presenza! … Non chiudetevi! Scendete in mezzo ai vostri fedeli, anche nelle periferie delle vostre diocesi e in tutte quelle «periferie esistenziali» dove c’è sofferenza, solitudine, degrado umano. Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade … Immergersi nel proprio gregge! E qui vorrei aggiungere: lo stile di servizio al gregge sia quello dell’umiltà, direi anche dell’austerità e dell’essenzialità. Per favore, noi Pastori non siamo uomini con la «psicologia da principi» – per favore – uomini ambiziosi, che sono sposi di questa Chiesa, nell’attesa di un’altra più bella o più ricca. Ma questo è uno scandalo … State bene attenti di non cadere nello spirito del carrierismo! È un cancro, quello! Non è solo con la parola, ma anche e soprattutto con la testimonianza concreta di vita che siamo maestri ed educatori del nostro popolo. L’annuncio della fede chiede di conformare la vita a ciò che si insegna. Missione e vita sono inseparabili…».
Ecco alcune pennellate che la liturgia di oggi ci propone. Geremia, solo in mezzo a una folla di adulatori, mette in guardia il re Sedecìa (597-586 a.C.) di non perseguire sogni di vanagloria, ma di leggere gli eventi come comandamenti di Dio per cogliervi il tracciato della storia della salvezza. Il profeta prende atto che il re e i suoi cortigiani si reputano politici dal fiuto straordinario e mentre essi tramano le loro alleanze e si congratulano con se stessi per la loro bravura e capacità, egli annuncia la disfatta che sarà molto più dura di quanto non si possa immaginare. Sedecìa e i suoi cortigiani da lì a poco verranno letteralmente accecati col ferro rovente da Nabucodònosor, re di Babilonia (637-562 a.C.) che li porterà in esilio da cui non ritorneranno più. Chi aveva fatto del culto della propria personalità l’obiettivo della vita si ritrova schiavo e diseredato fuori dalla terra promessa: muoiono in terra straniera. I capi di governo che usano la religione per i loro fini di potere e il nome di Dio per distrarre dai loro misfatti, sono ripudiati con ludibrio pubblico.
Gesù nel Vangelo di fronte all’entusiasmo dei discepoli che gli narrano del loro successo, si preoccupa di ridimensionarli e li porta in «luogo deserto, in disparte» (Mc 6,32), sottraendoli alla folla che dava loro l’ebbrezza dell’importanza e della loro indispensabilità: «non avevano neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,31). Quando il successo fa apparire indispensabili davanti ai propri stessi occhi, è tempo di salire su una barca e di andare altrove, a purificarsi, «in disparte» (Mc 6,32) per ritrovare le proporzioni della propria dimensione, per rimanere in contatto con la realtà e la spiritualità del dovere e della responsabilità (Lc 17,10). È questo il senso pastorale e spirituale dell’Eucaristia: è il nostro «luogo deserto», il nostro «disparte» dove formiamo una comunione di persone per prendere coscienza della nostra vocazione e del nostro ministero. Qui la Parola di Dio ci purifica nelle acque dello Spirito e ci restituisce alla verità di noi stessi, l’unica possibile, secondo il metodo di Lc 17,10: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». Questa coscienza rende responsabile ogni battezzato consapevole davanti al diritto di parola e di testimonianza. Nessuno, tanto meno l’autorità della Chiesa, può privare di questo diritto. Il cristiano non riceve il mandato dall’autorità di annunciare la Parola, di celebrare l’Eucaristia e di testimoniare; tale mandato gli deriva, sorgivo e autorevole, direttamente dal battesimo, dalla consacrazione che lo innesta nel «Regno di sacerdoti e nazione santa» (Es 19,6; 1Pt 1,5). In quanto battezzati siamo responsabili della salvezza del papa, dei vescovi, dei superiori e di chiunque esercita un’autorità nella Chiesa.
Esame di coscienza
Invochiamo lo Spirito Santo che ci introduca nel Santo dei Santi della Dimora, liberandoci dalla tentazione demoniaca della vanagloria e della paura perché tutto ciò che siamo lo siamo per il Signore (1Cor 8,6) e tutto ciò che facciamo lo vogliamo fare per la gloria di Lui soltanto, in forza di quell’assillo del vangelo che lo stesso Spirito alimenta in noi (2Cor 11,28) e per il quale ci convoca all’Eucaristia. Viviamo in un tempo di transizione che si accompagna ad un tempo di decadenza. Il passaggio da un secolo ad un altro e ancora più da un millennio ad un altro è un fenomeno che coinvolge il tempo di due generazioni, ed è sempre accompagnato da una forte instabilità che nasce dalla stanchezza, come se il tempo si adagiasse su se stesso, e gli uomini sentono la fatica di giungere ad una nuova mèta.
La storia testimonia che in queste condizioni è necessaria una doppia «vigilanza» specialmente per la Chiesa che rischia di smarrire l’obiettivo di fondo della sua missione per addormentarsi sulla vacuità dei successi ottenuti nel contesto del mondo. La frattura che si sente netta e dolorosa tra una parte consistente del popolo di Dio e la gerarchia, che ha funzione di discernimento e di guida, è conseguenza di questo disorientamento. Se manca il discernimento, la guida/autorità diventa delirio di comando, di protagonismo e di culto della personalità, mentre il popolo resta solo e abbandonato nel deserto, senza pastori e senza nutrimento. Preghiamo in questa Eucaristia per chi nella Chiesa e nella vita esercita un’autorità, anche piccola, perché non smarrisca mai il senso del suo servizio e non coltivi mai il culto della propria personalità, ma si dedichi a curare le ferite delle pecore e a cercare pascoli sempre più rigogliosi.
Poiché tu sei Dio buono e amico degli uomini, noi rendiamo gloria a Te, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.
Il Signore Dio apparso a noi nella debolezza della fragilità umana, che da Creatore si fece servo scegliendo di accogliere e servire piuttosto che essere servito, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e per i meriti dei Padri e delle Madri che ci hanno preceduti nel cammino della fede in vista della redenzione di Gesù morto e risorto per noi, ci conduca alla vita eterna. Amen!
Spunti di riflessione e preghiera
Nel libro dei Numeri leggiamo che Mosè, dopo avere guardato la terra promessa e prima di morire, chiese a Dio un successore come guida del popolo e Dio gli fece scegliere Giosuè (Nm 27,15-18). In ebraico il nome «Yehosuàh», nella forma lunga, oppure «Yoshuàh» nella forma corta, significa tanto «Giosuè» che «Gesù». La Bibbia greca traduce sempre con «Gesù». Il nome è come al solito «teofòrico» perché significa «Dio salva». Nel libro dei Numeri, Giosuè è successore di Mosè, ma nel libro del Deuteronomio c’è la promessa al popolo e a Mosè di suscitare un profeta «pari a» Mosè, il profeta più grande di tutti i tempi: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto» (Dt 18,15).
Matteo in modo particolare considera che il compimento di questa profezia si attui nel momento della trasfigurazione, quando proprio davanti a Mosè, rappresentante della Toràh e ad Elìa, rappresentante della Profezia e ai tre discepoli, rappresentanti della nuova umanità, la voce invita Israele e i popoli ad «ascoltare» Gesù: «Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”» (Mt 17,5). Il successore che Mosè chiede è Gesù «il pastore bello» (Gv 10,11.14) che si prende cura del gregge, che viene a radunarlo dalla dispersione dove si trova, che mette a rischio la sua vita e non quella delle pecore, che non esita a sacrificare la sua vita per salvare il gregge. A sua volta il profeta Ezechiele, dalla terra di esilio di Babilonia, sette secoli dopo Mosè e cinque prima di Gesù, descrive le responsabilità e le condizioni dell’abbandono del gregge di Dio: i pastori che avrebbero dovuto curarsi delle pecore le hanno disperse e abbandonate nel deserto, lo stesso dove ora Mc conduce Gesù perché possa sfamarle e recuperale dalla loro desolazione. Gesù è la risposta all’invocazione di Mosè e anche alla preoccupazione di Ezechiele. Il vangelo di Gv lo chiama il «Pastore bello» (Gv 10,11.14) perché alimenta la sua bellezza nutrendo il suo sguardo e la sua anima con la familiarità delle sue pecore con le quali forma un tutt’uno. In Mc, come negli altri sinottici, Gesù si presenta come il vero successore di Mosè e l’erede della profezia d’Israele: egli è in grado di prendersi cura del popolo di Dio, di nutrirlo e di guidarlo ai pascoli verdeggianti descritti nel salmo di oggi (Sal 23/22) che la tradizione ebraica attribuisce al pastore modello, il re Davide.
Sono la logica e la prospettiva con cui si deve leggere quella parte del vangelo di Mc (6,8-8,30) che è costruita attorno a Cristo, nuovo Mosè: offre la vera manna (Mc 6,35-44 e 8,1-10); cammina sulle acque del mare dominandole (Mc 6,45-52) come Mosè per ordine di Dio dominò il Mar Rosso (Es 14,15-31); restituisce alla Toràh la sua dignità offuscata dal legalismo dei farisei (Mc 7,1-13) e introduce i pagani nella terra promessa ad Israele (Mc 7,24-37). Questo il quadro di riferimento dentro il quale bisogna leggere il brano del vangelo di oggi, integrato con il brano di Geremia. Il profeta non si limita a inveire contro i falsi pastori ma davanti agli stessi «osa» affermare che Dio in persona li sostituirà, togliendo loro quell’autorità di cui non sono stati degni. Sceglierà capi competenti (Ger 23, 4-5) e li sceglierà dalla dinastia davidica (Ger 23, 5), collocandosi così sulla prospettiva dinastica di Isaìa (Is 7,13).
Dal canto suo, Gesù, nel brano di oggi, esprime la sua preoccupazione sulla condizione dei discepoli al ritorno dal mondo esterno e sulla situazione disperata in cui si trova il popolo, abbandonato a se stesso. Al loro ritorno, «gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6,30). È qui il modello di Chiesa evangelica: andare nel mondo, tornare, riunirsi attorno a Gesù e riferire parole ed eventi: la comunicazione circolare. Mancando la comunicazione circolare che demitizza l’esercizio dell’autorità come storicamente è realizzata, si crea un corto circuito che fa esplodere tensioni, conflitti e paure; tali aspetti portano a chiudersi e si risolvono con uno sterile «ritorno al passato», segno di poca fede e scarso discernimento della Storia come «luogo teologico» della Dimora/ Presenza di Dio.
Domenica scorsa abbiamo visto che i discepoli vanno oltre il mandato ricevuto: Gesù li aveva inviati nel mondo perché incontrassero gli uomini e le donne loro contemporanei per imparare a capire quali fossero e sono tutt’ora i bisogni dell’umanità lontana da Dio e come li aveva inviati in coppia dando loro «potere sugli spiriti impuri» (Mc 6,7), mentre essi si dedicano alla predicazione della conversione, all’unzione dei malati e alle guarigioni (Mc 6,12) come anche all’insegnamento (Mc 6,30). Di fronte a questo capovolgimento del mandato ricevuto, Gesù non risponde, ma non approva. Egli però si fa carico della loro stanchezza che comunque c’è stata (Mc 6,31). Li conduce in un luogo appartato per farli riflettere «a caldo» sulla corrispondenza tra mandato ed esecuzione e per sottrarli alla folla che li soverchia e li sommerge: «non avevano più neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,31).
Non sappiamo con esattezza quali fossero le intenzioni di Gesù nel portarli in disparte, però dall’insieme del contesto possiamo supporre che la sua intenzione di fondo possa essere stata quella di aiutare i discepoli a riflettere sul «mondo pagano» che hanno appena visto e sperimentato; e anche a non montarsi la testa né a sentirsi «indispensabili» per la folla che preme. Li conduce in un luogo deserto, dove possono stare con lui e con se stessi, lontani dai successi facili e dal gorgoglìo della folla che è una cattiva bestia: può ubriacare e può crocifiggere. Gesù diffida sempre delle folle, sia quando vogliono farlo re (Gv 6,15), sia quando vogliono allontanarlo (Lc 8,37) o eliminarlo (Lc 4,29). Quando, però, vede che la folla non desiste e lo rincorre, Gesù «ebbe compassione», cioè si lascia toccare dentro la sua anima e partecipa alla condizione di povertà del suo gregge: «erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6, 34).
In che modo Gesù si fa carico fino a generare la folla con un atteggiamento materno di condivisione vitale? Si mette a fare scuola: «si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34), non si preoccupa adesso se hanno fame, ma si preoccupa che abbiano una coscienza, una consapevolezza. Gesù era partito da due obiettivi: mandare i discepoli nel mondo perché apprendessero il linguaggio degli uomini e ne conoscessero l’habitat; con il secondo obiettivo voleva sottrarre i discepoli alla tentazione della folla e quindi della superficialità perché era necessario approfondire ciò che avevano visto e fatto.
L’evangelista dice che si mise ad insegnare «molte cose»: non fece cioè un corso per dare una infarinatura, perché «molte cose» esigono molto tempo e la disponibilità della propria persona. In altre parole Gesù anticipa l’Eucaristia, simboleggiata nella moltiplicazione dei pani: egli si mette a disposizione fino a farsi consumare, prima come Parola e poi come vita/cibo. Sia la Parola che il cibo devono essere mangiati, ruminati, assimilati e gustati: e per questo ci vuole tempo. Noi credenti non siamo testimoni di Gesù perché offriamo un buon esempio di vita morale, infatti tale vita non è appannaggio dei soli cristiani: anche i non credenti hanno una vita morale che eticamente può anche essere superiore alla nostra. La testimonianza unica che nessun altro può «rapirci» è solo questa: dire con la nostra vita quella di Gesù, che si lascia consumare e si distribuisce alla folla affamata di Parola e di pane. Anche a noi oggi Gesù insegna «molte cose»: è l’Eucaristia questa scuola e questo deserto, dove non siamo più pecore senza pastore, ma solo figli e figlie che si nutrono alla stessa mensa con la coscienza di essere nel mondo sacramenti viventi dell’unico Padre.
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