Mensa della Parola: 2Re 4,42-44; Sal 145/144,10-11.15-16.17-18; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15
Con la domenica di oggi cambia l’ambientazione geografica: per Gv Gesù «passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè Tiberiade» (Gv 6,1), e di nuovo «lo seguiva una grande folla» (Gv 6,2). È interessante come Gesù cambia «luogo»: dal «deserto all’altra riva». Egli passa dal luogo dell’aridità al mare della vitalità, ma anche dal «deserto» come spazio della tenerezza di Dio, luogo del fidanzamento basato sulla fiducia (Os 2,15) all’altra riva, oltre il mare, secondo la cosmogonia orientale, sede del male e degli spiriti maligni: tutto è sotto il segno di Dio perché Dio tutto guida al compimento nell’armonia del creato. Gv sembra dire che non c’è posto o luogo che possa trattenere l’anelito di Dio che corre alla ricerca degli uomini. Gv aggiunge alcune annotazioni che servono da sfondo anticotestamentario: «Gesù salì sul monte» (Gv 6,3) come Mosè salì verso il Signore che lo chiamò dal monte (Es 19,3). L’evangelista annota che «era vicina la Pasqua dei Giudèi» (Gv 6,4), richiamo esplicito alla Pasqua ebraica e all’esodo con tutte le sue implicanze. Nell’espressione c’è anche un’esplicita polemica: «Pasqua dei Giudei» è sprezzante, come dire la «Pasqua di quelli là», che non ha importanza perché è oramai una Pasqua superata e forse delegittimata. Questa espressione di disprezzo è segno che ormai la rottura tra Chiesa e Sinagoga è già avvenuta e la frattura è insanabile. Una frattura che avrà conseguenze tragiche lungo due interi millenni, durante i quali il mondo cristiano si è nutrito di antigiudaismo teologico e pratico che ha condotto alla consumazione dell’ignominia dell’umanità: la Shoàh.
Lo scenario è dunque questo: c’è molta folla, Gesù sale sul monte, è la Pasqua dei Giudei, la folla ha fame, Gesù li sfama col «pane del cielo». Tutti questi elementi si trovano nel racconto dell’Esodo: il deserto, la folla degli Ebrei che lascia l’Egitto, Mosè che sale sul monte di Dio, la folla affamata e sfamata da Mosè con la manna. Per l’evangelista Gesù è il nuovo Mosè che porta a compimento ciò in cui il grande condottiero non è riuscito: condurre Israele alla fedeltà di Dio attraverso il cibo di un pane non perituro perché viene dal cielo. Anche noi viviamo il nostro esodo e sostiamo al pozzo dell’Eucaristia dove troviamo l’acqua e il pane disceso dal cielo.
Noi siamo convocati, cioè siamo radunati dallo Spirito, attorno all’Altare, simbolo di Cristo risorto, per innalzare a nome dell’umanità intera la lode di ringraziamento al Padre che è nei cieli. In altre parole, noi siamo «chiesa» non perché abbiamo deciso di partecipare all’Eucaristia, ma unicamente perché essendo stati convocati, abbiamo risposto all’investitura dello Spirito Santo per esercitare il ministero profetico di annunciare il Nome di Dio sul mondo intero. Siamo profeti inviati a invitare l’umanità a venire a sfamarsi con il Pane del cielo, il pane che sazia da ogni fame e che nutre ogni bisogno. Siamo profeti perché annunciamo con la nostra vita e le nostre scelte che la fame nel mondo è un’ingiustizia che grida a Dio e noi vogliamo fare la nostra parte vivendo una vita sobria, eliminando ogni superfluo, seminando dovunque andiamo germi di comunione e di compartecipazione. Noi siamo profeti del Pane e della Parola e anche della Speranza. Noi siamo figli di quell’occidente che nega Dio ogni giorno perché consuma l’80% delle risorse alimentari a beneficio del 10/20% della popolazione del mondo e a danno dei 2/3 degli abitanti della terra che vivono al di sotto della soglia della povertà.
Esame di coscienza
Prendiamo coscienza della nostra responsabilità e poniamo rimedio o non passeranno tre generazioni che l’occidente sarà sopraffatto e annientato dai poveri incolleriti in fuga dalla fame e dai cambiamenti climatici che producono siccità per venire, come nuovo Lazzaro, a cercare le briciole che cadono dalla mensa dei paesi occidentali opulenti. Chiedere perdono a Dio non significa fare il lavaggio della coscienza con una spruzzatina di acqua benedetta, ma chiedere a Dio la luce e la forza per cambiare strada, mentalità, stile e impegno. Chiedere perdono a Dio significa fare professione di rivoluzione in nome di quel Dio che osiamo chiamare «Padre», nello stesso momento in cui ripudiamo i nostri «fratelli e sorelle» in ogni parte del mondo perché sono anch’essi «Figli di Dio» (Gv 11,52; Rm 8,16; 1Gv 3,1-2; 5,2). Con questi sentimenti possiamo, dobbiamo, chiedere perdono al Signore, riconoscendoci peccatori davanti a lui e davanti agli uomini e alle donne del mondo che attendono giustizia ed equità.
Signore, siamo sazi e non ci accorgiamo della fame degli altri, convertici. Kyrie, elèison.
Cristo, non avevi tempo di mangiare per sfamare le folle, convertici. Christe, elèison.
Signore, tu moltiplichi il pane, con la nostra collaborazione, convertici. Kyrie, elèison.
Cristo, ti sei fatto Pane spezzato perché non avessimo scuse, convertici. Christe, elèison.
Il Dio di Mosè e di Eliseo, il Padre del Signore Gesù, Pane disceso dal cielo, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
Iniziamo la lettura quasi completa di Gv 6 che inizia oggi e proseguirà ancora per altre quattro domeniche. Approfittiamo di questa occasione unica della lettura organica del capitolo 6 di Giovanni, che riporta il «discorso del pane», per fare uno studio approfondito, lasciando poi a ciascuno l’utilizzo secondo le necessità. Per prima cosa è importante affermare che si è quasi certi che si tratti di una omelia secondo gli schemi usati nel sec. I d.C., come testimonia lo stesso autore: «Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga di Cafarnao» (Gv 6,59). Un’antica tradizione narrava che, al tempo della manna nel deserto, Dio aveva mutato le stesse leggi della natura: l’acqua, infatti, scende dal cielo e il pane viene dalla terra; nell’esodo dall’Egitto invece, Dio fece scaturire l’acqua dalla terra (il pozzo) e fece piovere la manna (il pane) dal cielo. Dopo il racconto di un «segno» operato da Gesù, segue un dialogo con i presenti e il racconto termina con un monologo, ovvero la riflessione dell’autore che esprime il senso di tutto ciò che procede. Il capitolo 6 di Giovanni ha questa struttura di base:
1. Gv 6, 1-25: Parte narrativa che a sua volta comprende due momenti:
a) vv. 1-15: la moltiplicazione dei pani, riportata nel vangelo di oggi
b) vv. 16-25: Gesù che di notte cammina sulle acque
2. Gv 6, 26-68: Parte discorsiva: l’evangelista mette in bocca a Gesù la teologia del fatto dei pani, la cui struttura esamineremo a suo tempo.
Per rendersi conto della bellezza del testo è necessario vederlo strutturato nella sua armonia interna anche letteraria. Ecco la divisione:
A 1 Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, 2 e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. 3 Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. 4Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
B 5 Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». 6 Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. 7Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
C 8 Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simòn Pietro: 9 «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
D 10 aRispose Gesù: “Fateli sedere”.
E 10b C’era MOLTA ERBA in quel luogo.
D’ 10c Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
C’ 11 Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
B’ 12 E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». 13 Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
A’ 14 Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il pro feta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
La moltiplicazione del pane è un segno (tema fondamentale in tutto il vangelo di Gv). Gv però vuole sottolineare due elementi importanti: l’atteggiamento della folla e la risposta di Gesù. La folla cerca molti segni eclatanti, mentre Gesù ne offre uno solo: il pane. In Gv nulla è casuale! Che senso ha questo passaggio dai segni (plurale) di Gv 6,2 al segno (singolare) di Gv 6,14? I Giudei, per essere fedeli al Dio della Toràh, dovevano osservare 613 precetti e i farisei pensavano che il popolo non fosse in grado di osservarli tutti, per cui ne deducevano che la salvezza era appannaggio di pochi. Gesù, al contrario, come ha fatto con i comandamenti che ha ridotti ad uno, cioè al comandamento dell’amore di Dio e del Prossimo (Mt 22,36-40), allo stesso modo riduce i «segni» richiesti dei Giudei ad un solo segno: il segno del Pane, cioè della sua identità. Tutto il contesto suggerisce da un lato il clima pasquale (Gv 6,4: «era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei») e dall’altro il clima dell’alleanza richiamata sia dall’accenno al monte (Gv 6, 3.15) sia dal tema del pane che è il tema centrale del racconto. Gesù è il nuovo Mosè, il suo successore che egli stesso aveva annunciato, prima di morire al confine della terra promessa (Dt 18,18). Mosè guida il popolo nella traversata del Mar Rosso e sale da solo al Sinai, il monte di Dio; Gesù va in mezzo alla folla, ma sale sul monte con i suoi discepoli. Mosè procura la mamma, mentre Gesù dona il pane. Mosè ha dato al popolo la Toràh, il Messia dell’alleanza nuova dona ora la nuova Toràh della sua carne: «la Parola carne fu fatta» (Gv 1,14) Altri elementi di parallelismo tra Gv 6 e l’Esodo sono espressi o sottintesi. Ne evidenziamo alcuni:
Gv 6 | Èsodo |
v. 1 Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea | 14,21-31 Gli Ebrei attraversarono il Mar Rosso |
v. 2 Una grande folla lo seguiva (anche v. 5) | 12,37 Una folla di 600.000 Ebrei lasciò l’Egitto |
v. 2 «Vedendo i segni che faceva» | 4-12 Mosè infligge all’Egitto i segni: piaghe/colpi |
v. 3 Gesù salì sul monte | 19,16-25 Mosè salì sul monte del Sinai |
v. 4 Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei | 12 L’Esodo è l’evento pasquale per eccellenza |
v. 6 Diceva così per metterlo alla prova | 32 Gli Ebrei furono tentati nel deserto |
v. 10 C’era molta erba in quel luogo… 5.000 uomini | 12,37 In 600.000 vagano nel deserto dell’esodo |
v. 11 Gesù prese i pani… rese grazie, li distribuì | 16,35 La manna nutre l’intero popolo |
v. 12 Raccogliete i pezzi avanzati | 16,5.22-27 La manna raccolta anche per il sabato (v. 32,1) |
v. 13 Raccolsero e riempirono dodici canestri | 24,4; 28,21 come dodici sono le tribù d’Israele |
v. 14 La gente, visto il segno…: «Questi il profeta» | 15,22-25 Gli Ebrei mormorano contro Mosè e Aronne |
v. 15 Gesù… si ritirò sul monte, tutto solo | 32,31-35 Mosè fu solo tra Dio e il suo popolo (v. 34,2-3) |
C’è anche un gioco simbolico dei numeri come i 5 pani a cui corrispondono 5.000 uomini; 2 pesci che richiamano i 200 denari (= 6 mesi di stipendio di un operaio). Vediamo che due numeri ricorrono con frequenza: il 7, il numero della totalità e il 12 il numero dell’integrità d’Israele antico, radunato nelle 12 tribù, e dell’Israele nuovo, la Chiesa, poggiata sulle «colonne» (Gal 2,9) dei 12 apostoli (Gv 6,67). Per la tradizione giudaica e cristiana, l’era messianica sarà caratterizzata da un’abbondanza straordinaria, qui sottolineata dalle 12 ceste di pani raccolti dopo che l’enorme folla è stata saziata.
Il 5 e i suoi multipli (50; 5.000) fanno riferimento alla Pentecoste e quindi al dono dello Spirito: moltiplicando 5 pani per 5.000 persone, l’evangelista ci dice che è giunto il tempo dello Spirito dato in pienezza come aveva previsto il profeta Gioèle (Gl 3,1). Moltiplicando il pane, Cristo integra l’antico col nuovo e forma un’umanità nuova che introduce nella nuova terra promessa dell’umanità di Dio, dove non si mangerà più la manna, ma il pane del suo corpo e il vino del suo sangue. Il simbolismo del numero 12 è confermato da un altro parallelo importante: quando Giosuè deve entrare nella terra promessa, sceglie 12 uomini (Gs 4,9.20) per portare 12 pietre, ciascuna simbolo di una tribù. Nella tenda del convegno nel deserto e nel tempio di Gerusalemme dopo, vi era un altare su cui ogni sabato dovevano essere posti 12 pani in due file di sei, simbolo di comunione delle tribù con il loro Dio. Sono chiamati «pani della presentazione» (Es 25,30; 35,13) perché sono i pani della Presenza in quanto stanno sempre davanti a Dio, segno visibile della comunione di alleanza. È un pane sacro e possono mangiarne solo i sacerdoti. In qualche modo il pane posto sulla tavola dell’offerta indica la Presenza di Dio. Qui possiamo avere un anticipo antico-testamentario dell’Eucaristia. In Gv 6 il tema del numero 12 è espressamente menzionato al v. 67 (“Gesù disse ai Dodici…”) e al v. 70 (“non ho forse scelto io voi, i Dodici?”). Con questo tema, Gv intende mettere in evidenza che Gesù è il nuovo Giosuè che introduce il nuovo popolo nella nuova terra promessa, non più una terra materiale, ma la terra della natura umana di Gesù e della sua carne. Il popolo dei redenti non dovrà spartirsi porzioni di terra, ma potrà accedere alla mensa dell’abbondanza, conservata per le generazioni future: le 12 ceste di pane avanzato.
Il profeta Isaia aveva prefigurato il banchetto messianico della fine dei giorni come una mensa abbondante preparata dal Signore stesso sul monte. Ora il banchetto è pronto e il Signore invita a prendere posto l’umanità in attesa, senza esclusione di popoli e di individui: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6). La manna del deserto (Es 16,13-20) è un nutrimento che sostiene solo il popolo d’Israele nella traversata dalla montagna di Dio, l’Oreb/Sinai, fino alla Terra Promessa. È proibito raccoglierne per conservarla e chi disobbedisce fa un’amara esperienza: la manna si corrompe e non più mangiabile. Il Pane che è Cristo è il cibo della volontà del Padre ed è per la vita eterna, un pane che «è necessario» raccogliere e conservare anche per le generazioni future. Noi non possiamo vivere oggi pensando solo a noi, noi seguiamo altri che ci hanno preceduto e precediamo altri che verranno dopo di noi: di essi siamo responsabili non solo genericamente, ma in modo diretto. Dobbiamo pensare a lasciare il cibo per loro che significa lasciare un ambiente vivibile, non degradato, risorse sufficienti non lapidate.
Nel Targùm (= «traduzione» e con la quale si designano alcune versioni della Bibbia in lingua aramaica giudaica) il Pane conservato è il pane dei comandamenti e quindi dell’alleanza: il Pane della parola di Dio che nella Toràh nutre e vivifica il popolo santo. Il Giudaismo del primo secolo era in attesa del tempo del Messia come un tempo in cui Dio avrebbe rinnovato il miracolo della manna che non è solo un cibo per sfamare, ma principalmente il cibo che nutre l’obbedienza ai comandamenti del Padre, che Gesù metterà al centro del suo vangelo riducendo i 613 precetti della tradizione giudaica nell’unico comandamento dell’amore. La manna è la Parola di Dio che si incarna nei comandamenti che nutrono chi li vive, come insegna anche la Sapienza: «20 Hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli, dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto. 21 Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i figli, si adattava al gusto di chi ne mangiava, si trasformava in ciò che ognuno desiderava… 26 perché i tuoi figli, che hai amato, o Signore, imparassero che non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma ogni parola che esce dalla bocca di Dio farà vivere l’uomo» (Sap 16,20-21.26). Raccogliendo le 12 ceste di pane avanzato, Gesù ci affida la sostenibilità del futuro. Un altro elemento suggerito da Gv è il seguente: se la nuova manna è eterna, essa rivela un aspetto della personalità di Gesù. Chi capisce il significato del pane comprende la vera natura di Gesù, mentre da coloro che non vogliono capire perché si fermano alla superficie (è un semplice profeta), Gesù si allontana e si ritira in solitudine. La mensa eucaristica è, al contempo, l’anticipo della speranza escatologica, la realizzazione del mistero pasquale e la rivelazione della Persona di Gesù. Un altro parallelo del pane moltiplicato per la folla si trova nel libro dei Re. La 1a e la 2 a lettura di oggi hanno alcune corrispondenze:
Eliseo (2Re 4,42-44) | Gesù (Gv 6,1-15) |
Un uomo offre pane al profeta i 20 pani offerti al profeta sono d’orzo all’uomo di Dio vengono offerte le primizie Eliseo sfama 100 persone avanza del pane Eliseo in ebraico ’Elishà‘, significa Dio è misericordia | Un ragazzo offre pochi pani con pesciolini i 5 pani offerti a Gesù sono d’orzo Gesù opera mentre «era vicina la Pasqua dei Giudei» Gesù sfama 5.000 uomini avanzano e sono raccolte 12 ceste di pane Gesù, in ebraico Yehoshuà‘, significa Dio è salvezza |
Rinnovando il gesto di Eliseo, Gesù riapre il tempo della profezia di cui rinnova la portata: la misericordia (amore, tenerezza) moltiplica il pane perché la salvezza nutra ogni vivente. L’Eucaristia è il «luogo» dove noi incontriamo la misericordia che salva e di cui siamo chiamati a essere un segno visibile, un sacramentale. La sproporzione numerica tra i due racconti da sola ci dice che il tempo di Gesù è il tempo dell’universalità: Dio supera i confini del nazionalismo giudaico e si appropria dei confini del mondo. Tutti gli uomini e le donne hanno diritto al loro pezzo di pane che noi ancora oggi dobbiamo consegnare in nome e per conto di Gesù che ne ha messo da parte 12 ceste. Compito della Chiesa (= 12 apostoli e folla saziata) è sfamare l’umanità che Cristo ha redento con il suo sangue, quell’umanità a cui Gesù stesso offre «il Pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Ancora una volta Giovanni usa per il pane la formula dell’auto-rivelazione «Io sono» che ha usato per il pastore, per la luce, per la vite, per la vita, per la via: «Io-Sono il pane della vita» (Gv 6,35).
I 5 pani del ragazzo con cui Gesù sfama 5.000 uomini nel racconto di Gv sono pani d’orzo come d’orzo sono i 20 pani con cui Eliseo sfama i cento uomini. Questo riferimento esplicito all’«orzo» può essere un richiamo pasquale perché secondo Lv 23,10 il giorno dopo la Pasqua gli Ebrei devono salire al tempio portando e agitando un covone d’orzo: «Quando sarete entrati nel paese che io vi dò e ne mieterete la messe, porterete al sacerdote un covone, come primizia del vostro raccolto». Un’altra figura che si può confrontare con Gesù è Elia il maestro di Eliseo: Elia è sfamato da una vedova pagana e neppure ebrea con l’ultimo pane che le resta prima di morire di fame, ma il profeta annuncia da parte di Dio che chi sfama chi ha fame vedrà il miracolo dell’abbondanza: la farina non si esaurì e l’orcio dell’olio non calò (1Re 17,10-16). Lo stesso Elia, per scappare dalla furia e dall’odio della regina Gezabele, ripercorre a ritroso il tragitto dalla Terra Promessa verso la montagna di Dio, l’Hòreb, ma è senza forze e non può continuare il cammino. Si ferma per morire. Un angelo lo sveglia o la fa mangiare tre volte pane e acqua (1Re 19,3-8) e «con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Hòreb» (1Re 19,8). Nell’AT spesso la «parola di Dio» è paragonata al nutrimento. Dt 8,2-3 è esplicito: «…ti ha nutrito di manna… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4 e Lc 4,4). Il profeta Amos lo aveva già annunciato nel sec. VIII a.C.: «Ecco, verranno giorni, - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno» (Am 8,11-12). Gesù risolve l’enigma di Amos: alla Samaritana offre l’acqua «viva» che elimina la sete per sempre e ora a coloro che errano da un mare all’altro e vagano da nord a sud («erano come pecore senza pastore» di Mc 6,34) offre se stesso come «Pane del cielo» che toglie ogni fame e apre alla condivisione con gli altri perché consegna anche il pane della speranza, il pane dell’umanità futura. Il libro della Sapienza 16,26 fa l’equiparazione tra nutrimento, parola e fede: «…non le diverse specie di frutto nutrono l’uomo, ma la tua parola conserva coloro che credono in te». La stessa Sapienza (Pr 9,1-6), come una vera madre, costruisce una casa con sette colonne… «ha imbandito la tavola» e manda le ancelle per la città a raccogliere quanti hanno fame… «venite, mangiate il mio pane… Abbandonate la stoltezza e vivrete…» come anche Gesù invierà i suoi per le strade a raccogliere ciechi, storpi, zoppi, poveri e affamati per introdurli al banchetto nuziale (Mt 22, 2-14; Lc 14,15-24).
Anche nella prospettiva di Giovanni, la nuova legge di Gesù, la sua Parola, Egli stesso, è fin dal principio, modello e redentore di tutta la creazione (Gv 17,5). L’idea del mangiare la Parola e quindi l’idea del nutrimento con la vita divina non è estranea alla tradizione biblica. Il profeta Ezechiele riceve una visione in cui è costretto a mangiare il rotolo della parola: «Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele». (Ez 3,1-3; Sir 24,20-21; Am 8,11; Ger. 15,16; Sal 119/118; 103/104). Il pane moltiplicato da Gesù è seguito dal discorso sul «Pane del cielo» e ciò è il segno che la sua Parola e il suo insegnamento sono il cibo dell’alleanza nuova, la nuova manna che toglie la fame e la sete di giustizia per entrare nel Regno: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6) e apre al mistero della Pasqua come dimensione della nuova alleanza. Gv, infatti, fa compiere a Gesù la benedizione del pane con la formula che i sinottici riservano per la l’ultima Cena: «Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì» (Gv 6,11; Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 24,30; At 27,35; 1Cor 11,23-24), facendo del segno della moltiplicazione un riferimento al memoriale della Pasqua che dà la vera prospettiva dell’Eucaristia: la Pasqua unica di Cristo che celebriamo nel tempo e riviviamo nel nostro oggi.
Abbiamo lasciato per ultimo la spiegazione del significato della «molta erba» di Gv 6,10b e che abbiamo individuato come il punto centrale. La domanda è: qual è il significato dell’erba? In Gv nulla è scontato. Viene spontaneo dire che Gesù era in aperta campagna in primavera, nel mese di Nìsan (corrispondente a marzo-aprile) perché lo stesso evangelista annota che «era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (Gv 6,4). Abbiamo visto che egli intende presentare Gesù come nuovo Mosè, nuovo profeta, ma manca la figura che in tutta la tradizione ebraica è il re pastore ideale, il modello dell’autorità sotto le sembianze di un pastore, dalla cui stirpe doveva nascere il Messia: è la figura di Davide. Davide fugge da Sàul (1Sa 21,4) si presenta al sacerdote Achimelèch nella cittadina di Nob, «la città dei sacerdoti» a km 2 a nord di Gerusalemme e chiede «cinque pani», ma riceve «il pane sacro» (1Sa 21,5.7), il pane riservato ai sacerdoti (Lv 24,5-9; Mt 12,4; Mc 2,26). L’evangelista con il richiamo dell’«erba» fa allusione al Sal 23/22,1-2.5: «1 Il Signore è il mio pastore non manco di nulla 2 Su pascoli erbosi il Signore mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce… 5 Davanti a me tu prepari una mensa». Il salmo descrive Dio stesso come pastore che nutre le pecore/Israele con erba e alle quali prepara una mensa di riscatto. Se la manna dunque rimanda a Mosè, l’erba richiama Davide il pastore scelto personalmente da Dio (1Sam 16,12; Ez 34,23; 37,24). Gesù è il nuovo condottiero e il nuovo pastore, anzi il «Pastore bello» (Gv 10,11.14): in lui si uniscono le funzioni di profeta e di pastore. L’«erba verde» è un riferimento anche al Sal 72/71 che sia la tradizione ebraica che cristiana dedicano a Salomone, figlio di Davide ed emblema del re giusto e pacifico, ricco e glorioso (1Re 3,9.12.28; 4,20; 10,1-29; 1Cr 22,9). Il salmo descrive il re ideale del futuro che si realizza nella persona del Messia come fu profetizzato da Isaia (Is 9,5; 11,1-5) e Zaccaria (Zc 9,9-10). Il salmo, pregato nelle sinagoghe, parla della giustizia del Messia che scende «come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra» (Sal 72/71,6). L’arrivo del Messia comporta un’abbondanza straordinaria prodotta dalla terra, il cui «frutto fiorisca come il Libano, la sua messe come l’erba dei campi» (Sal 72/7116). Il riferimento alla «molta erba», quindi, non è una nota di colore, ma il richiamo dell’attesa di Israele che aspettava il Messia che avrebbe rifecondato la terra come madre che nutre i suoi figli. L’idea dei prati erbosi richiama anche Gn 1,11-12 quando Dio crea l’erba sulla terra, mentre l’idea della mensa/tavola richiama il banchetto messianico (Is 25,6). La «molta erba» di Gv 6,10b è un richiamo dei pascoli erbosi procurati da Dio stesso, il pastore che non esita a lasciare il gregge nell’ovile per andare a cercare la pecora che si è smarrita nel deserto (Lc 15,4). Con la semplice annotazione dell’«erba» Gv ci dice che Gesù prepara i pascoli erbosi descritti dal suo antenato Davide e quindi lo paragona al re che fu il pastore modello di tutti i re d’Israele. Gesù, la Parola di Dio, il Lògos che nutre da sé il popolo è venuto a radunare dalla dispersione. Gesù ora realizza ciò che quelli avevano prefigurato: Mosè, Eliseo, Elia, Davide. Nella persona di Gesù tutto l’AT si compie e giunge a maturazione con una quantità tale che non solo sazia i contemporanei, ma ne resta anche per le generazioni future (Mt 5,17).
Celebrare l’Eucaristia è celebrare la profezia che noi abbiamo in custodia il cibo di Dio a cui hanno diritto tutte le genti. Quando nella preghiera del Padre nostro chiediamo «il pane quotidiano» non chiediamo solo o esclusivamente l’Eucaristia, ma ci impegniamo perché ogni mensa abbia il pane necessario, il pane sufficiente.
Applicazione attualizzante
Quale posto occupa nella nostra vita l’Eucaristia? A guardarci intorno, a volte, non abbiamo l’impressione che nelle nostre comunità l’Eucaristia sia un rito tra tanti, un’abitudine quotidiana da fare e alla quale non si presta più la massima attenzione che esige? In un giorno vi sono 24 ore, in una settimana vi sono 168 ore: un tempo enorme che non è nostro, ma è regalato dalla misericordia di Dio. Su 168 ore che Dio regala e che noi possiamo usare come vogliamo, quante gliene restituiamo? In questa logica dobbiamo comprendere il rimprovero di Gesù agli apostoli nell’orto degli ulivi: «Non avete saputo vegliare un’ora con me» (Mt 26,40). La proporzione settimanale è 168 ore per noi e, di norma, meno di un’ora per il Signore del tempo e dell’eternità. Quale senso e posto l’Eucaristia occupa nella nostra vita? Che qualità di tempo noi le dedichiamo? L’Eucaristia è il metro della maturità di una persona credente e il livello d’intimità di una comunità. A volte sarebbe preferibile stare senza Eucaristia, piuttosto che «dire Messa» come fosse un piccolo diversivo per occupare un po’ del nostro tempo.
Ognuno di noi
- Sente e vive se stesso come pane d’orzo, pane povero che si spezza, segno visibile della chiesa intera, immersa nel cuore del mondo che è strangolato dalla fame dei suoi figli più deboli;
- riceve e accoglie il pane, ne conserva con cura gli avanzi nel cuore come promessa del mondo futuro;
- viene dalla sua casa all’altare dell’Eucaristia, incarnando l’esodo di liberazione, simbolo dell’andare dall’Egitto alla Terra Promessa della fedeltà e dell’amore totale e indiviso a Lui che ci ama per primo;
- va dall’altare dell’Eucaristia all’Eucaristia della vita, perché il tempo e lo spazio che viviamo diventino «luoghi» privilegiati di comunione e di condivisione, sapendo che ogni Eucaristia potrebbe essere l’ultima.
- sta davanti all’altare come se stesse sulla montagna del Sinai e sulla montagna con Gesù e gli apostoli, da cui riceve non più le tavole di pietra, ma la Persona di Gesù nella garanzia del Suo Spirito che si concretizzerà nelle scelte di vita;
- vive l’Eucaristia come Pasqua perenne, principio e fondamento di comunione e di servizio;
- porta nel cuore la povertà e la fame del mondo… i poveri con cui Gesù si identifica (Mt 25, 31-40);
- si carica delle ceste avanzate, distribuendole all’umanità affamata con i sacrifici che la vita comporta, vivendolo con amore totale nel Cuore di Dio, là dove, nella solitudine che è la compagnia di Dio, può incontrare i fratelli e le sorelle che chiedono il pane della mensa e il Pane della vita;
- si mette a servizio del Signore, ponendo il proprio pane e il proprio pesciolino a servizio della Provvidenza e della Missione, vivendo la preghiera come appuntamento in Dio con tutta l’umanità assetata di redenzione;
- gestisce il suo tempo come pane e pesci da moltiplicare per crescere in sapienza e conoscenza del Signore che chiama al suo banchetto per chi ha fame e sete di giustizia e di vita;
- si fa pane spezzato con Cristo, consumandosi d’amore totale fino all’ultima briciola per essere solo respiro pasquale e segno vivente di armonia sponsale.
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