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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 18ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Es 16,2-4.12-15; Sal 78/77,1-2.34-35.36-37. 38; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35

 

La liturgia ricorre a Gv 6, il capitolo dedicato per intero al «discorso sul pane», come risposta di Gesù al disorientamento e alla dispersione del popolo d’Israele: «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (Mc 6,34). In questo modo, l’evangelista fa riprendere a Gesù la predicazione profetica come giudizio sull’autorità d’Israele che per i suoi interessi abbandona il popolo al suo destino. Gesù, al contrario, è il «pastore bello» che non esita a lasciare le novantanove pecorelle al chiuso, al sicuro dell’ovile e ad andare alla ricerca di una sola pecora perduta (Lc 15,1-4).

La 1a lettura riporta un momento della traversata nel deserto degli Ebrei verso la terra promessa. Il racconto è tardivo, del dopo esilio (sec. V/IV a.C.) e quindi è una riflessione omiletica (midràsh) che riflette sulla storia passata, ampliando dati e significati i quali ormai hanno perso ogni contatto con la narrazione storica. Il brano di oggi quindi non deve essere preso come «storico», ma come teologico.

La «manna» è forma italianizzata dell’ebraico «Man-uh?» di cui non conosciamo il significato vero, ma solo l’etimologia popolare: «Che cosa è?». La manna è la resina di un arbusto del deserto che si forma per essudazione. Forse in un giorno particolare se ne formò così tanta in modo inaspettato che fece gridare anche qui «al miracolo!». La tradizione orale parlava di un prodigio capitato una sola volta, che col passare del tempo si trasformò in uno «schema» narrativo e celebrativo con la manna diventata «cibo quotidiano» permanente. Per i credenti, Dio agisce nella Storia attraverso la coscienza degli uomini e la loro responsabilità, aiutando con il suo Spirito a capire il nesso tra le «cause seconde»: per gli Ebrei del deserto fu la trasudazione inaspettata e abbondante di un arbusto, mentre per l’uomo contemporaneo è la solidarietà concreta dimostrata, per es., nella lotta efficace alla fame e alla sete nel mondo. Nessun miracolo è in grado di convertire perché per capire i miracoli è necessaria la luce della fede. Gli atei oggi hanno una funzione semplificatrice dell’immagine che di Dio hanno i credenti, obbligandoli ad interrogarsi sulla loro fede come scelta di vita e di impegno nel mondo.

La 2a lettura è tratta dall’ultima parte della lettera agli Efesini, quella «dell’esortazione=parenetica» (Ef 4-6). Quasi sempre le lettere del NT si chiudono con inviti esortativi adatti a dare fiducia, coraggio, sostegno o a mettere in guardia da eventuali pericoli, come qui, dove l’autore invita i suoi uditori a considerare il passaggio avvenuto dal paganesimo alla fede (Ef 4,17-19) per accettare la verità di Cristo (Ef 4,20-21) con l’invito morale finale a rivestire l’uomo nuovo (Ef 4,22-23).

Il vangelo riprende la seconda tappa del lungo discorso del pane di Gv 6. Qui non ci troviamo di fronte a un discorso «storico» fatto da Gesù, ma a una riflessione teologica sviluppata dalla comunità giovannea, ormai in avanzato stato di organizzazione e di sviluppo. Gesù ha fatto la moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-15), riscuotendo un immediato successo da parte della folla (Gv 6,22-25). Il brano di oggi mette le distanze tra il pensiero della folla che si accontenta di quello che vede, il pane materiale, il meraviglioso e l’atteggiamento di Gesù che invece si situa a un livello interiore più profondo. Attraverso questo fatto l’evangelista vuole svelare la personalità di Gesù (Gv 6,26-27). Il vero «fatto storico» che conta è seguire Gesù e la sua proposta di salvezza (Gv 6,28-29). La folla che vede resta delusa. La delusione diventa opposizione e l’opposizione rifiuto anche dell’evidenza: la folla valuta come «banale» la moltiplicazione dei pani, che pure ha mangiato e in abbondanza, e la mette a confronto con la manna dei loro padri considerandola, questa sì, un vero miracolo (Gv 6,30-31). Gesù è servito, ma non si scompone: egli ribatte di essere lui «il pane di vita» (Gv 6,32-35). Le folle osannanti sono pericolose perché come innalzano, così crocifiggono (Mc 15,12-15). Gesù non va mai dietro alle folle, ma si difende spesso da esse fuggendo (Gv 6,15), perché la folla è massa non popolo, per cui non ha anima, ma solo emotività superficiale che cambia secondo l’umore del momento o in misura di chi grida più forte. Dicendo di essere il «pane disceso dal cielo», Gesù invita ciascuno di noi ad entrare nella logica di Dio che chiede di comunicare con noi: in fondo mangiare insieme è il segno dell’intimità di vita. L’Eucaristia è questo traguardo, ma anche punto di partenza: qui non c’è il miracolo banale o sontuoso perché siamo di fronte alla Parola che viene affidata alla verità dell’ascolto di chi la vuole ricevere e ad un pane talmente povero che deve spezzarsi per farsi nutrimento di molti fino a scomparire.

L’evangelista Giovanni racconta la moltiplicazione del pane come una riedizione del miracolo della manna nel deserto, facendo di questa una prefigurazione e un anticipo di quella. Il nuovo spiega l’antico e lo attualizza nel nostro contesto. La folla vuole a tutti i costi piegare Gesù alla sua superficialità e folclore, Gesù invece la obbliga a prendere posizione tra il loro passato di «paesani», che credono di sapere tutto di lui, e il futuro che Gesù annuncia col nome di Regno. Non si torna mai indietro perché tornare al passato non è mai una risposta alle novità del presente. La vita avanza e l’acqua scorre verso il mare, non scorre al contrario in salita. Entriamo nel futuro di Dio che è la vita trinitaria, dove siamo rimodellati per una vita di relazione nuova che si apre a nuove prospettive.

Esame di coscienza

Invochiamo il perdono di Dio, fondamento della nostra libertà con le parole della Chiesa Ortodossa nella Liturgia di San Giovanni Crisostomo:

Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Amen. Ora e sempre, nei secoli dei secoli. Kyrie, elèison!

Preghiamo in pace il Signore, Dio della Pace.

Chiami l’umanità a formare un solo popolo. Christe, elèison!  

Soccorrici, salvaci, abbi pietà di noi.

Custodiscici, o Dio, con la tua grazia. Kyrie, elèison!

Poiché tu sei Dio buono e amico degli uomini, noi rendiamo gloria a Te, Padre, Figlio e Spirito Santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.

Il Signore Dio apparso a noi nella debolezza della fragilità umana, che da Creatore si fece servo scegliendo di accogliere e servire piuttosto che essere servito, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e per i meriti dei Padri e delle Madri che ci hanno preceduti nel cammino della fede in vista della redenzione di Gesù morto e risorto per noi, ci conduca alla vita eterna. Amen!

Spunti di riflessione e preghiera

La liturgia ci obbliga alla contemplazione del «Pane (disceso) dal cielo, quello vero» (Gv 6,32-33). Oggi, la liturgia impone ai suoi ascoltatori il passaggio dall’esteriorità del fatto all’interiorità del senso. Questo passaggio è rifiutato dalla folla che cambia atteggiamento e diventa ostile: l’entusiasmo per il successo di Gesù, operatore di miracoli, raggiunge il vertice del parossismo, quando lo si vuole fare Re (Gv 6,22-25), ma di fronte alla necessità di dover scegliere e coinvolgersi sul piano di fede (Gv 6,30-31), la folla denigra lo stesso miracolo e lo contrappone a quello della «manna»: il passato è superiore al presente. Rifugiarsi nel passato è molto più comodo e facile che non affrontare l’incertezza del futuro che esige un atteggiamento interiore di ricerca, confronto, decisioni per scegliere, capacità di discernimento. Il passato invece è ripiegarsi su se stessi, è chiusura all’azione dello Spirito che anima la Storia di ogni tempo.

In Gv 6,15 Gesù era rimasto «sul monte, lui da solo»; mentre i suoi discepoli erano partiti: Gesù «non era salito con i suoi discepoli sulla barca» (Gv 6,22). Non sappiamo in che modo Gesù si trovi «al di là del mare», a Cafarnao (Gv 24-25)39. Questo via vai sul mare, oltre al richiamo del passaggio del Mar Rosso, mette in evidenza una scena movimentata: gente che si muove, corre, si sposta da una riva all’altra; chi parte e chi resta… il lettore è coinvolto, quasi invitato a prendere parte a questo dinamismo che si mette in moto attorno alla persona di Gesù. Ogni volta che c’è Gesù, tutto si mette in movimento: la natura, le barche, i discepoli, la gente, gli egoismi, gli interessi, la diffidenza, la fede, l’incredulità, il desiderio di cercare, di trovare e d’incontrare o fallire l’incontro. Egli è veramente la «pietra scartata dai costruttori, divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118/117, 22; Ma 12,10; Mt 21,42; Lc 20,17; At 4,11; Ef 2,20; 1Pt 2,6-7). Anche quando Gesù non c’è fisicamente, la sua presenza è attesa e guida dall’una all’altra riva. È un modo plastico per dire che Gesù è il Signore della Storia.

La folla lo ricerca per usufruire ancora dei miracoli che danno pane, ma ben presto, messa di fronte alla scelta, rivela che cercava Gesù non per trovarlo, ma per sfruttarlo in termini di interessi immediati e di spettacolarizzazione: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? (= facci vedere come sei bravo, se vuoi che possiamo crederti). I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto» (Gv 6,30-31), eppure è la stessa gente che domenica scorsa, «visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!”» (Gv 6,14). Possiamo anche «cercare» Gesù, possiamo anche «trovarlo» materialmente, possiamo anche attraversare il mare per andare «dove lui si trova», ma non è scontato che lo incontriamo ed entriamo in intimità con la sua «vera identità»: spesso incontriamo l’immagine che noi ci siamo fatti di lui. Vediamo la sua caricatura e ci illudiamo di conoscerne il volto, senza preoccuparci che così testimoniamo non il volto di Dio, ma una sua deformazione. Gv usa un vocabolario specifico per indirizzarci sulle tracce del «mistero» della personalità di Gesù. La domanda è secca e non permette di scantonare: Chi è Gesù per me?

Nota esegetica

Gesù stesso rivela la sua «personalità autentica» con un’espressione particolare. È la formula di auto-presentazione usata da Yahwèh per rivelarsi a Mosè sul Monte Sinai: «Io-Sono» che in ebraico suona «’eheyeh» e che la Bibbia greca traduce con «egō eimì» (Es 3,14), versione da cui dipende anche Giovanni come tutto il NT. Questa espressione traduce il Nome proprio di Dio che non si pronuncia mai, perché indicibile da labbra umane, il sacro Tetragramma: «YHWH». È uno dei vertici di tutta la Bibbia: Gv, infatti, identifica Gesù, l’uomo di Nazareth, con YHWH, il Dio dei padri, «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,15), il Dio che irrompe nella storia in difesa dei poveri e degli oppressi (Es 3,7-8). Dietro il volto umano dell’uomo si cela il Dio dell’esodo e dell’alleanza, il Dio di Abramo e di Adamo, il Dio dell’alleanza e della creazione, il Dio della promessa e della realizzazione. Per questo Gesù può dire: «Io-Sono il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41; Gv 6,58).

Nota esegetica giudaica.

La qualifica di pane dal cielo dato dal Padre è la verità del pane: «quello vero», e trovandoci all’interno di un confronto tra «manna – pane» ci fa supporre che la manna di Mosè non fosse il cibo «vero», ma quello provvisorio, dato nell’attesa che giungesse il pane vero perché offre la vita per il mondo intero e per questo discende apposta dal cielo. La manna di Mosè nutriva per il tempo della carestia del pane, mentre il pane «quello vero» ha un’identità precisa: «Io-Sono il Pane» che ci svela una delle profondità di Dio, ovvero il Pane è la Persona del Figlio che vive la missione di inviato. Non mangiamo il pane per nutrirci e toglierci la fame, ma per conoscere Dio e conoscere noi perché il Pane dato svela «la verità» di Dio e la verità di chi lo riceve perché genera «il segno» per eccellenza: credere in lui. Dopo il «segno» della moltiplicazione dei pani e dei pesci, la folla reagisce riconoscendo in Gesù «il profeta, colui che viene nel mondo» (Gv 6,14), ma Gesù vuole portare i suoi ascoltatori su un altro piano: la rivelazione della sua vera identità. Bisogna instaurare con lui una relazione intima che raggiunga la profondità della comunicazione che porta alla comunione di vita. È questo il senso pregnante della formula di auto-rivelazione «Io-Sono» (Gv 6,35). Davanti agli uditori non c’è più solo il profeta Mosè come nel deserto, ora c’è il Dio di Mosè, Yahwèh, lo stesso che nutrì con la manna ed è presente e operante nella persona di Gesù di Nazareth.

L’unica opera richiesta dall’Inviato del Padre, che diventa il compendio di tutta la Legge e i Profeti, è un solo comandamento: l’amore di Dio e del prossimo (Mt 22,40. Al tempo di Gesù, tutte le scuole di pensiero discutevano quali fossero le «opere» necessarie per osservare la Toràh e ottenere la salvezza (Mc 10,17-22) e questa discussione arrivava anche a escludere il popolo dalla salvezza, perché ritenuto dai farisei incapace di osservare tutte le prescrizioni della Toràh. Gesù si rifiuta di entrare in questo dedalo senza uscite e invita a rinunciare alle inutili discussioni per assestarsi solo sull’unica opera necessaria: riconoscere che «su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (Gv 6,27).

Il Figlio è il sigillo della salvezza, la via del regno, la vita del Padre data come «pane disceso dal cielo»; tutto questo è la Persona di Gesù. Se lo comprendiamo, allora la mancanza di cibo che c’è nel mondo non è più un problema: compiremo noi «l’opera» per eccellenza e, credendo nel pane della vita, andremo a servire condividendo sia il pane, sia la vita stessa. La fame del mondo è il segno dei tempi, e ci indica che non crediamo in Dio, ma solo nel nostro egoismo.

In questa dimensione, Gesù si pone in linea con tutto l’AT, che vedeva nella manna il segno della Parola di Dio (Dt 8,2-3) o della Sapienza (Sap 16,26), perché la manna fu la provvidenza di Dio che si prese cura del suo popolo in cammino, formato e educato da Dio stesso. Il pane che offre Gesù è il segno di un alimento nuovo che lo stesso Dio e Padre offre attraverso il Figlio al popolo che vaga in cerca di Dio. Il messaggio è chiaro: bisogna entrare nell’intimo del «segno» che mostra e svela il mistero della persona stessa di Dio che solo il Figlio può rivelare. I suoi uditori, però, rimettono in discussione tutto ciò che avevano detto prima; non hanno paura di contraddirsi: colui che prima era il profeta, colui che viene nel mondo, è accusato di fare «miracoli» di seconda categoria a confronto con «i nostri padri che hanno mangiato la manna nel deserto» (Gv 6,31), per cui esigono altre prove più eclatanti.

Il popolo dimostra che non c’è più sordo di chi non vuol sentire. Quando noi ci facciamo un’idea di Dio, spesso è con questa che c’incontriamo, non con il volto nascosto e velato del Dio che parla il linguaggio povero e vero dell’umanità e del segno del Pane che si spezza per raggiungere tutti. È più facile incontrare un’immagine «strepitosa», sebbene finta, di Dio, che starsene muti e attoniti di fronte ad un Pane che non parla e non svela alcun «miracolo» che non sia la fragilità del suo stesso spezzarsi per chi ha fame e sete di Dio e dei fratelli e sorelle. La formula «pane di vita» (Gv 6,35) è nuova e non era conosciuta nell’AT. Essa è propria di Gv che l’ha creata come ha creato le altre formule simili: luce del mondo (Gv 8,12), parola della vita (1Gv 1,1), corona della vita (Ap 2,10); libro della vita (Ap 3,5; 20,12; 21,27); acqua della vita (Ap 21,6; 22,1), insieme alle altre formule di auto-rivelazione, «Io-Sono». Qui però abbiamo qualcosa in più, perché l’espressione «pane della vita» istintivamente ci rimandaall’«albero della vita» che era nel mezzo al giardino di Èden (Gn 2,9), simbolo dell’immortalità infranta dalla ribellione di Adamo. La manna, pur venendo dal cielo, non fu in grado di garantire l’immortalità perduta perché la Toràh che nutriva Israele era scritta su tavole di pietra. La durezza della pratica delle «prescrizioni/opere della Legge» (Rm 2,26; 3,20.28; Gal 2,16; 3,2.10) aveva indurito anche i cuori a tal punto che Dio stesso è venuto tra noi per fare ai figli di Israele un’operazione cardiaca e togliere il cuore di pietra per sostituirlo con uno di carne (Ez 11,19; 36,26).

Gesù riporta a quella immortalità quanti lo accolgono nella faticosa opera della fede (Gv 6,50.54), nutrendo con un pane che dura per la vita eterna, perché ha in se stesso l’immortalità di Dio, essendo Dio stesso in Gesù di Nazareth, il Cristo Messia. In questo modo Gv ci obbliga a vedere nell’Eucaristia la dimensione paradisiaca e anche escatologica, dal «principio» della creazione al «compimento» della pienezza del regno per una comunione totale, senza fine: un Pane per l’eternità.

La caratteristica fondamentale del brano odierno è lo stretto nesso che Gv pone tra Eucaristia/incarnazione e morte/risurrezione, espressamente enunciato: «il pane di Dio è colui che discende dal cielo, il quale dà la vita al mondo» (Gv 6,33): pane… discende… dà la vita: il sacramento, la missione, il dono. Il «pane della vita» non può essere mangiato solo con la fede, misticamente, è un pane vero che nutre la vita intera perché impastato con il sangue della morte in croce.

La mancanza di pane e di acqua per quasi due terzi dell’umanità è la nostra condanna e la prova che ancora nulla abbiamo compreso del pane di Dio e forse anche della manna di Mosè. È la sfida a cui il «pane disceso dal cielo» ci manda e ci impegna, pena la nostra esclusione dal banchetto finale. Coloro che si fanno mettere in gioco dalla sconvolgente realtà del Signore, possono, nello Spirito e nella Chiesa, invocare: «Signore, dacci sempre questo pane» (Gv 6,34), per avere immediata la risposta d’identità: «Che cosa cercate? Io-Sono il pane della vita» (Gv 1,38; 6 35).

Applicazione alla vita personale

Gesù si auto-presenta con una formula d’identità inequivocabile: «Io-Sono». Pietro perde la sua identità e la sua consistenza di vita, quando tenta di staccarsi da Gesù per non coinvolgersi nella sua sorte di morte: lo rinnega affermando: «Io-non-sono» (Gv 18,17.25) e la 3a volta giura e impreca di «non conoscere quell’uomo lì» (Mc 14,71). Per Pietro Gesù non è più il Maestro e nemmeno un conoscente o un amico: è solo «un tale» con cui non ha nulla da spartire: «quello lì». Dalla rivelazione di Gesù anche noi siamo messi di fronte a noi stessi con la domanda: Chi sono-io? Qual è il «segno» per cui chi m’incontra può «credere» che «io-sono» chi dico di essere? Qual è la riva attuale in cui è «adagiata» la mia vita? Forse bisogna che mi fermi un poco per vedere cosa devo lasciare, da cosa devo staccarmi, quali ormeggi devo tagliare per permettere alla barca di andare verso l’altra riva. Quali sono i legami che mi bloccano? Ho forse paura di avventurarmi in mare aperto? Per «cercare-trovare», bisogna mettersi in movimento e uscire all’inseguimento di indizi e «segni» che conducano alla «scoperta» di lui. Dio non parla mai la stessa parola perché il Signore è il Dio del cuore nuovo e dello spirito nuovo (Ez 18,31; 36,26).

Paolo ci invita a guardare «il vecchio» che è in noi per vestire «il nuovo» di Cristo. L’immagine del vestito è una metafora della nostra personalità umana e religiosa: il vestito può essere solo copertura «come capita», oppure il «segno» della nostra ascesi e della nostra identità. Spesso siamo consumati dalle «opere» da compiere fino al punto da dimenticare l’«opera» più importante: Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato (Gv 6,29). Mandato: per chi? Inviato: a chi? Penso spesso che il Signore possa essere mandato/inviato «a me/per me»? Cosa comporta questa consapevolezza? Con quali conseguenze?

Gv ci presenta la «fede» come «lavoro/impegno/fatica». Spesso aggiriamo l’ostacolo dicendo: il lavoro è preghiera, ma è anche vero il contrario che la preghiera è lavoro, o meglio, i due aspetti non possono essere separati senza distruggere e il lavoro e la preghiera. Senza lavoro, la preghiera rischia l’illusione, senza preghiera, il lavoro rischia l’attivismo fine a se stesso. Pregare, ancora una volta, può essere solo stancarsi a perdere tempo per la persona amata. La sorgente della preghiera, della ricerca e del ritrovare il Verbo, il Pane della vita, è l’Eucaristia.

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