Mensa della Parola: Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 80/79,2ac-3b; 15-16; 18-19; 1Cor 1,3-9; Mc 13,33-37 Oggi inizia il nuovo anno-B con il «tempo forte» dell’Avvento che ci invita a riflettere sulla venuta di Gesù Cristo. Propriamente l’Avvento non è una preparazione al Natale, come è diventato nell’uso pratico, ma una contemplazione della 2a venuta di Gesù alla fine del mondo come compimento della 1a avvenuta con l’incarnazione. Vivere l’Avvento, dunque, è stare radicati nella storia compresa tra le due «venute di Cristo»: la sua nascita storica e geografica, che lo circoscrive nel tempo e nello spazio, e la fine del mondo vista come inizio/nascita della vita «oltre la storia» e quindi che libera Gesù dai limiti geografici tempo-spaziali per proporlo come modello universale e cosmico, sul versante di Dio. Per la fede cristiana, la storia non giunge alla fine, ma raggiunge il suo fine. L’Avvento fluttua tra questi due appuntamenti con il Cristo: uno già sperimentato (la nascita), l’altro atteso alla fine della storia. Nella 1a venuta il Dabàr/Lògos/Verbum/Parola si è fatto fragilità assumendo la pienezza dell’umanità nel grembo di Maria. Nella 2a venuta, alla fine del mondo, Cristo ritornerà visibilmente sulla terra, non più per incarnarsi, ma per liberare l’umanità intera da ogni condizionamento e raccogliere l’eredità della sua 1a venuta, ricapitolando in sé tutto il creato, terrestre e celeste (Ef 1,10). L’Avvento si estende per quattro settimane in cui prevale il colore liturgico viola, riservato ai tempi di attesa (Avvento e Quaresima) e di dolore (morte). Durante il periodo di Avvento non si canta né si recita il Gloria a Dio nell’alto dei cieli, che ha una struttura innica e gaudiosa, mentre si mantiene il canto dell’Alleluia, come speranza aperta al futuro. Nota storica Nel 490 il vescovo Perpètuus di Tours stabilì che il periodo pre-Natale fosse un tempo penitenziale nella Chiesa di Galllia in Europa occidentale. A tale scopo egli stabilì un digiuno di tre giorni ogni settimana a partire dall’11 novembre, festa di S. Martino di Tours protettore della sua città. Tra la festa di San Martino e il Natale intercorrono esattamente 40 giorni. Questo periodo richiamò immediatamente il corrispondente tempo dei 40 giorni della Quaresima, che, a loro volta, richiamavano i 40 giorni e le 40 notti di Mosè sul monte Sìnai (Es 24,18; 34,28), i 40 anni del popolo d’Israele nel deserto (Nm 14,33-24), i 40 giorni che impiegarono gli esploratori della terra di Cànaan, mandati da Mosè prima di entravi e prenderne possesso (Nm 13,25) e i 40 giorni e le 40 notti di Gesù nel deserto (Mt 4,2). Nel secolo dopo VI anche a Roma venne introdotto il Tempo di Avvento, ma qui assunse carattere gioioso e non penitenziale perché sviluppava di più l’aspetto di preparazione al Natale. Si ebbe nella Chiesa una strana situazione: in Gallia prima di Natale vi era un tempo penitenziale più lungo perché composto di 40 giorni per assimilarlo alla Quaresima, mentre a Roma si celebrava un Avvento più festoso, ma anche più corto, perché composto di appena 30 giorni. Ciò ci induce a pensare che nella Chiesa non è mai esistita un’uniformità di pensiero e di liturgia, ma un sano pluralismo basato sull’autonomia delle singole Chiese locali. Nel sec. XIII, in pieno Medio Evo, si raggiunse un compromesso che combinò i due aspetti: dalla liturgia gallicana si presero in prestito il carattere penitenziale e i testi della Messa, mentre dalla tradizione romana si assunsero il ciclo più breve (quattro settimane) e il suo andamento festoso. Invochiamo il maestro delle nostre anime, lo Spirito Santo, che veglia sull’Avvento di Cristo perché dia la sapienza dell’ascolto e il ministero della veglia per entrare nel sacramento dell’Eucaristia, il monte della rivelazione del volto di Dio nel volto dei fratelli e delle sorelle. Apriamo l’anno-B con l’invito alla vigilanza perché l’Eucaristia è il sacramento dell’attesa che nutre l’Avventoprima del Natale e ci apre all’incontro con il Cristo giudice nell’Avvento finale della fine dei tempi per prendere possesso del regno preparato fin dalla fondazione del mondo (Mt 25,34). Poniamo un segno visibile che ci ricordi questo percorso: accendiamo una lucerna ogni domenica fino alla quarta. Vedendo ogni domenica la fiammella di una lampada che arde e aumenta, ci ricorderemo che siamo in cammino e che durante la settimana vogliamo ardere della luce della speranza e del fuoco dell’amore. Preghiamo insieme.
1. Signore, è il primo cero, principio dell’Avvento. Sia luce nella vita, sia fuoco nelle scelte, fiamma che avvolge il cuore, nell’olio dell’attesa. 2. La fiamma il cero arde e mai lo consuma, si abbèvera al tuo pozzo, col secchio di preghiera. 3. Lo Spirito infuocato tu versi nel roveto del cero che si scioglie danzando a piena gioia il dono della vita. 4. Contempli il volto orante, o Santo d’Israele, che resta qui ardente, a farti compagnia, nel simbolo del cero. 5. Di ardere e bruciare ci chiedi ovunque siamo, perché con ambo le tendenze, del cuore il bene e il male, amarti noi possiamo. 6. Si scioglie l’Assemblea, nel mondo noi si torna, restando qui oranti, col cuore modellato in ogni incontro generante e in cera trasformato. 7. È Avvento, Signore! Il tempo dell’attesa, l’eternità del tempo, che segna la tua Chiesa che scava il nostro cuore, donato e ritrovato. Amen. Oppure: Inno a Cristo «Luce del mondo, la stella del mattino che mai tramonta» 1. L’aurora inonda il cielo di una festa di luce, e riveste la terra di meraviglia nuova. 2. Fugge l’ansia dai cuori, s’accende la speranza: emerge sopra il caos un’iride di pace. 3. Così nel giorno ultimo l’umanità in attesa alzi il capo e contempli l’avvento del Signore. 4. Sia gloria al Padre altissimo e a Cristo l’unigenito, sia lode al Santo Spirito nei secoli dei secoli. Amen.
Preghiamo
Signore, accendiamo la 1a candela, simbolo della Parola che illumina il nostro cammino.
Arde e si consuma lentamente, in silenzio, fino a scomparire.
Nella nostra giornata possiamo anche noi ardere e consumarci d’amore.
Il tuo Spirito alimenti la nostra fiammella perché possiamo essere sorgente di calore e di luce per quanti incontriamo sul nostro cammino.
Giungeremo alla santa Eucaristia, anticipo del regno, non da soli, ma con una moltitudine di fiammelle che nessuno potrà contare, di ogni lingua, popolo e nazione perché il mondo intero sarà un solo fuoco d’amore.
Venga lo Spirito, luce beatissima del tuo amore, nei nostri cuori. Amen.
Tutto, anche le piccole azioni quotidiane, è sempre sotto il segno della Trinità nella quale siamo immersi, anche se non sempre ne abbiamo coscienza. Iniziare un nuovo anno liturgico significa domandarsi anche quante volte nella nostra vita abbiamo cominciato lo stesso anno. A che punto siamo della storia della nostra salvezza personale? Dove ci troviamo all’inizio del nuovo anno? Nel NT oppure siamo ancora nell’AT? Siamo con Àdam o con i profeti? Siamo in esilio o tra i reduci che rientrano da Babilonia? Che cosa vuol dire «vigilanza» per ciascuno di noi? Sappiamo cogliere i comandamenti di Dio negli avvenimenti che viviamo oppure navighiamo in superficie nella banalità dell’ovvio?
Esame di coscienza
Esaminiamo la nostra coscienza e lasciamoci modellare dallo Spirito Santo come la creta nelle mani del vasaio (Ger 18,6; Sir 33,13): egli sa prepararci all’incontro con il Signore che viene, per noi, per me. Quando comincia un nuovo anno si accetta l’avventura non di un nuovo inizio, ma di un «principio nuovo», cioè di un fondamento che si regge sulla novità di Dio che torna ancora una volta a prendersi cura di noi, dandoci un anno supplementare, «l’anno di grazia» (Lc 4,19), perché possiamo deciderci ad incontrarlo nella fede degli apostoli per essere anche noi testimoni nella vita.
Signore, noi attendiamo il tuo Avvento: insegnaci ad aspettarti e ad accoglierti. Kyrie, elèison!
Cristo, sei il Lògos che convoca i popoli, perdona le nostre disunioni. Christe elèison!
Signore, Luce della coscienza, perdonaci se oscuriamo la tua immagine in noi. Kyrie, elèison!
Cristo, nostro fratello e Maestro, mostraci il volto del Padre di misericordia. Christe elèison!
Dio, Padre e Madre, che chiama i popoli al raduno della Pace nella santa città di Gerusalemme perché depongano le armi e prendano gli aratri per costruire una civiltà universale di fraternità e di giustizia; che ci convoca per celebrare l’Avvento del Signore che viene; per i meriti di tutti coloro che costruiscono la pace, che lottano contro la fame e la povertà nel mondo; per i meriti dei Patriarchi e delle Matriarche d’Israele, degli Apostoli e dei Martiri, per i meriti di tutti coloro che attendono la redenzione, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
Vigilare vuol dire cogliere il senso profondo di ciò che accade e discernere significa valutare con sapienza il valore di questo senso per indirizzarlo al suo compimento in sintonia con la volontà di Dio che si manifesta con l’avvento del Signore. Il nuovo anno liturgico si apre con lo stesso tema e sempre con forme verbali: state attenti, vegliate (Mc 13,33), vigilare (Mc 13,34), vigilate (Mc 13,35), vegliate (Mc 13,37); una volta con senso negativo: trovandovi addormentati (Mc 13,36) che è l’opposto del vegliare. Questa insistenza è significativa tanto che ogni evangelista vi apporta sfumature proprie. Marco pone la vigilanza come una caratteristica quasi esclusiva del portiere/custode. In Mc 13,34 vi sono tre termini «casa … potere … portiere» che è una terminologia tecnica per parlare della Chiesa. I servi sono dediti al loro lavoro nella casa/chiesa senza ansia e preoccupazione, ma protesi verso il «momento preciso» di Mc 13,33. In Mc tutti i servi della casa ricevono il «potere» in assenza del padrone, per cui tutti sono responsabili dell’andamento della casa/chiesa: ciascuno, infatti, ha ricevuto un compito personale (Mc 13,34). Nella chiesa nessuno è anonimo, ma ognuno è responsabile di tutto perché la Chiesa è Chiesa solo se tutti i suoi figli sono vitali e presenti.
La vigilanza è compito specifico del portiere/custode. Pietro deve vegliare nella notte sui servi, custodendo il loro lavoro e la loro tranquilla dedizione all’impegno personale, nel rispetto del potere/servizio che ciascuno ha ricevuto. È il compito di chiunque esercita l’autorità: padre/madre; maestro/maestra; educatore/educatrice. Pietro non ha ricevuto il mandato di spadroneggiare sulla chiesa, ma di essere servo di essa: non sono i figli che devono vegliare la notte, ma il padre vigile deve custodire il loro sonno. Mc di fatto gerarchizza la vigilanza, descrivendo la funzione della gerarchia nel discernimento dei segni della venuta del Signore: l’autorità è servizio di vigilanza, perché il regno di Dio giunge all’improvviso e occorre essere pronti ad accoglierlo, in qualsiasi momento. Pietro è il vigilante notturno. Se è vero che la Chiesa non ha una struttura democratica sull’esempio degli Stati moderni, è vero anche che la Chiesa non è monarchica e i pastori, siano papi o vescovi, sono «dentro» la Chiesa, non «fuori» o «sopra» di essa, con l’obbligo di ascoltare tutte le espressioni ecclesiali, favorendone l’unità.
La vigilanza è un’innovazione specificamente ebraico-cristiana perché non appartiene al bagaglio culturale e religioso dell’uomo precedente. L’uomo antico non aveva bisogno di vigilare perché era «vittima» degli eventi decisi dagli dèi: schiavo del fato. L’immutabilità del destino rendeva inutile e superflua ogni vigilanza. Soggetto all’eterno ritorno delle cose, poteva soltanto sforzarsi di corrispondere alle decisioni originarie, attraverso la purificazione rituale e la sacralità di spazi (luoghi di preghiera) e tempi (riti) consacrati alle divinità protettrici. Se il mondo e la materia sono «il male», la felicità consiste nel fuggire da essi e rifugiarsi in un paradiso abitato dagli dèi dove si accede attraverso il rito liturgico che nella sua sacralità sottrae all’imprevedibilità degli eventi e quindi alla paura.
Anche l’uomo moderno reagisce all’imprevedibilità degli avvenimenti con il tentativo di «possederli» per renderli prevedibili e sottomessi alla propria volontà e bisogno. La Scienza è lo strumento con cui l’uomo cerca di dominare il mondo e con esso ogni evento: il rischio è che la Scienza possa diventare «idolo» e fonte di onnipotenza che travolgerebbe l’uomo e la sua umanità. L’uomo moderno non è antitetico all’uomo antico perché anch’egli non lascia spazio alla vigilanza. Fuggire o dominare l’avvenimento comporta lo stesso esito con nomi diversi: il primo ha paura, il secondo sfida, ma ambedue sostituiscono la vigilanza con la previdenza. L’uomo antico sottomettendosi e l’uomo moderno ribellandosi alla divinità. Con l’avvento della fede nell’esperienza di Israele prima, e di Gesù, figlio d’Israele, poi, ciò che chiamiamo avvenimento/fatto cioè il divenire della storia diventa occasione propizia, così intimo alla fede stessa da fondersi l’uno nell’altra.
Dio non si manifesta più nella ritualità della natura dominata dal fato/destino, ma nell’imprevedibilità stessa della vita dell’uomo: nella sua schiavitù, nel suo desiderio di libertà, nella fame e nello sforzo per sortirne, nella pace e nella fatica di mantenerla che spesso degenera nella guerra, nell’ingiustizia della ricchezza che costringe la moltitudine alla miseria e alla morte, ecc. Nulla è più banale nella vita di ciascuno perché ogni attimo, ogni gesto, ogni atto, ogni alito, ogni pensiero, ogni accadimento sono segnati dalla Presenza/Shekinàh di Dio che parla attraverso il codice della incarnazione. L’uomo biblico scopre una nuova verità: l’avvenimento umano è il luogo privilegiato della manifestazione di Dio, anzi esso è il nuovo comandamento con cui Dio parla all’umanità. Per incontrare Dio non bisogna più scalare il cielo, ora è sufficiente attendere in terra e cogliere negli eventi la Presenza di Dio perché egli si è identificato con l’avvenimento storico: «Il Lògos/Parola – sarx/carne fu fatto» (Gv 1,14).
Tendere alla pienezza per il credente in Gesù, significa scendere nelle profondità di sé, della propria umanità perché è lì l’unico luogo possibile dell’incontro con Dio, di cui è «immagine e somiglianza». Le persone se vogliono trovare la verità di se stesse devono per forza interrogare la materia, la carne, la storia, la vita. La vigilanza diventa così la caratteristica propria di chi crede, perché egli va in missione nel mondo a cercare i segni di questa Presenza amica dell’umanità che spiega il senso del cammino di ogni uomo e donna. La vigilanza porta in sé il tempo dell’attesa, il desiderio della relazione, l’esperienza dell’incontro. L’uomo non ha più bisogno di spazi e recinti sacri perché tutto il mondo è il luogo dove si può incontrare il Dio dell’avvenimento, il Dio dell’incontro e della comunione. Non è chiudendosi in sé che si trova Dio, ma aprendosi al mondo dal punto di vista di Dio.
Il Terzo Isaìa descrive Dio con termini forti che rivelano come nell’AT, Yahwèh non fosse quel Dio distante e terribile che normalmente si descrive, per ignoranza: «Tu, Yahwèh, nostro padre, nostro redentore da sempre è il tuo nome» (Is 63,14) . Padre, in ebr. ‘ab, è il vocabolo comune della vita ordinaria e di relazione affettiva; redentore, in ebr. go’èl, invece, è più complesso e per questo esige una spiegazione.
Nota esegetica
Il go’èl, in origine, era colui che ricomprava/riscattava, attraverso un prezzo equo, la proprietà alienata a terzi (Lv 25,25-26) o anche un membro della propria famiglia divenuto schiavo di un altro (Lv 25,48-49). Si può dire che fosse una funzione all’interno della dinamica del «riscatto» propria del «giubileo». In caso di omicidio, il go’èl diventava letteralmente il «vendicatore del sangue», colui che, attraverso il prezzo del sangue dell’omicida, doveva ristabilire l’equilibrio, uccidendo l’assassino, secondo norme ben classificate (Nm 35,12-29). In questo senso assunse il significato di «redentore o riscattatore» perché riscattava se non la vita, almeno l’onore dell’ucciso. In tutta la letteratura dell’AT, l’unico go’èl di Israele è Dio che lo acquistò dall’Egitto attraverso il prezzo delle piaghe e della morte, o lungo la sua storia, distruggendo i suoi nemici. Poiché solo Dio opera la redenzione del suo popolo o del resto d’Israele (Is 11,10; 52,10; Za 14,9.16), è normale che in tutto l’AT non si parli mai del Messia come «redentore». L’idea di go’èl-redentore, legata alla figura del Messia inizia formarsi nel tempo del Giudaismo, quando si cominciò a intuire che l’indipendenza politica e di Israele e la restaurazione del regno di Davide sarebbero stati problematici, specialmente sotto la dominazione romana (64 a.C. – 135 d.C.). Con la distruzione del tempio (68-70 d.C.) e l’inizio della diaspora non solo fuori di Gerusalemme (70 d.C.), ma anche della Palestina (135 d.C.), la teologia della ricostruzione non poté che legarsi all’attesa del Messia futuro, il cui ritorno trionfale sarebbe coinciso con la ricostruzione del tempio e di Gerusalemme e la restaurazione del regno di Davide.
I rabbini della Mishnàh (sec. II d.C.) e del Talmùd (sec. VI d.C.) cominciarono a considerare il Messia redentore/go’èl proiettato in una dimensione escatologica, fondamento della speranza futura dell’Israele disperso. Dopo venti secoli, ancora oggi, la cena pasquale di tutti gli Ebrei sparsi nel mondo, si conclude con un solo augurio, sempre lo stesso, sempre con lo stesso desiderio: «L’anno prossimo a Gerusalemme». La «redenzione d’Israele» coinciderà non solo con il ritorno del Messia, ma anche con la salvezza dell’umanità.
Nella prassi biblica e poi giudaica la figura del go’èl-vendicatore/redentore fu applicato anche al sistema giudiziario. Quando uno veniva deferito in giudizio davanti agli anziani radunati alla porta della città, se uno dei giudici, stimato e autorevole, si fosse alzato e fosse andato a collocarsi «accanto» all’imputato, senza nemmeno proferire una sola parola, quell’uomo era salvo sulla garanzia di colui che «ri-vendicava» l’innocenza dell’accusato sul suo onore e sulla sua credibilità. Nel NT questa figura è chiamata «consolatore-paràcletos», colui che consola, perché con la sua credibilità acquista l’onore dell’innocenza di un imputato. La figura del «paràclito» è dunque una figura stimata per la sua dirittura e autorevolezza che tutti gli riconoscono perché mette in gioco la propria reputazione, cioè la propria vita. In questo senso il «consolatore/redentore» è chiamato anche «avvocato» perché prende le difese di qualcuno e testimonia in suo favore. La funzione di go’el-paràclito è propria di Gesù Cristo (1Gv 2,1) e dello Spirito suo (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7).
Il profeta prega: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 53,19). Il desiderio di Isaia ora è compiuto e noi lo sperimentiamo ogni volta che facciamo memoria eucaristica perché nella Parola e nei segni del Pane, del vino e dell’acqua, della fraternità/sororitànoi troviamo il nutrimento che ci abilita alla vigilanza durante la veglia nell’attesa del Signore che viene. Sì! «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni” e chi ascolta dica: “Vieni”… Maranà tha/Signore nostro, Gesù, vieni!» (Ap 22,17; 22,20; 1Cor 16,22).
Professione di Fede (rinnovo delle promesse battesimali)
All’inizio dell’avvento, ritorniamo alla sorgente del nostro battesimo e rinnoviamo le promesse della nostra fede perché il nostro cammino verso il Natale e la seconda venuta del Signore alla fine della storia sia segnato dalla fiaccola della fede che illumina i nostri passi e dalla decisione che vogliamo vivere coerenti con ciò che abbiamo ricevuto e che vorremmo tramandare.
Crediamo in Dio, Padre, creatore del cielo e della terra? Crediamo.
Crediamo in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? Crediamo.
Crediamo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? Crediamo.
Questa è la nostra fede.
Questa è la fede nella quale siamo stati battezzati.
Questa è la fede che ci gloriamo di professare.
Tu, o Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci convochi alla Mensa Pasquale della santa Chiesa,
ci custodisci con la sua grazia per la vita eterna. Amen.
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