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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 22ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Dt 4,1-2.6-8; Sal 15/14,2-3a.3cd-4ab.4c-5; Gc 1,17-18.21b.22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

 

Con la domenica 22a del tempo ordinario-B ritorniamo al vangelo di Mc. Abbiamo conosciuto e contemplato che il pane moltiplicato per la folla, come la manna dell’esodo, era il simbolo dell’Eucaristia che è il «modo nuovo» con cui Dio ha deciso di restare in mezzo all’umanità per sempre fino alla fine del mondo. Durante la traversata del deserto, Dio era presente attraverso la tenda del convegno, ovvero la dimora dove erano custoditi i segni della sua Presenza/Shekinàh(le tavole della Toràh, la manna, l’acqua del Mar Rosso e il bastone di Mosè). Nel tempo della nuova alleanza, la Presenza/Shekinàh di Dio non ha più bisogno di segni, perché da quando «il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1,14), Dio stesso ha scelto di restare sempre con noi come «pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6,51). In questo modo possiamo incontrare Dio tutte le volte che vogliamo e possiamo anche entrare in «comunione» di intimità con lui attraverso il banchetto della Parola e del Pane, conservati perché restino a disposizione di chi ha fame. In questa domenica e nelle altre quattro seguenti, la liturgia propone la lettura antologica della lettera di Giàcomo, uno scritto singolare, poco considerato. Lutero la disprezzò tanto da definirla, nella sua introduzione allo scritto, «lettera di paglia», perché parla d’inutilità della fede senza le opere, escludendola dal canone. Dal sec. XX però tutte le Chiese cristiane nate dalla riforma luterana l’hanno rivalutata e ammessa tra i libri della Bibbia. Tra tutte le ipotesi che sono state fatte, la più probabile parla di una didachèparenètica, cioè un insegnamento esortativo sul comportamento cristiano, esposto in forma di sermone/omelia nella linea dei libri sapienziali come Proverbi e Siricide. Il passaggio dal Giudaismo al Cristianesimo non è stato indolore ed è fonte di continue discussioni che l’autore vuole interrompere invitando con vigore i nuovi cristiani ad accogliere la Parola mettendola in pratica (Gc 1,21b-22; Pr 2,1;7,1-3), perché solo nel confronto con la Parola si trova la luce per risolvere i problemi, anche quelli pratici. La Parola di cui parla Giacomo non è la dottrina cristiana, ma la «Presenza» di Dio che è piantata (Gc 1,21) nella vita umana e a cui bisogna fare spazio «etico» perché possa fruttificare: eliminare la collera (Pv 14,17.29; 16,32), essere umili, non essere arroganti ed orgogliosi (Gc 3,13- 14; 4,6; Sir 1,27; 45,4)196. Il continuo riferimento alla concretezza delle opere è un modo evidente per evitare di ridurre la fede a un atteggiamento intellettuale, come era avvenuto a Corinto (1Cor 3,18-24) dove imperava la «gnosi», cioè il gusto della conoscenza fine a se stessa: la discussione per la discussione, mentre Gc ci riporta alla fede come sorgente di vita e alla vita come incarnazione della fede.

La 1a lettura dice lo stesso insegnamento: la Toràh è immutabile non tanto nella sua formulazione, quanto nel suo «senso», perché è il segno della «vicinanza» di colui che i cieli dei cieli non possono contenere (1Re 8,27). Il confronto è con gli altri popoli ai quali attraverso la vita bisogna annunciare la credibilità del Dio d’Israele. Se la vita è «altra» e si allontana dalla Parola, la stessa Presenza di Dio è vanificata. Nel vangelo le nuove esigenze che la formazione voluta da Gesù impone ai discepoli li conduce a interrogarsi sul senso delle tradizioni alle quali spesso ci abbarbichiamo per pigrizia, come se i tempi nuovi non avessero nulla da dire e incarnare. Ogni tradizione è nata in un certo tempo e in un certo luogo e all’inizio è stata una «novità» osteggiata. Spesso, a giustificazione della fissità tradizionale, specialmente dentro la Chiesa, si sente dire che «bisogna avere pazienza perché nelle cose ci vuole gradualità, ci vuole tempo per non scandalizzare chi non è in grado di capire subito…» e altre amenità del genere che sono solo la scusa per restare immobili. È vero che certe maturazioni esigono tempo, a volte molto lungo, ma nell’ambito della storia è necessario, proprio nel rispetto della gradualità, stabilire un punto di partenza e verifiche a breve, a medio e a lungo termine, per verificare se si progredisce, se si resta fermi o, peggio, se si torna indietro. Papa Giovanni XXIII, nel convocare il concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), a chi gli poneva obiezioni di opportunità e di fuga in avanti rispondeva che «la Chiesa non è un museo da conservare, ma un giardino da coltivare», concetto felicemente ripreso nel discorso di apertura dello stesso concilio, «Gaudet Mater Ecclesia» con queste parole: «Noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli». Difendere le tradizioni oltre il necessario significa fare di esse un’ideologia assoluta, un surrogato della stessa Parola di Dio: «6 Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. 7 Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. 8 Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini. 9 E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione» (Mc 7,6-9; Mt 15,3; Is 29,13). Non serve osservare i 613 precetti prescritti dalla Toràh se viene meno l’amore di Dio e dei fratelli, se la Legge cioè, o la religione, non diventano linfa di vita che nutre ogni giorno la nostra esistenza (Mc 12,30-31). La nostra vita si svolge tutta tra passato e futuro: da una parte le tradizioni ci rassicurano nella costante ripetitività degli eventi che sviluppa il ricordo, facendoci sentire parte di una storia più grande, e dall’altra parte c’è il nuovo che spinge suscitando la curiosità della scoperta e il senso dell’avventura per strade inesplorate, ma anche la paura dell’incognito. Vivere il presente è stare in questa tensione: un occhio al passato e uno al futuro. Quale far prevalere? È sapiente colui che sa dosare le due misure e riesce ad amalgamarle in una sintesi di vitache senza perdere di vista il passato da cui proviene compie un passo avanti nella direzione del futuro verso cui deve andare. Quando questa tensione si spezza, c’è l’anarchia degli insipienti che pongono la propria esperienza e le proprie idee come assolute: nascono i fondamentalisti, cultori di certezze, che arrivano anche a parlare in nome di Dio. La vita è movimento, è passione, è ardimento, è gusto di cercare, cercare sempre senza pregiudizi per migliorare la vita e renderla più piena e più degna di essere vissuta. Quando inneggiamo alle tradizioni fine a se stesse, noi uccidiamo la vita e rinneghiamo la fede in Dio. Oggi il vangelo pone la questione se non siamo noi stessi un ostacolo al vangelo di Gesù con la difesa di tradizioni e posizioni che nulla hanno a che vedere con Dio.

Esame di coscienza

Lasciamoci purificare dallo Spirito del Risorto per essere capaci di sapere sempre dove stiamo andando e come stiamo andando. Vogliamo farlo in compagnia di tutti gli uomini e di tutte le donne.

Guardando al nostro trascorso, vogliamo chiedere perdono per tutte le volte che siamo stati consapevoli ostacoli ad orizzonti nuovi, scegliendo la comodità del passato e rifugiandoci in esso per non impegnarci nella fatica del nuovo, nel dolore e nella gioia di scoprire di non essere il centro dell’esistenza. In modo particolare chiediamo perdono per i peccati di omissione, specialmente per tutti i peccati di amore omesso.

Signore, Dio vicino nel comandamento dell’amore, perdona e liberaci da ogni male. Kyrie, elèison. Cristo, Parola seminata nei nostri cuori, perdonaci per non averti accolto docilmente. Christe, elèison.

Signore, per tutte le volte che ci siamo illusi di essere solo ascoltatori della Parola. Pnèuma, elèison. Cristo, per tutte le volte che abbiamo tradito la Parola in nome delle nostre tradizioni. Christe, elèison.

Dio Padre che ha creato il cielo e la terra, che ha dato la Toràh a Mosè perché accompagnasse l’umanità ad accogliere il Messia mandato ad annunciare gli ultimi tempi, abbia misericordia di noi, perdoni la nostra superficialità e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti per la riflessione e la preghiera

Dopo cinque domeniche, riprendiamo la lettura di Mc, che avevamo lasciato nel deserto, con Gesù preoccupato per il popolo d’Israele che errava come un gregge senza pastore (Mc 6,34). Gesù era dedito alla formazione degli apostoli: aveva svelato loro che l’eucaristia non è un sacramento da venerare, ma una missione da compiere (Mc 6,31-44), li ha resi partecipi del suo potere sul male che grava come ipoteca sull’umanità (Mc 6,45-52) e li ha costretti a prendere coscienza che il particolarismo della religiosità giudaica non poteva contenere l’anelito universale del messaggio evangelico (Mc 6,53-56). Gli apostoli entrano in crisi e si rendono conto che devono cambiare i criteri religiosi che finora hanno governato la loro vita: avevano vissuto nella certezza senza dubbi, ora cominciano a entrare nel regime della fede che si nutre del dubbio e diffida delle certezze. In regime di religione, l’uomo tende a «possedere» Dio e a imprigionarlo nelle forme rituali; nella dinamica delle fede, al contrario, l’uomo si apre all’incontro con Dio e si dispone all’avventura e al rischio che comporta qualsiasi incontro autentico tra persone. È un’autentica rivoluzione. Aprirsi alla Parola di Dio significa lasciarsi introdurre in un mondo nuovo, neppure pensabile con gli schemi della tradizione e dell’usuale.

Gesù fa un altro passo avanti nella formazione dei suoi apostoli, facendoli riflettere sulle tradizioni, cioè sui comportamenti reali della vita ordinaria. In termini moderni si può dire che Gesù li forma all’aspetto etico della vita che si nutre di due valori: l’intenzione e il comportamento. Il punto di partenza è una costante nella vita di Gesù: lo scontro con i farisei, cioè con i responsabili religiosi del suo tempo. Non dobbiamo dimenticare che nel suo ministero di rabbìebraico, Gesù è un laico e non appartiene alla casta dei sacerdoti o degli addetti al tempio (dottori e scribi). È importante sottolineare i movimenti: Gesù si trova in Galilea, dove lo raggiungono «i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme» (Mc 7,1). Hanno percorso apposta circa km 140 e cinque giorni di cammino per discutere con Gesù delle tradizioni religiose di purità cultuale. Questo sta a dimostrare che la questione è importante, se le massime autorità del sinedrio decidono una trasferta così impegnativa per verificare l’insegnamento del nuovo «rabbi». I punti di discussione tra i farisei e Gesù sono due: le abluzioni rituali prima dei pasti (Mc 7,2) e l’impegno dei propri averi per sostenere i genitori anziani (Mc 7,10-11), assenti dalla liturgia di oggi. La lunga descrizione di purificazione rituale descritta, in ebraico si chiama «aspersione delle mani». Non deve trarre in inganno perché Mc, con questo lungo inciso, vuole dare la dimensione del problema ai suoi lettori che certamente non sono giudei. Se lo fossero, questa descrizione sarebbe inutile. Tutto il brano di oggi è finalizzato a Mc 7,8: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Gesù appoggia questa affermazione pesante sull’autorità del profeta Is 29,13 che cita espressamente in Mc 7,6: «Ed egli rispose loro: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: ‘Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. 7 Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini’”».

Il contenuto è evidente e non necessita di particolari esegesi: la tradizione degli uomini può uccidere la Paola di Dio. È un punto essenziale anche per noi sul quale spesso passiamo sopra senza la sufficiente riflessione. Proviamo a vedere quali sono le prospettive di vita in gioco. Viviamo in un tempo in cui nella chiesa rischia di prevalere il ritorno alle tradizioni a scapito della Parola di Dio. Si sente e si vive un’aria di restaurazione e vi sono ambienti clericali sempre più vasti che per giustificare la loro incapacità di leggere la storia attraverso la categoria biblica dei «segni dei tempi» (Mt 16,3) addossano ogni responsabilità al concilio Vaticano II, causa di tutte le crisi dell’ultimo quarto di secolo. Molti negano la novità intrinseca che è stato il concilio e hanno presto dimenticato le stesse parole inaugurali pronunciate l’11 ottobre 1963 da papa Giovanni. L’opposizione alla Parola di Dio, in nome e per conto del proprio «sistema» di potere, nasce lontano ed è difficile da estirpare, a meno che il popolo cristiano non si appropri della sua capacità di discernimento. Adamo nel giardino di Èden volle usurpare a Dio il potere di decidere il bene e il male, cioè il giudizio morale. Egli voleva decidere da sé ciò che è bene e ciò che è male per sé e per gli altri. Scoprì solo la sua stessa impossibilità di coprire le sue nudità (è Dio che cuce i vestiti di pelle): si svelò nudo e fragile fino al punto di non potere giudicare nemmeno la sua stessa esistenza e quella dei suoi figli, tanto che Caino arrivò a uccidere il fratello sotto gli occhi dei genitori.

In altre parole, si è rotto l’equilibrio che poneva le sue radici nella Parola di Dio e apriva tutti gli spazi all’autonomia della persona, con un solo limite, uno soltanto: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,16-17). Tutti gli alberi contro uno. Adamo non accetta la legge morale che esige lo sforzo e la scelta della decisione, ma anche il limite. Egli voleva «tutto» (senso degli opposti «bene/male»): non voleva essere libero, voleva essere libertino, capriccioso, senza alcun principio di legalità, senza alcuna regola di convivenza, senza confini che sono conseguenza logica del suo essere «creatura mortale». Egli voleva essere «non soggetto ad [alcuna] legge». Dèspota. Adamo fu scacciato dall’Èden (Gn 3,24), ma fece scuola alle generazioni future fino al punto di determinarne il comportamento quotidiano. Iniziò una lenta e inesorabile progressione di allontanamento da Dio e più una generazione si allontanava da Dio, più prendeva corpo il gesto di Adamo, bramando e sospirando il potere di vita o di morte su uomini e cose. Non avendo questo potere nelle sue mani, l’uomo, discendente di Adamo, vive come se lo avesse realmente rapito e si comporta di conseguenza.

I farisei si radunano attorno a Gesù non per conoscerlo, ma per criticarlo e per richiamarlo all’ordine stabilito. Al loro ordine. I farisei sono lacerati dall’angoscia di dover scegliere tra il loro mondo di certezze e un mondo nuovo che spunta all’orizzonte, ma di cui faticano a cogliere la portata e la direzione. Vivono tutto come un attentato alla stabilità e all’ordine che se «è sempre stato così», significa che è voluto anche da Dio. A questo punto arrivare a decidere che Dio stia dalla parte dell’ordine stabilito dal potere il passo è breve. Essi identificano la loro volontà con quella di Dio e si arrogano il diritto di decidere ciò che è bene e ciò che è male per tutti, esautorando Dio stesso che si era riservato il diritto di giudicare (Mt 7,1; Lc 6,37; Gv 8,15; Rm 12,14-21).

Gesù cerca di aiutare i farisei ad uscire dalla trappola di voler salvare il mondo a ogni costo, con l’ansia della religione pura che può portare solo guai e conseguenze nefaste. Tutte le guerre di religione nascono da questa concezione ansiosa della religione: ansiosa perché assoluta, puerile perché paurosa e peccaminosa perché immorale. Con queste premesse è più facile comprendere il senso dell’opposizione del comandamento alla tradizione degli uomini. Gli uomini che credono di essere potenti e di esercitare un potere assoluto possono solo imporre per un certo tempo comportamenti giuridici esteriori: possono imporli con la forza, con la polizia, con la coercizione, con lo spauracchio dell’inferno. Il comandamento è un imperativo «personale» che esige un’adesione o un rifiuto consapevole perché si appella alla coscienza e quindi alla libertà. La tradizione è impersonale (si è sempre fatto così), il comandamento invece è personale (tu farai, tu non farai). Se la tradizione è il risultato anonimo di un processo che rinnova solo se stesso, ilcomandamento può nascere solo in un regime di amore, perché solo l’amore può imporsi da sé senza violenza e senza inganni. Il cuore è la sorgente del comandamento che mette in comunione due persone che attraverso di esso, in un gioco di libertà scelte e offerte, si fondono in una conoscenza d’intimità e di vita. La tradizione è una regola che governa una serie di regole, anche morali, da cui non si può scappare pena la morte, l’esclusione dal gruppo; il comandamento è il principio, il fondamento e l’angolo di prospettiva da cui chi lo vive assapora il presente come crinale che sta tra il passato e il futuro, tra la storia e la rivelazione.

La Toràh aveva in sé un dinamismo interiore che avrebbe certamente condotto a Cristo (Gal 3,24), se i farisei non l’avessero sterilizzata in mille rivoli e non avessero eretto una siepe impenetrabile tale da renderla irriconoscibile. Essi hanno moltiplicato la Toràh materiale perdendo di vista lo spirito e il cuore, bloccando lo stesso dinamismo per cui la Toràh divenne un idolo di sé stessa. La logica con cui si muovono i farisei e il loro senso legalistico della vita è il comportamento in sé, l’atto esterno, la quantificazione della norma. Gesù centra il suo vangelo su due assoluti: «la persona» del Padre e «la persona» di ogni individuo. Non è l’atto di adulterio o di prostituzione che conta, quanto recuperare la persona che si trova in quello stato morale, dando importanza alle relazioni di fraternità (Mc 7,21-22), piuttosto che alle pratiche di culto. È la logica della fede la quale, basandosi sull’incontro, cerca nella relazione quel dinamismo di libertà che solo può esprimere il senso della vita religiosa. Il vangelo non è una morale, o un pensiero filosofico, o una teologia: è la rivelazione del volto di Dio nell’umanità di Gesù, e viene a dirci come nessuna legge, grande o piccola che sia, abbia senso e valore se non nasce dall’amore, se non è accompagnata dall’amore e se non si consuma nell’amore. In questo contesto, la persona è il cuore della legge e la legge una conseguenza di una visione d’amore.

L’Eucaristia è l’angolo di visuale che ci permette di vedere la prospettiva dal lato giusto, perché ci convoca e ci raduna, non per interesse; ci dispensa la Parola come discernimento di ciò che viviamo, ci nutre per essere forti nel nostro viaggio di scoperta del volto del Padre, ci invia in mezzo agli altri fortificati dal comandamento, ricordandoci che ogni persona incontrata è un sacramento della Presenza di Dio. Ogni persona è un’Eucaristia.

 

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