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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 23ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Is 35,4-7a; Sal 146/145,6b-7,8-9a.9bc-10; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

 

In genere, in ogni domenica, la 1a lettura quasi sempre fa riferimento al vangelo, secondo il principio biblico-teologico che Gesù, per i cristiani, è la chiave di lettura dell’unità della Scrittura: la Prima Alleanza trova il suo compimento-sviluppo nella Seconda. Oggi, la 1a lettura tratta dal libro del profeta Isaia (Is 35,4-7a), è connessa al vangelo così intimamente che possiamo considerarla come un commento anticipato al racconto della guarigione del sordomuto (Mc 7,31-37). Gesù, infatti, ispirandosi nel suo agire direttamente a Is 35, sembra voglia dirci di essere egli stesso l’attuatore della profezia di Isaia. A sua volta la 2a lettura, tratta dalla lettera di Giacomo, ne è un’attualizzazione morale: se Dio privilegia i poveri, i credenti non possono fare preferenze di persone e non possono valutare con i criteri del mondo che sono la ricchezza e l’apparenza. L’assemblea liturgica, di conseguenza, deve essere lo specchio di questa nuova prospettiva di vita. La ricchezza come fine della vita, e non come strumento di condivisione, porta inevitabilmente al possesso del potere come strumento di difesa del ricco a danno sempre del povero. L’animo dell’economia mondiale, gestita dal neoliberismo, è tutto qui: il ricco s’arricchisce e il povero s’impoverisce sempre di più. Si crea un’ingiustizia strutturale che permea anche la politica, anzi la sottomette al potere dell’economia, privandola della sua stessa natura: essere a servizio della «Polis», cioè della collettività che in termini di morale si chiama «Bene Comune». Viviamo in tempi in cui la finanza domina e condiziona anche i sistemi democratici, insofferente ai diritti delle persone e attenta solo all’utile immediato, non condizionato da alcuna regola o, peggio, moralità: è l’epilogo del sistema neocapitalista, causa e principio di diseguaglianze abissali perché capace di manomettere mercati e condizioni di mercato. Essa genera mostri perché pone il superfluo e l’effimero come essenza della vita, svuotando le dinamiche spirituali e trasformando le persone in «segmenti economici», in mano d’opera, valutata come «merce», trasformandola in schiavitù da sfruttare, offrendo l’illusione della felicità fatta di oggetti sempre più nuovi e sempre più effimeri. La vita è piena di oggettistica, ma è vuota d’idee e di progettualità. Non di rado è lo stesso Stato a usare in modo perverso il potere, direttamente per scelte politiche, o per mezzo di servizi deviati, o anche per iniziativa autonoma di questi in concorrenza con altre strutture all’interno dello stesso Stato.

Sant’Agostino (354-430), che non era un ingenuo, avendo colto tutto ciò, ha voluto anche darne una definizione lapidaria: «Togli il Diritto e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti? Se non è rispettata la Giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?», che riflette il più antico profeta Isaia (sec. VIII a.C.): «Come mai la città fedele è diventata una prostituta? Era piena di rettitudine, vi dimorava la giustizia, ora invece è piena di assassini! … I tuoi capi sono ribelli e complici di ladri. Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova fino a loro non giunge» (Is 1,21-23). Ciò che conta oggi nel mondo è l’utile immediato senza fatica e l’ansia di vanità, i titoli esibiti come insegne, non il valore delle persone o la professionalità competente, la qualità delle persone. Più le persone sono vuote e ridicole più ostentano titoli e medaglie, sempre pronte a vendersi a qualsiasi mercante che garantisce protezione e privilegi. Più esse sono malate e più si attribuiscono meriti che non hanno, fino a superare anche la linea che separa la dignità dalla vergogna, arrivando a vendersi come «servi volontari», e a volte anche gratis.

Il 29 giugno 1972, nell’omelia della Messa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, per il suo IX anniversario di pontificato, Paolo VIdisse che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio». A distanza di anni, oggi non esitiamo a dire che questo fumo di Satana è la piaga del carrierismo ecclesiastico che si nutre di futilità, di mondanità e di apparenze effimere. La seconda piaga è il culto della personalità che spesso prevale sulla verità e si trasforma in cortigianeria ossequiosa senza testa e senza spina dorsale. Queste cose allontanano le persone pensanti dalla Chiesa.

Il vangelo ci dice che non dobbiamo e non possiamo farci imprigionare dalle apparenze, perché la liturgia dev’essere lo spazio dell’uguaglianza dei figli di Dio. Essere uguali non significa essere appiattiti su uno schema o un canovaccio, ma accettarsi e accogliersi nella verità della dignità: ogni persona è unica e irripetibile. Tra credenti non conta il titolo o la funzione, le capacità o il successo, il casato o la dinastia. I credenti accolgono le persone con la verità del cuore: carne e sangue di Dio e quindi sangue e carne propria. Nessuno è estraneo alla nostra umanità, al nostro amore, alla nostra fede. Solo i diversi possono essere uniti nella ricchezza della diversità. Uguali nella dignità, diversi nella funzione, identici nella natura. Vestire tutti allo stesso modo è essere uniformi nell’apparire esteriore, ma essere un cuore solo ed un’anima sola significa dare corpo e visibilità al dono di ciascuno nella condivisione gioiosa e non gelosa, nella comunione dello Spirito che unisce e conforma alla volontà di Dio. Noi partecipiamo all’Eucaristia per imparare a vedere le cose e noi stessi con altri occhi, con lo sguardo profondo di Dio che conosce noi più di noi stessi: «Io, il Signore, scruto la mente (in ebr.: cuore) e saggio i cuori (in ebr.: reni), per dare a ciascuno secondo la sua condotta (in ebr.: sue vie), secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,10).

Anche Sant’Agostino ha sperimentato la pregnanza del rapporto tra le due intimità. Convocati dallo Spirito, ci lasciamo radunare in comunità eucaristica, dove ci riconosciamo figli e figlie dello stesso Padre e ci lasciamo condividere in ciò che siamo e in ciò che abbiamo, sapendo che lo Spirito di Dio ci consola e ci rende degni di essere presenti e di celebrare l’Eucaristia, il sacramento della sua gloria, a beneficio del mondo intero. La logica del mondo è per sua natura discriminante: il forte vince sul debole, il furbo sull’onesto, l’arrogante sull’umile, il malizioso sul benevolo, il ricco sul povero, il politico sul cittadino. Questa logica è diffusa anche tra i cristiani che hanno smarrito la logica del Regno: «sono nel mondo … non sono del mondo» (Gv 17,11.16). La logica mondana è aberrante perché si nutre d’immagine esteriore e superficiale che prevale sulla verità, sostituendo l’interiorità con l’apparenza.

Esame di coscienza

San Giacomo ci dice che siamo propensi a dare credibilità a un ricco piuttosto che a un povero, a un letterato piuttosto che a una persona semplice anche se sapiente, a un personaggio televisivo piuttosto che a una persona oscura anche se ricca di vita e sazia di giorni. Noi facciamo preferenze di persone, anche senza accorgercene, perché la mentalità del mondo ci ha infettati. Oggi vogliamo purificare i nostri criteri di valutazione in questa Eucaristia e intendiamo imparare a guardare la vita con gli occhi di Dio che sceglie Davide non perché il primogenito o più forte o il più appariscente, ma unicamente perché è secondo il suo cuore. «Il Signore replicò a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”» (1Sa 16,7; cf 1Re 15,3). Guardando al nostro trascorso, vogliamo chiedere perdono per tutte le volte che siamo stati consapevoli ostacoli ad orizzonti nuovi, scegliendo la comodità del passato e rifugiandoci in esso per non impegnarci nella fatica del nuovo, nel dolore e nella gioia di scoprire di non essere il centro dell’esistenza. In modo particolare chiediamo perdono per i peccati di omissione, specialmente per tutti i peccati di amore omesso.

Signore, Dio vicino nel comandamento dell’amore, perdona e liberaci da ogni male. Kyrie, elèison.

Cristo, Parola seminata nei nostri cuori, perdonaci per non averti accolto docilmente. Christe, elèison. Signore, per tutte le volte che ci siamo illusi di essere solo ascoltatori della Parola. Pnèuma, elèison.

Cristo, per tutte le volte che abbiamo tradito la Parola in nome delle nostre tradizioni. Christe, elèison.

Il Dio che ha creato il cielo e la terra, che ha dato la Toràh a Mosè perché, attraverso Israele, accompagnasse l’umanità ad accogliere il Messia che annuncia gli ultimi tempi, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti per la riflessione e la preghiera

Mc colloca il miracolo del sordomuto dentro una cornice geografica molto precisa, evento molto strano nei vangeli che normalmente sono generici. È un invito a una maggiore attenzione. Gesù si trova in territorio pagano, a Tiro, nell’attuale Libano (antica Fenicia) sul mare Mediterraneo. Tiro è a km 50 circa a nord di Hàifa, la più importante città della Galilea ovest. Gesù vuole tornare in Galilea est, a Cafarnao, nella sua patria sul lago di Tiberiade, detto «mare di Galilea». Per fare questo tragitto, Gesù fa un percorso strano, contro ogni logica: invece di andare a sud-est si dirige a nord verso Sidone, sempre in Libano, distante circa km 20 da Tiro. Dopo un lungo inspiegabile giro, come dice la versione Cei, giunge «in pieno territorio della Decàpoli» (Mc 7,31). Il testo greco è suscettibile di una variante: «Essendo uscito dai territori di Tiro, attraverso Sidone, giunse di nuovo al mare della Galilea attraverso il centro dei territori della Decapoli», nell’attuale Giordània234. Sembra che l’evangelista si voglia preoccupare di dirci che è andato proprio lì: nel «centro dei territori della Decapoli», cioè nel cuore di una zona pagana, e senza alcun nesso con «la terra d’Israele». Un viaggio strano che dietro il non senso logico contiene un significato teologico.

Il percorso a forma di semicerchio in senso orario (Tiro, Sidone, Decapoli, Galilea) che compie Gesù ha lo scopo di comunicare al lettore che Gesù proviene dal territorio pagano, ma non entra nella Terra promessa, che invece circumnaviga passando così dalla terra pagana del Libano alla terra pagana della Decapoli. La Palestina è tagliata fuori. Egli arriva da ovest, dalla costa del Mare Mediterraneo, via terra, alla sponda orientale del mare di Galilea, nella regione di Geràsa (in Giordania) dove l’indemoniato liberato da Gesù ne aveva divulgato la fama (5,20). Questo lungo viaggio ha uno scopo preciso: evitare di entrare nella terra d’Israele. La situazione è capovolta: Gesù che era venuto per le «pecore disperse d’Israele» (Mt 15,24; cf 10,6), ora è fuori i confini d’Israele, percorre le regioni pagane, ed evita accuratamente Èretz Ìsrael – la terra d’Israele. Il puro diventa impuro e l’impuro puro. È un modo per giustificare e spiegare l’universalismo della fede. Troviamo qui la teologia paolina del vangelo ai Gentili=non Ebrei, che non hanno bisogno della circoncisione per accedere alla fede in Gesù Cristo (1Cor 7,19). Il versetto è la testimonianza della tensione che vi fu tra i primi cristiani di origine giudaica nell’accettare i nuovi credenti provenienti dal paganesimo. Marco, discepolo di Paolo, ci consegna il mandato missionario di un vangelo aperto a ogni popolo il quale ha diritto di accesso alla fede senza condizione preliminare.

Chiarito questo contesto, il resto è più facile; Gesù compie in territorio pagano gli stessi miracoli che compie in terra d’Israele, con le stesse modalità e alle stesse condizioni. Israele e pagani, per Gesù di Nazareth, sono sullo stesso piano e nessuno può vantare diritti superiori a quelli degli altri. A tutti e due chiede solo la fede in Dio e nel Figlio dell’uomo (Gv 9,35-37). Il racconto della guarigione del sordomuto è particolare perché è molto simile a quello del racconto del cieco (Mc 8,22-26) con il quale ha una serie di analogie. Gli elementi comuni sono sette: 1. Partecipazione della folla che porta il malato 2. Gesù opera in disparte 3. Esorcismo dell’insalivazione 4. Contatto fisico con le mani 5. Sguardo al cielo 6. Imposizione del silenzio 7. Guarigione.

Questo schema sembra risentire del substrato di una liturgia di esorcismo e di guarigione consolidata perché si dà importanza a due sensi che sono essenziali per la fede: l’udito e la parola (con la vista in quella del cieco). L’ascolto con la lode e la visione. La Parola e il Volto. La relazione vitale. Non udire, non parlare e non vedere sono considerati castighi di Dio (Mc 4,10-12; 8,18), probabili colpe dei padri scontate dai figli, per cui guarire da questi malanni significa ricevere la salvezza da Dio. Chi riceve la salvezza è chiamato a fare una scelta di rottura con il mondo circostante, qui identificato in un soggetto plurale impersonale (gli portarono) con un riferimento indistinto alla «folla» (Mc 7,31; 8,22). Non si può servire due padroni. Per udire, parlare e vedere bisogna allontanarsi dalla folla perché questa non solo ne è incapace, ma può essere un impedimento. La folla ama le urla e le «sensazioni», la persona sapiente s’immerge nel silenzio d’ascolto e nella visione. Nella massa, specialmente se condizionata dai mezzi di comunicazione controllati dal potere o da qualcuno senza scrupoli, l’individuo perde la propria capacità di valutazione e vive attraverso la mediazione di altri che ne determinano la mente, la coscienza e lo riducono a puro esecutore. La Chiesa deve essere lo spazio del disinquinamento, dove la coscienza ritrova la sua lucidità e il pensiero la sua libertà. Se la Chiesa si adegua alla mentalità corrente, viene meno al suo mandato che è quello di difendere «la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Ascoltare, parlare e vedere sono attività irrinunciabili per ogni persona: si può essere ciechi fisicamente, ma non si può non vedere la realtà che ci circonda; si può essere muti, ma non si può rinunciare alla comunicazione; si può essere sordi per una menomazione, ma non si può venire meno all’esigenza di ascoltare col cuore e con gli occhi i segni della vita e della vita di comunione.

Osserviamo da vicino il racconto. Gesù prima di guarire il sordomuto alza gli occhi al cielo (Mc 7,34), compiendo il gesto che nei vangeli sinottici è ricordato solo per la moltiplicazione dei pani (Mc 6,41; Mt 14,19; Lc 9,16), quindi in un contesto eucaristico. Potrebbe essere l’indizio che ci troviamo di fronte a un rito liturgico di esorcismo nell’ambito dell’iniziazione cristiana che è basata sul rapporto «parola-ascolto-fede». A ciò si deve aggiungere l’insalivazione che ha un significato proprio perché la saliva è il respiro vitale solidificato e quindi «insalivare» significa trasmettere il soffio vitale (Gv 9,6) dello Spirito che genera la creazione e la rinnova (Gen 2,7; 7,20; Sap 15,15-16). La parola «Effatà» è un residuo aramaico conservato da Mc (Mc 7,34) perché a lui preesistente. Questo testo dovrebbe essere approfondito all’interno di tutto il contesto e potrebbe costituire un buon fondamento dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo, confermazione ed eucaristia.

Se ci domandiamo qual è il senso della liturgia della Parola di oggi, non sbagliamo a dire che il senso riguarda l’iniziazione alla fede: sappiamo infatti che tutto il vangelo di Mc è scritto per i catecumeni, coloro cioè che per la prima volta si affacciano alla fede attraverso un lungo percorso di formazione, di sperimentazione e di condivisione che, nella Chiesa dei primi secoli, durava anche tre anni. L’iniziazione alla fede nella Scrittura è quasi sempre illustrata come guarigione dal mutismo. Acquistare la parola significa iniziare a credere. Tutti i chiamati da Dio devono fare i conti con la parola e quindi con la loro balbuzie, con la paura di parlare la Parola di Dio (Es 4,10-17; Is 6; Ger 1). Se Mosè e Geremia si sentono inadeguati a possedere parole che possano esprimere la Parola, Ezechiele e l’autore dell’Apocalisse addirittura devono mangiare il rotolo/libro della Parola (Ez 2,8-3,3; Ap 10,8-11), cioè identificarsi con la Scrittura per essere «profeti» e non padroni della Parola. Diventare la Parola è l’obiettivo del catecumeno che così entra nella dimensione profetica della sua vita: l’esempio più chiaro e più genuino si ha con Maria di Nazareth, che non solo non si oppone all’irruzione del Lògos/Parola che in lei diventerà carne e sangue umani, ma si offre con slancio abbandonandosi totalmente alla nuova identità e personalità che la Parola opera in lei: «Oh, sì! Eccomi, sono la serva del Signore: accada a me secondo la tua parola». Gesù resta fuori della Palestina per abbattere il muro della separazione (Ef 2,14) tra Israele e gli altri popoli, tra la Chiesa e tutte le nazioni, tra il vangelo e tutte le culture, tra l’Eucaristia e tutte le speranze umane. Quando Israele si allontana da Dio, uno dei castighi più gravi è il mutismo: tacciono i profeti e muore l’ascolto (1Sa 3,1; Is 28,7-13; Lam 2,9-10; Ez 3,22-27; Am 8,11-12; Gen 11,1-9). Essere muti significa non avere fede. Al contrario quando abbonda la Parola è segno che lo Spirito di Dio scorre come un fiume in piena perché sono iniziati i tempi del Messia e la fede scorre come un fiume (Lc 1,65; 2,17.38). Non a caso l’annuncio che tutto il popolo è un popolo di profeti (Gl 3,1-2) si compie nel giorno di Pentecoste, il giorno che rivede la riapertura del cielo per mostrare a tutti i popoli il volto di Dio Padre (At 2,1-3).

Se dovessimo fare un’applicazione alla situazione storica attuale, dovremmo constatare che assistiamo a un tempo di decadenza. Oggi anche il silenzio è stato sostituito dal «tacere» che domina incontrastato, per viltà o opportunismo. A volte si ha la sensazione che il mutismo da cui i cristiani sono colpiti sia quasi un castigo di Dio, una forma di esilio per richiamare alla conversione, al ritorno alla fede. Si può stare in silenzio davanti a Dio o davanti a una tragedia, a un dolore indicibile, mai e poi mai il cristiano può «tacere» di fronte all’ingiustizia, al sopruso, alla sopraffazione del debole, specialmente se di altre culture e paesi perché è doppiamente povero: in quanto povero e in quanto straniero in terra altrui. Come poi si possa essere stranieri nella terra che è di Dio e che tutti dobbiamo lasciare, al momento della morte, è uno dei drammi della nostra «inciviltà» occidentale e cristiana. Anche nel deserto dell’indifferenza, il credente deve gridare come il Battista: «Voce di uno che grida nel deserto» (Is 40,3; Mc 1,3; Gv 1,23). I cristiani sono «afoni» e appiattiti alla logica del mondo, dove regna il caos, dove tutti parlano e nessuno ascolta. Di fronte alle guerre, ai soprusi dell’economia dei forti, allo sfruttamento, alla violenza dei sistemi, all’illegalità scelta come criterio etico, molti cristiani, non reagiscono perché assuefatti al «sistema mondo». Stare dalla parte della profezia è rischioso e chi vive di fede deve rischiare e pagare di persona compromettendo anche interessi personali legittimi perché il tempo che viviamo è contemporaneamente tempo di silenzio davanti a Dio e tempo di parola davanti agli uomini. «EffatàApriti!» è l’invito che facciamo nostro nella coerenza della fede per essere capaci di dire agli smarriti di cuore di non temere i pericoli della vita perché il Signore è vicino attraverso di noi: Siamo noi che dobbiamo dire ai ciechi di vedere, agli zoppi di camminare e ai sordi di udire, perché se non siamo capaci di compiere i miracoli della solidarietà, quale fede possiamo testimoniare? Dio con Isaia promette un capovolgimento anche della natura, noi quale capovolgimento della vita offriamo agli occhi del mondo sempre più distratto e più banale? San Giacomo ci offre un criterio infallibile per verificare se il nostro cammino di credenti è autentico oppure se sta in piedi come un francobollo senza colla: il nostro atteggiamento di fronte ai poveri e ai ricchi che può diventare la nostra condanna oppure la nostra salvezza. «Effatà – Apriti!» è l’invito a spalancare il nostro udito e la nostra mente ai pensieri e alle parole di Dio per essere in grado di percepire le parole di vita e i sussurri di aiuto che provengono dal cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo, ai quali dobbiamo parlare di Dio attraverso la nostra testimonianza perché possano ascoltarlo e contemplarlo. Con l’aiuto di Dio vogliamo aprirci all’azione di novità dello Spirito Santo, vogliamo aprirci al mondo che Dio ama, all’amore e alla misericordia, per annunciare con la nostra vita che vale la pena vivere, nonostante tutto, perché Dio ci ama e ci manda ad amare.

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