Mensa della Parola: Is 50,5-9a. Sal 116 [114-115], 1-2. 3-4. 5-6. 8-9; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35.
Il vangelo di Mc è il primo incontro con il Signore e per questo si dice che è il vangelo dei catecumeni: coloro che non sono cristiani, ma desiderano esserlo e si apprestano a conoscerne le condizioni. La domanda che percorre il Vangelo, in tutte le sue quattro espressioni (Mt, Mc, Lc e Gv), è: Chi è Gesù? Se saremo catecumeni di Mc, passeremo di stupore in stupore e impareremo a conoscere sempre più profondamente Gesù di Nazareth che si rivela a noi Messia e Figlio del Padre. Mc ci aveva promesso il “Vangelo, cioè Gesù Cristo, cioè il Figlio di Dio” (Mc 1,1) e, infatti, ci ha condotti a incontrare e a conoscere Gesù che parla e agisce con autorità. Di seguito le tappe catecumenali:
1. Mc 1,1: “Vangelo, cioè Gesù Cristo, cioè il Figlio di Dio”. Questa affermazione è il titolo dell’intero vangelo, la tesi che l’evangelista vuole esporre come propria fede personale di credente e innamorato di Gesù. Egli svela il suo intento: prenderci per mano e guidarci all’incontro e alla conoscenza di Gesù che parla e agisce con autorità.
2. Mc 8,29: è la seconda tappa del cammino catecumenale che, geograficamente, si svolge nella città di Cesarea di Filippo, a nord della Galilea, là dove, insieme al discepolo Pietro, anche noi facciamo la prima professione di fede: “Tu sei il Cristo”. Qui siamo ammessi a essere discepoli di Gesù con gli apostoli per essere, come loro, testimoni.
3. Mc 15,39: “Vistolo spirare in quel modo, il centurione romano esclamò: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”. È la terza tappa del nostro catecumenato giunto sul Monte Calvario, là dove contempliamo con il pagano romano il mistero dell’ignominia di Dio, crocifisso nella carne di Gesù, rivelazione del Padre.
4. La quarta tappa tocca a noi. Il vangelo di Mc resta aperto, senza una conclusione. Esso si ferma allo «spavento» delle donne al sepolcro (Mc 15,8), aprendo al lettore un orizzonte senza fine che valica lo spazio e i tempi per correre lungo la storia, fino alla fine. Spetta a noi scrivere il vangelo, oggi, senza paura, con la vita e nella vita, nella storia che attraversiamo verso il regno di Dio, la nuova umanità che si fonda sulla vita data per amore.
«Lineari sono le quattro tappe e formano un metodo, un criterio pedagogico, valido in ogni tempo: al “principio del Vangelo” (Mc 1,1), l’evangelista professa la propria fede, perché nessun testimone può stare ai margini e non coinvolgersipersonalmente: la fede non è un insegnamento né una merce in vendita, ma vita che si dona. A metà cammino (Mc 8,29), il catecumeno, divenuto discepolo (Pietro), professa la propria fede, coinvolgendosi, dichiarandosi, professando apertamente di essere innamorato di Gesù. Ai piedi della croce (Mc 15,39), un pagano, il centurione che, in quanto romano, è rappresentativo dell’umanità intera, ci svela la vera personalità del figlio di Maria (Mc 6,3): Il “Vangelo” non è un testo per quanto nobile, ma una Persona viva e attesa che nella morte vissuta come dono diventa il “Cristo” sicché anche i pagani ne riconoscono l’identità di “Figlio di Dio”. «Di più, Gesù non è solo “Vangelo”, o solo “Cristo”, egli è il “Figlio di Dio”, cioè il volto visibile del Padre, il garante della sua paternità e quindi il principio della nostra fraternità. Da questo momento, inizia per noi la vita di fede come testimonianza. Il vangelo di Mc si chiude senza conclusione (Mc 16,8), in modo aperto (Mc 16,9-16 sono un’aggiunta posteriore), forse appositamente perché spetta a noi scrivere, nel tempo e nella storia in cui ciascuno è chiamato a vivere, la conclusione del vangelo incarnato nella vita personale. Ciascuno deve, non può non scriverla con l’inchiostro della propria anima ed esperienza che nessuno può sostituire. Siamo unici perché figli e figlie di Dio. «È da sottolineare che a cogliere la vera personalità di Gesù non è un discepolo, ma un pagano dopo avere assistito al “segno” per eccellenza: “vistolo morire in quel modo”. Nessuno può possedere Dio, il cui “spirito soffia dove vuole” (Gv 3,8) perché nessuno lo può imprigionare in schemi, strutture e religioni. Sta qui il segreto della fede e di ogni catecumenato: noi incontriamo Dio se lo vediamo morire al modo di Dio, cioè senza rivendicazioni, senza recriminazioni, ma con amore e per amore, perdonando anche coloro che lo uccidono (Lc 23,34), e offrendo la propria vita come dono incondizionato. Solo la croce è la porta della risurrezione: questo è Gesù, questo è il Figlio di Dio, questo può essere ciascuno di noi. La croce è la cattedra dell’amore a perdere e la mèta del catecumenato perché svela la verità su noi, quella su Dio e dona la Pace/Shalòm che ansiosamente cerchiamo. Ogni processo di fede che non porti alla croce è una passeggiata in un pubblico parco, magari con un gelato in mano».
La liturgia odierna ci trasferisce a Cesarea di Filippo, tappa fondamentale per il cammino di fede: il catecumeno diventa discepolo, superando le opinioni della gente e disponendosi all’incontro con Gesù, Messia e Salvatore, la cui figura e personalità sono descritte dal 3° canto di Yahwèh riportato nella 1a lettura (Is 50,4-9). Un discepolo del profeta Isaia, a distanza di un secolo, ci presenta la figura misteriosa del «Servo Sofferente», mettendoci sull’avviso che Gesù di Nazareth è un Messia che viene in modo inimmaginabile: non è un Messia potente, «il Dio degli eserciti», ma un Messia provato, figlio della sofferenza e della persecuzione: un Messia scandaloso. Per questo è fedele fino in fondo, perché confida nel Signore, affidandosi alla sua giustizia e alla sua difesa. Storicamente, dietro la figura del Servo, probabilmente, si fondono due personaggi: il popolo d’Israele come «personalità collettiva» e il profeta Geremia come individuo. Questa doppia rappresentanza bene esprime la vocazione di Israele in quanto «figlio primogenito» (personalità individuale: Es 4,22), ma anche quella di «popolo di Dio» profetico sul versante della storia (personalità collettiva). Gesù nei vangeli si riferisce al Servo sofferente una sola volta (Lc 22,37), ma la tradizione da sempre ha identificato la sua vita con quella di questo misterioso personaggio, descritto da Isaia, fino al punto che la liturgia assume il 4° carme (Is 52,13-53,12) come lettura propria del Venerdì Santo perché è descrittivo della morte vissuta come dono dal Figlio di Dio. La 2a lettura ci porta dentro il cuore del dibattito della Chiesa primitiva, dove si confrontano due linee: quella di Paolo aperta al mondo futuro e alla novità della Pasqua cristiana e quella di Giacomo fissa sul passato e attenta alla tradizione mosaica. San Paolo vive una vita penosa perché è perseguitato dentro la Chiesa nel senso che non è accettato come «apostolo», ma il suo ministero è messo in dubbio e osteggiato specialmente dalla comunità di Gerusalemme, retta da Giacomo, cui la nostra lettera s’ispira (Gal 2,4-5). Paolo predica la libertà in Cristo superando il legalismo della circoncisione e dell’osservanza dei precetti che avevano trasformato il giudaismo in una pratica di religiosità materiale. Forse in alcune comunità le parole di Paolo sono prese alla lettera e usate come scusa di libertinaggio senza freno (1Cor 6,1), fino al punto che in nome della libertà irresponsabile uno di loro conviva come marito della propria matrigna (1Cor 5,1-3). Paolo assente da Corinto, interviene drasticamente con la scomunica perché ciò che accade a Corinto non è lecito nemmeno tra le nazioni pagane (1Cor 5,4-5).
La fede non può limitarsi a una dichiarazione d’intenti, ma deve diventare linfa che nutre la vita di ogni giorno verificata nelle scelte concrete. Per cogliere questa dimensione ci disponiamo a professare la nostra fede con Pietro e gli apostoli, verificando anche noi l’immagine e la conoscenza che abbiamo di Gesù. Pietro a nome del gruppo dei Dodici dichiara apertamente la sua fede, distinguendosi dalle opinioni correnti e comuni: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29). Con quest’affermazione, Pietro non riconosce alcuna divinità a Gesù, ma solo la sua messianicità all’interno del Giudaismo che egli concepisce in maniera trionfale. Immediatamente dopo, infatti, cerca di distogliere dal suo compito il Messia appena riconosciuto: «[Pietro] si mise a rimproverarlo» (Mc 8,32). In questo modo, perde la sua identità di discepolo e assume quella di «Satana» (Mc 8,33): tu sei Cristo/tu sei Satana. Pietro vuole un Messia a sua immagine e trionfante; la sua fede si ferma alle apparenze o alle convenienze, alle attese comuni in Israele. Pietro è il simbolo della contraddizione: credente e pagano insieme.
Esame di coscienza
Se guardiamo al mondo che ci circonda e a quello che osserviamo più lontano, non possiamo non prendere atto che un mare di sofferenza e di morte annega l’umanità intera. Si direbbe che la morte è l’obiettivo «scientifico» perseguito con costanza e fermezza: tutto ruota intorno alla morte e al suo mercato di armi. La guerra, alimentata dal fiorentissimo mercato di armi dei paesi occidentali, a sua volta spinge le popolazioni a emigrare in occidente che però li respinge e li lascia morire in mare o nelle stazioni o cerca di contenerli con filo spinato, contravvenendo così a ogni etica e principio di diritto e a ogni responsabilità per essere stato causa di questa transumanza di popoli. In quest’abisso di sofferenza, Cristo si seppellisce nella figura del Servo. Chiediamo perdono al Signore per tutte le volte che diventiamo complici di questo mondo ingiusto che vive e prospera sulla miseria e sulla morte dei poveri e degli ultimi. Chiediamo di essere partecipi della croce di Cristo, facendoci cirenei di quanti hanno bisogno nel mondo.
Signore, per tutte le volte che ci lamentiamo per i nostri piccoli contrattempi. Kyrie, elèison.
Cristo, che per fedeltà al Padre non ti sei sottratto al dolore e alla persecuzione. Christe, elèison.
Signore, che ti sei identificato nei poveri e negli emarginati di ogni tempo. Kyrie, elèison.
Cristo, che esigi la fede in te come testimonianza e condivisione di vita. Christe, elèison.
Il Padre che nel Servo Sofferente e nel profeta Geremia ci ha dato l’immagine anticipata del Cristo Crocifisso, abbi misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Nell’introduzione abbiamo anticipato che siamo a un punto cruciale del cammino di fede: da catecumeni che hanno sperimentato con stupore ed emozione «le parole e le azioni» di Gesù, diventiamo discepoli, cioè instauriamo un rapporto d’intimità e di confidenza che introduce a un aspetto più profondo della vera personalità di Gesù. Oggi sostiamo a Cesarea per una tappa importante: riconosciamo che Gesù è «il Cristo». Questo titolo si riferisce all’attesa messianica di Israele. Il Messia/Cristo è un inviato da Dio sulla linea di Mosè e dei profeti, certamente superiore a essi, ma sempre un essere umano. Gesù stesso sonda il terreno per vedere dove si situa la consapevolezza degli apostoli. Il metodo di Gesù è circolare, parte da lontano per giungere al loro cuore e per far loro accettare la sua vera identità di Messia sofferente. Gesù non si lascia mai imprigionare dalle folle, di cui conosce la psicologia e la fragilità, ma va dritto all’essenza delle cose. Egli, ancora in territorio pagano, viaggia per villaggi andando alla ricerca delle persone, non aspettando che esse vengano a cercarlo, com’era costume dei rabbini dell’epoca. Lungo il cammino interroga i suoi discepoli, chiedendo loro di riferire l’opinione che la gente si è fatta di lui come «Rabbi itinerante». Forse Gesù sta facendo un bilancio a medio termine e vuole verificare l’efficacia del suo operato e della sua predicazione. Gli apostoli riferiscono correttamente le «opinioni» diffuse che non sono univoche: non c’è da stare allegri, nonostante gli stupori, nonostante i miracoli, nonostante la moltiplicazione del pane, attorno a Gesù regna una grande confusione.
Cosa pensa la gente? «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti» (Mc 8,28). I personaggi ricordati dalla folla hanno una caratteristica comune: sono tutte persone morte: il Battista, Elia e i profeti. La folla non respira il presente e non è in grado di guardare al futuro. Gesù ha appena sfamato una folla immensa, ha anche conservato le riserve di pane, preoccupandosi per le generazioni future e la mitica «gente» parla di lui come di un «morto»: è uno dei tanti che ha fatto del bene, un uomo del passato che passa a sua volta. È il fallimento totale del giovane Rabbi. A questo punto Gesù cambia atteggiamento e intervista i suoi discepoli per sapere se anch’essi si trovano sulla stessa lunghezza d’onda della folla. Tutti e tre i sinottici riportano lo stesso testo: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29; Mt 16,15; Lc 9,20), nella domanda bisogna mettere in evidenza la preposizione semplice avversativa «ma». L’intento di Gesù, infatti, è quello di verificare se c’è contrapposizione tra l’opinione della folla e la consapevolezza degli apostoli. L’importanza di un «ma»!
Nota di spiritualità
Nella nostra vita manca un «ma», cioè la collocazione sul versante della fede consapevole contrapposta alle seduzioni del mondo che si presentano sempre come opinioni rispettabili di collaborazione. Occorre il discernimento, specialmente nel rapporto con il potere politico ed economico, che cercheranno sempre di avere la «Chiesa» dalla loro parte e si dichiareranno alleati, mentre in realtà sviliscono il cuore della fede per ridurlo a un ornamento di «valore sociale» funzionale all’esercizio del potere stesso. Il vangelo è alternativo alla logica del mondo, dominata dall’esercizio del potere fine a se stesso. Quando la Chiesa rinuncia al suo «ma» per collocarsi nelle confortevoli garanzie che offrono i potenti di turno, diventa «Satana» e rinnega la fede nel Cristo. Qual è il mio «ma»? «Ma io chi dico che sia il Cristo»?
La risposta di Pietro non è ancora la fede nel Figlio di Dio come invece dirà Matteo (Mt 16,16), ma è l’inizio di una fede in cammino: egli riconosce il Messia, cioè il restauratore d’Israele. Pietro, a differenza della gente, non vede un «uomo del passato», morto tra i morti, ma vede una prospettiva futura, il progetto di liberazione sulla linea della discendenza davidica. La contrapposizione è grande! Sulla bocca di un ebreo, al tempo di Gesù, l’espressione «Tu sei il Cristo!», era dirompente perché non solo pretendeva di compiere la lunga attesa messianica, ma si proiettava tutta nell’avvenire, affermando una speranza, anzi «la Speranza d’Israele» (Ger 14,8; At 28,20). Di fronte allo svelamento parziale della sua personalità, che Matteo non esiterà a dichiarare come ispirata dal Padre (Mt 16,17), Gesù impone il silenzio; non si tratta di un semplice «tacere», ma di un criterio di discernimento; saranno gli eventi della croce a svelare definitivamente la vera e piena personalità di Gesù con le parole del centurione pagano: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Impariamo così che due sono i luoghi dove si manifesta la volontà del Padre: la Parola di Dio e gli avvenimenti della vita. Parola e fatto. Il silenzio è necessario per entrare più profondamente nel mistero della personalità di Gesù che Pietro ha appena intuito. Il Messia atteso dai Giudei è un Messia solenne, di stirpe sacerdotale, secondo alcuni e di stirpe regale, secondo altri. Sacerdote e laico. Il Messia laico sarebbe arrivato a dorso di un cavallo e tutti lo avrebbero riconosciuto perché con lui sarebbe iniziata la riscossa contro l’invasore romano per restituire di nuovo la libertà al popolo eletto. «Piuttosto che cavalcare il cavallo, vero strumento di guerra, per fare strage dei suoi nemici, Gesù Messia/Servo è pronto a morire per il suo popolo, offrendo in dono la sua stesa vita anche per coloro che lo uccidono.
Il Messia che Pietro deve imparare a conoscere è il «Figlio del Dio vivente»: non violento, non a dorso di un cavallo, ma pacifico che viene a dorso di un’asina per annunciare un’era di perdono e di pace e un tempo di dilazione nel segno della misericordia. Grande è la responsabilità di Pietro che sarà chiamato a confermare i fratelli nella «pietra/roccia» di questa fede (Lc 22.32)». Gesù esige il silenzio perché non si può parlare di sofferenza, di emarginazione e di morte nel chiasso e nel frastuono. Le dimensioni profonde della vita si ascoltano con la piena attenzione del cuore, in quel vortice di comunicazione che è il silenzio d’amore. Ancora di più è necessario il silenzio per parlare di risurrezione. Gesù esige il silenzio verso gli altri, ma agli apostoli parla apertamente (Mc 8,32): si rivela nella sua intima identità che solo la croce, e il cammino che la precede, potrà svelare appieno. Il Messia di Pietro è molto diverso dal Messia di Gesù. Pietro, infatti, chiede a Cristo di rinnegare la sua missione e se stesso, addirittura «lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo» (Mc 8,32), come se volesse proteggerlo dall’incomprensione degli altri e per garantirgli la sua solidarietà. In un certo senso: si comporta come un genitore nei confronti di un figlio irresponsabile, rimproverandolo, per fargli capire «il senso della vita». Non sa che, da lì a poco, sarà proprio lui a rinnegarlo senza alcuno scrupolo (Mc 14,66- 72). Gesù reagisce con veemenza e durezza e gli cambia ancora una volta nome: lo chiama «Satana» (Mc 8,33) cioè con il nome del nemico proprio di Dio, colui che distoglie sempre dal progetto di salvezza. Lo aveva chiamato «Pietro» (Mt 16,18) ponendo la sua fede come «roccia» di sostegno per la fragile fede degli altri e ora lo ribattezza «Satana = oppositore/nemico». È necessario non perdere mai il discernimento sulla propria concezione di Dio perché apparentemente crediamo di pensare in sintonia di Dio, mentre, invece, potremmo stare semplicemente dalla parte della nostra pigrizia e della nostra presunzione: «tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33).
A questo punto avviene qualcosa d’insolito: Gesù convoca «la folla insieme ai suoi discepoli» (Mc 8,34), contrariamente a quanto aveva fatto prima imponendo il silenzio nei confronti della folla, mentre ai discepoli parlava apertamente. Sembra che chiamando «insieme» folla e discepoli, Gesù voglia dire agli uni e agli altri, in misura diversa, di essere fuori strada. Egli indica la «sua» via obbligatoria per chiunque vorrà seguirlo con sincerità: la via della croce, «il» solo metodo che porta alla «metànoia – conversione» definitiva; presumere di salvarsi significa perdersi, abbandonare la propria vita e darla come regalo d’amore significa ritrovarsi salvi, anche oltre la morte, oltre le apparenze: «dopo tre giorni» la risurrezione. Non c’è libertà più grande di chi regala la propria libertà a un altro, diventando «servo per amore» che è il punto di arrivo del vangelo. Il metodo della croce non significa la ricerca della sofferenza e del dolore in se stessi come strumenti essenziali della fede: essi sono già abbondantemente presenti nella vita di ogni giorno per aggiungerne altri di propria iniziativa. Dio è Padre e non vuole la sofferenza dei figli e non li castiga come un sadico; ma quando la sofferenza giunge inevitabile, egli da Padre è già lì, pronto ad accogliere, proteggere e curare. Dio ama i suoi figli e vuole che siano felici. Il metodo della croce è semplicemente l’applicazione fino in fondo del criterio della verità: essere se stessi sempre, senza mai barare, senza mai tradire, senza mai venire meno alla propria vocazione e al proprio progetto di vita che non può essere diverso da quello di Dio perché è lui che ci ha fatti a sua immagine. Vivere alla luce della croce significa cercare la profondità della propria coscienza e offrila a Dio come dono gratuito. Anche se ci sentiamo indegni, inadatti e peccatori, dobbiamo non dimenticare mai che è con questo materiale pregiato che Dio costruisce il Regno suo (1Cor 1,27-29). Prendere la croce significa riconoscere che Gesù è il Figlio di Dio, il «Signore» della nostra vita e della nostra libertà, che ci chiama ad essere figli; significa volerlo imitare nel suo rapporto con il Padre e nelle sue relazioni con le persone; significa considerare la propria vita non come fine assoluto, ma come campo dove noi insieme con Dio possiamo combattere la battaglia dell’amore che sul trono regale della croce trova il suo esito e il suo senso.
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