top of page
Cerca
Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 25ª TEMPO ORDINARIO

Mensa della Parola: Sap 2,17-20; Sal 54/53,3-4.5.6.8; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

 

Da prospettive diverse, Mc e Mt descrivono le relazioni all’interno della comunità credente che non è un’assemblea d’interessi economici o politici o sociali e nemmeno una riunione di individui omogenei appartenenti a «gruppi corporativi». La comunità ha una sola caratteristica: è la «convocazione» dello Spirito Santo che riunisce i «singoli» attorno al Cristo; essi, tutti insieme, lo riconoscono come loro Signore, creatore e redentore. È lui il fondamento, è lui la ragione (il Lògos), è lui la prospettiva e la speranza. L’adesione al Signore, che si esprime nella celebrazione eucaristica, coinvolge la vita, la storia, il lavoro, le scelte e i beni.

Nota ecclesiologica

La Chiesa è comunità viva e condivisa, un «sacramento» gettato nel mondo perché porti frutti di testimonianza, facendosi carico dei pesi dell’umanità (Fil 2,2) per avere la materia prima al fine di poter «spezzare il pane e bere il calice» condiviso con il Signore Gesù e i poveri del mondo che ci ha lasciato come eredità privilegiata (Mc 14,7; Mt 26,11; Lc 15,31; Gv 12,8).

Alla comunità ecclesiale non si possono applicare i criteri dei raggruppamenti sociologici perché essa si fonda sul principio della «comunione nella verità» perché non persegue interessi di parte o, peggio, privati o individuali: dopo ampia discussione e disinteressata valutazione, può prevalere il parere della minoranza o di una singola persona, se appare più consono al criterio e allo spirito evangelico. Una comunità cristiana si fonda sul criterio del discernimento per scoprire la densità dello Spirito in essa presente, non di come manipolarla per servirsene. La 1a lettura riflette le difficoltà della testimonianza in un mondo ostile come poteva essere Alessandria d’Egitto (cultura greca) nel sec. I a.C., che l’ebreo Plotìno (203/205-270) cercò di integrare con la «sapienza» ebraica, attraverso la filosofia di Platòne (428/427-348/347 a.C.). Ogni generazione deve «incarnare» nel proprio tempo e con proprio linguaggio il «Lògos» per poterlo comprendere e «dirlo» nelle categorie culturali proprie, sapendo chi vogliamo essere per capire chi siamo. La tradizione è un giardino da coltivare. Pensiamo ai cristiani che in alcuni Paesi musulmani hanno difficoltà non solo a testimoniare la loro fede, ma anche a celebrare l’Eucaristia. È sufficiente possedere un piccolo crocifisso, anche ornamentale, o possedere un po’ di vino, necessario per l’Eucaristia, per morire di morte violenta. Ovunque la Chiesa cattolica è minoranza, chiede il rispetto dei diritti naturali e in primo luogo il diritto della «libertà di coscienza» che si compie appieno nel diritto alla libertà religiosa sia in ambito privato sia in quello pubblico. In forza della «regola d’oro» del vangelo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti» (Mt 7,12), non si tratta di «tolleranza», ma di accoglienza dell’altro in quanto altro e di riconoscimento dei diritti altri come essenziali alla propria sopravvivenza. L’autore della lettera di Giacomo ci dice che la fede è una questione d’interiorità e ciò che appare e viviamo all’esterno è solo il sintomo conseguente della nostra vita interiore. La fede non è una mano di vernice per apparire; al contrario, essa è il fondamento della pace che genera la giustizia e sconfigge le guerre. Da secoli l’occidente semina guerre e violenze, attraverso il fiorente mercato delle armi, per «interposto Paese», fuori dai propri confini, scottato dalle due guerre mondiali, combattute sul proprio territorio. Le transumanze di popoli,che proseguiranno per almeno un secolo, prima di stabilizzarsi in una integrazione inevitabile, sono la conseguenza diretta delle guerre esportate o delle ingiustizie perpetrate sulla terra altrui (furto di materie prime, politiche di sopruso, concorrenza sleale, mercato manomesso, colonialismo di ritorno, ecc.).

Vogliamo un mondo di pace, senza guerre? Ecco la ricetta in due punti:

1. Combattere le passioni che popolano il proprio cuore, perché ogni individuo è responsabile del «bene comune» del proprio popolo. Le guerre non sono forse strumenti di dominio economico? Si fa la guerra per avere più petrolio, più materie prime e quindi più energia e quindi più ricchezza e quindi più spreco: che importa se il prezzo del nostro benessere lo pagano i poveri, i deboli, gli affamati e i bambini? Dice Giacomo: «Bramate e non riuscite a possedere e uccidete» (Gc 4,2). Il possesso delle materie prime, dell’acqua, dell’aria, dei minerali e metalli pregiati, sono oggi motivi di sfruttamento, di guerra e di morte. Il possesso degli strumenti della comunicazione, come la telefonia e le tv, sono motivi sufficienti per ricattare un intero Paese e anche uccidere. Non c’è futuro su questa strada e, infatti, tutti sappiamo che stiamo camminando velocemente verso la nostra auto-distruzione. Dicevano gli antichi che Dio, confonde e fa impazzire coloro che vuole perdere.

2. Smettere di vendere armi a Paesi, bande, gruppi d’interesse in Africa, in Asia, a oriente e al sud del mondo, prede della corruzione istituzionalizzata. Le armi sono un mercato molto redditizio e per sua natura è «indiscriminato», vende cioè armi a chi paga di più senza tenere conto delle conseguenze.

Nel vangelo, Gesù continua a ispirarsi al profeta Isaia: l’espressione «essere consegnato» (Mc 9,31; Is 53,6.12) appartiene al vocabolario del 4° carme del Servo di Yahwèh (Is 52,13-53,12). Sullo sfondo c’è anche il profeta Geremia che ritroviamo nell’espressione «nelle mani degli uomini» (Mc 9,31; Ger 33,24). Gesù si confronta con i due perseguitati più illustri dell’AT per dirci che la sua via non sarà affatto diversa dalla loro. Cristo si presenta come Servo sofferente e i Discepoli discutono di carriera. Per entrare nel regno di Dio bisogna essere splendenti della nudità di un bambino che si abbandona, preoccupandosi solo di ciò che è essenziale: essere amato ed essere sfamato. La misura del regno di Gesù è la disponibilità di un bimbo. Tutto il resto viene dal maligno. Lo Spirito Santo ci introduca in questo mistero di verità.

I primi cristiani hanno identificato Gesù con il Servo di Yahwèh di Isaia, imprimendo così una svolta nella concezione messianica della tradizione giudaica. Spesso noi ci facciamo un’immagine di Dio e vogliamo piegare la Scrittura al nostro modo di vedere. Il motivo per cui noi partecipiamo all’Eucaristia è principalmente per metterci in ascolto di Dio che ci educa allo Spirito del Figlio che di norma è opposto allo spirito del mondo. L’Eucaristia è una scuola per imparare a purificare il nostro pensiero e i nostri sentimenti, a verificare i criteri su cui si basa la nostra vita, a semplificare i metodi di relazione. Siamo davanti al Servo che si mette nelle mani degli uomini e offre la sua vita senza chiedere in cambio nulla. Muore per far vivere gli altri. Questo è il senso della Parola che ascoltiamo e del Pane che mangiamo; celebriamo in comunione con il mondo intero. Non ci resta che lasciarci sedurre dallo Spirito del Servo di Yahwèh e come un bambino abbandonarci all’amore a perdere di Dio senza nulla chiedere perché sappiamo che Dio è più grande di noi (1Gv 3,20). Vogliamo abbandonarci al suo amore e lasciarci modellare da esso come la creta nelle mani di un vasaio (Sir 33,13; Ger 18,3-4).

Esame di coscienza

Signore, ti sei fatto servo di tutti perché ciascuno di noi diventasse figlio. Kyrie, elèison!

Cristo, ci hai dato quale misura di vita un bambino che vive di dipendenza d’amore. Christe, elèison!

Signore, ti sei dato nelle mani degli uomini per riscattare ogni perversione di possesso. Kyrie, elèison!

Cristo, che della croce hai fatto il tribunale della misericordia e del perdono. Christe, elèison!

Dio, Signore e Padre, che ha inviato il suo Servo Gesù a purificare i cuori e le menti degli uomini di tutti i tempi, ci liberi da ogni bramosia di potere e di gelosia, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti per la riflessione e la preghiera

Pietro, dopo averlo riconosciuto come Messia/Cristo, secondo le aspettative dell’opinione corrente, aveva cercato di distoglierlo dalle conseguenze della missione: la solitudine e la morte violenta. Pietro aveva dimostrato di avere un’idea sua del Messia e di essere incapace di aprirsi al «pensiero di Dio». Da ciò abbiamo imparato che il cammino di fede non è il perfezionamento di ciò che pensiamo o diciamo di credere, ma un capovolgimento radicale del modo di pensare e dei criteri annessi di scelta; non è neppure un confronto di opinioni. Credere è lasciarsi educare per vedere il mondo e la sua storia con gli occhi di Dio. È un cammino lento che solo l’assiduità alla Parola di Dio porta fino in fondo perché la Parola ha la potenza di purificare e trasformare. Nel brano del vangelo di oggi, ci troviamo in Galilea, la regione a nord della Palestina, dove Gesù risiede con la sua famiglia e il parentado. Da qui parte per visitare i villaggi circostanti e fuori confine perché la Galilea confina con il Libano. Gesù predilige questa zona periferica dal centro di potere della Palestina perché ha il vantaggio di non dare nell’occhio all’autorità romana e dal Sinedrio, che vivono a sud, in Giudea, e da cui cerca di tenersi alla larga. Durante il viaggio, descritto nel brano di oggi, egli impartisce agli apostoli l’ultima istruzione prima di morire. È necessario legare insieme il vangelo odierno con quello di domenica scorsa, se vogliamo coglierne la portata e la profondità. Tre sono i temi che si possono evidenziare: a) L’incredulità degli apostoli. b) La loro voglia di carriera nel nuovo regno. c) Il modello di vita proposto da Gesù sulla misura del bambino.

Gli apostoli si limitano a riferire le opinioni della folla, ma non trasudano entusiasmo nell’esprimere la loro convinzione. In fondo sono molto più vicini alla folla che non a Gesù. Non capiscono perché il Messia debba soffrire. Secondo la tradizione ebraica, il Messia sarebbe stato preceduto dal profeta Elia che come precursore avrebbe dovuto preparare l’arrivo del Messia, al quale non sarebbe rimasto altro da fare che salire sul trono glorioso e governare Israele (Mc 9,9-13). Quale posto e quale senso ha la sofferenza in tutto questo? Dal loro punto di vista gli apostoli sono logici, il loro limite è non essere in grado di accostarsi a una conoscenza più profonda della vita del Messia. Gli apostoli avevano gli strumenti per capire la novità e rivedere la loro idea di Messia. Ogni volta, infatti, che Gesù ha parlato della suapassione l’ha sempre fatto ricorrendo alle Scritture, assumendone il vocabolario e fornendo agli apostoli e ai cristiani di tutti i tempi il criterio fondamentale per conoscere i pensieri di Dio e uniformarvisi. Durante la formazione degli apostoli, Gesù per tre volte parla loro della sua passione e morte violenta:

1° annuncio

Mc 8,31

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffriremolto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.

2° annuncio

Mc 9,31

Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».

3° annuncio

Mc 10,33-34

«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34 lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».

Questi tre annunci sono una miniera di citazioni che i primi cristiani coglievano immediatamente, mentre noi oggi abbiamo smarrito la familiarità con la Scrittura. Tutti questi testi che Gesù aveva loro citato non sono bastati a fare capire agli apostoli che il Messia «doveva» essere nella linea del Servo Sofferente e di Geremia. Accettando questo mandato, Gesù fa una scelta radicale: egli sceglie il metodo della non-violenza come criterio costante della sua vita di uomo e della sua natura di Dio. Gesù subisce la violenza piuttosto che darla, accetta la morte piuttosto che infliggerla, diventa «uomo dei dolori» piuttosto che far soffrire gli altri. È il metodo di Dio che si lascia inchiodare sulla croce, si abbandona nelle mani degli uomini, ma non si difende mai con la violenza. Questo tema è di grande attualità oggi nel rapporto tra Islam e Cristianesimo. L’Islam accetta Gesù come profeta che definisce come «messaggero di Dio» o come «Cristo, Gesù figlio di Maria» o anche «Parola di Dio», ma non può accettare la sua divinità, perché non può immaginare l’idea stessa di un Dio che soffre nelle mani dell’uomo: un «dio» in balìa della volontà degli uomini è una bestemmia per chi afferma l’assoluta lontananza di Dio dal mondo umano. La Scrittura non è bastata. Non è sufficiente conoscere «materialmente» la Scrittura per capire «il comandamento» di Dio che essa rivela. Tutte le persone che hanno rifiutato Gesù erano persone religiose, cresciute in ambiente religioso e con buon livello di conoscenza della Scrittura (farisei, scribi, dottori della Toràh e persone semplici del popolo, ecc.). Non si crede per coerenza di dna, ma unicamente per una «seduzione» cui si cede con la volontà, la libertà e tutta la propria dignità: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7). Solo chi ama sa compiere atti e fare scelte che in altri contesti «normali» apparirebbero lesivi della dignità personale.

Il secondo tema che il vangelo ci offre è la maledizione del «carrierismo». Gli apostoli intravedono la possibilità di un regno imminente e si preoccupano di riservarsi uno strapuntino comodo con posti di ministri e consiglieri del Messia: «Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mt 9,34). Il problema è serio perché ritorna anche più avanti e Gesù deve fare una vera e propria lezione sulla «autorità» (Mc 10,35-45). In Mt è la madre che viene direttamente da Gesù a chiedere di sistemare i figli in «un posto fisso» nel Regno:(Mt 20,20-21). L’occasione è propizia per Gesù che spiega le condizioni per fare parte del suo regno: non solo il Messia dovrà attraversare il tunnel della sofferenza e della morte, come qualsiasi altro essere umano, ma anche coloro che vorranno diventare suoi discepoli, non potranno esimersi dalla stessa esperienza. Credere non è una garanzia di sicurezza sul versante della vita e della morte, ma è la capacità per grazia di dare senso a ciò che potrebbe non averlo e affrontare le situazioni dell’esistenza dal punto di vista della resurrezione. Nella Chiesa non può esservi posto per il carrierismo che è il peccato più grave che una persona votata al vangelo possa commettere; ma vi deve essere spazio solo per i «servitori/diaconi», coloro cioè che hanno talmente regalato la loro vita da non poterne più disporre. Il terzo momento del vangelo, che è anche un criterio di accesso al regno, è la figura del bambino preso da Gesù come modello e misura.

Bisogna subito fugare il pensiero che il Cristianesimo sia una religione infantile o un momento necessario e transitorio nello sviluppo della vita dell’uomo, ma inutile nella dimensione adulta. Lo vediamo sotto i nostri occhi con il «modello» di catechismo che viene impartito nelle parrocchie. Esso è strutturato non in funzione della formazione della persona, ma a servizio esclusivo della 1a Comunione e della Cresima. Una volta ricevuta la prima e a volte anche l’ultima comunione, si diventa «adulti» e come gli adulti si smette la frequenza e la formazione. Il modello del bambino è significativo per diversi motivi: il bambino in quanto tale nella società ebraica è una nullità, non ha nemmeno esistenza giuridica; egli è proprietà di qualcuno fino alla maggiore età; in secondo luogo il bambino per vivere e sopravvivere deve dipendere da qualcuno, non è autonomo. In questo contesto per fare parte del regno di Dio, le condizioni sono:

- Mc 9,35: bisogna farsi «servitore» di tutti: «Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”». Gesù si siede, cioè assume la postura del maestro autorevole e l’evangelista vuole sottolineare che ciò che dice agli apostoli è fondamentale. È un insegnamento stabile, valido per sempre.

- Mc 9,37: bisogna stare dalla parte dei disprezzati: «E, preso un bambino, lo pose in mezzo e, abbracciàndoselo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Stare dalla parte del bambino significa contestare la struttura sociale del tempo e mettersi contro il potere costituito perché schierarsi dalla parte degli ultimi è sempre una contestazione del potere che fa sempre gli interessi dei forti.

- Mc 9,42: La terza condizione è riservata ai capi, cioè ai responsabili, per stare nel regno: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare». I piccoli sono i credenti la cui fede potrebbe vacillare a causa di discussioni troppo astratte riservate agli specialisti (Rm 14,1- 15.18).

In conclusione, «essere come bambini» significa vivere nella semplicità delle relazioni, nella disponibilità dell’incontro, aperti alle novità come solo i bambini sanno fare, ma principalmente essere liberi da ogni prevenzione e preconcetto perché ciò che conta per il bambino è vivere e vivere insieme con gli altri. Se si accetta il modello del bambino, si sarà disprezzati nella società e nel mondo e questo disprezzo sarà il modo per accompagnare Gesù nella sua salita a Gerusalemme dove il disprezzo si tramuterà in dolore e morte (cf Mc 9,30-32).

Ancora una volta ciò che la liturgia propone è la revisione del nostro modo di pensare e di essere, sottoponendoci a un processo di conversione per vivere e pensare secondo i criteri di Dio, espressi nel vangelo e non secondo le categorie della logica mondana che spesso si annida e travolge anche, anzi specialmente, le persone di chiesa e i loro sistemi di riferimento come valori, religione, carrierismo e morale opportunista. La Gerusalemme celeste, descritta da Ap 21, ora ne siamo certi, sarà una città a misura di bambini.

 

4 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page