Mensa della Parola: Nm 11,25-29; Sal 19/18,8.10.12-13.14; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48
Continua la catechesi sulle condizioni di accesso al regno di Gesù che «non è di questo mondo» (Gv 18,36) e con la folla e gli apostoli siamo invitati anche noi a convertire il nostro pensiero a quello di Dio «perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore» (Is 55,8). Diamo per scontato di essere credenti e siamo indotti a identificare le nostre immaginazioni di Dio con l’idea che ci siamo fatti di lui. Spesso agiamo come se Dio fosse sempre a nostra disposizione e forse siamo convinti di esserne i proprietari e gli unici rappresentanti e portavoce. La conversione come «metànoia» o capovolgimento di pensiero e dei criteri di valutazione, prima di essere un «invito» agli altri, è un imperativo per noi, in forza del principio che nessuno può dare quello che non ha/non è.
Due sono i temi fondamentali che la liturgia ci propone: l’eterno conflitto tra istituzione e profezia (1a lettura e vangelo) e la condanna irrevocabile nei confronti dei ricchi, coloro cioè che del denaro fanno il loro dio a danno dei poveri e degli operai (2a lettura). Se san Giacomo vivesse oggi, parlerebbe senza peli sulla lingua di mercato, di speculazioni finanziarie, di economia globale di Stock-option (sono strumenti di incentivazione che vengono solitamente concessi al top management e ai membri del consiglio di amministrazione di un’azienda oppure a dipendenti) e del cuore del capitalismo senz’anima. Avrebbe parole di fuoco senza riserve contro le «strutture di peccato», che in quanto «espressione ed effetto dei peccati personali, inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male… esse costituiscono un “peccato sociale”».
Il linguaggio dell’autore della lettera di Giacomo è simile a quello dei profeti dell’AT (Am 6,1-7; Is 1,1-10) e identico a quello che usa Gesù nell’enunciazione delle beatitudini, specialmente nella versione di Luca. Nessuno diventa ricco di propria iniziativa o capacità: la ricchezza che supera la normale decenza, cioè il logico rapporto tra lavoro e guadagno «onesto», è sempre frutto di peccato, di sopruso, di furto, d’illegalità, di frode e di delinquenza. Il mondo di oggi è squilibrato perché le ricchezze della terra che Dio ha dato a tutti gli esseri viventi sono depredate e dilapidate da chi ha mezzi e potere, a loro volta conquistati con la complicità del malaffare, l’inquinamento del mercato e la corruzione delle regole di convivenza. Chi vive con onestà può essere onestamente sereno e onestamente guardare al futuro proprio e dei propri figli. La vera questione è la «giusta» distribuzione della ricchezza: c’è chi, infatti, in un anno, prende il corrispondente Pil di alcuni Stati africani, sebbene questi siano ricchi di materie prime. Eppure, pur essendo ricchi, sono endemicamente schiacciati dalla miseria perché depredati sistematicamente dalle multinazionali o dal sistema (anche politico) finanziario mondiale; le multinazionali sono alla ricerca perenne di materiali pregiati. Ci sono amministratori delegati che «guadagnano» 511 volte il salario dei propri operai. È una bestemmia al creato, un insulto alla civiltà antropologica e giuridica e anche a Dio, un’offesa all’umanità, calpestata e derisa. Nel mondo della ricchezza iniqua, succede questo e molto altro ancora (Lc 16,13; Mt 6,24).
Un sistema per arricchirsi velocemente, ai tempi di Gesù, consisteva nel non consegnare la paga quotidiana concordata con gli operai (Gc 5,4), ma di rimandarla di qualche giorno. Questo sistema moltiplicato per tutto l’anno permetteva di accumulare ingenti sostanze. Gesù dice solo che è un furto e un peccato. Un altro modo era il latifondo agricolo che tutte le sue perversità (Mt 21,33-46). Simili comportamenti sono condannati dalla Toràh (Lv 19,13; Dt 24,15), dai Profeti (Ml 3,5; Am 8,4-7) e dagli Scritti (Sir 31,4; 34,21-27), cioè da tutta la Scrittura, secondo la ripartizione ebraica. Il denaro è antitetico a Dio, quando non è un mero strumento di transazione per la vita. Non si può essere ricchi e credere in Dio: sarebbe lo stesso che fare coesistere il ghiaccio e il fuoco o credere che l’acqua possa scorrere dal basso verso l’alto. Una sola via hanno i ricchi per accedere al regno: affittarsi un cammello e ogni mattina fare la prova se entrano nella cruna dell’ago come impone il vangelo: finché il cammello non passa, per loro non c’è speranza. In tutto questo c’è un’aggravante ulteriore: i ricchi cercano non la Chiesa, ma il personale che conta, la gerarchia disponibile, e tra questa, chi esercita il potere, specie se spregiudicatamente; i ricchi fanno beneficenza offrono laute somme al tempio e agli addetti, dando solo le briciole del loro superfluo (Mt 21,1-4), in cambio della pubblicità a loro vantaggio, della benedizione pubblica, della presenza solidale o del silenzio: della connivenza dell’ambiente ecclesiastico.
Riflettiamo sulle figure dei due fratelli, Mosè, il profeta e Aronne il sacerdote.
È inevitabile che nel tempo della storia, la comunità cristiana viva la tensione tra istituzione e profezia, tra sacerdozio e carisma. L’esperienza dell’esodo ci insegna che il sacerdote, come Aronne, se non è capace di alzare gli occhi dal culto e dai riti, rischia di portare il suo popolo all’apostasia, mentre il profeta, come Mosè, immerso nell’alleanza e quindi nella relazione, vive da strabico: un occhio a Dio e un occhio al suo popolo per salvare e rinsaldare, sempre, nonostante tutti i tentativi di rottura, l’alleanza del Sinai (Es 32,1-6.30-35). In ebraico profeta è nabî, che significa chiamare. Dal punto di vista semantico, quindi, il profeta è il chiamato, colui che riceve una vocazione, finalizzata a:
- Stare davanti a Dio perché ne ascolta e riceve la Parola e la missione.
- Identificarsi con la Parola ascoltata e ricevuta perché davanti a terzi ne diventa il garante con la sua stessa vita.
- Essere messaggero al popolo, perché parla in nome di Dio.
- Rappresentare il popolo davanti a Dio perché intercede e parla a lui in nome del popolo.
- Parlare in nome di Dio.
Il profeta è una persona chiamata da Dio per una missione. Il posto del profeta è «essere tra ...» Dio e il popolo; cioè stare in mezzo. Egli è un uomo «strabico», inserito profondamente nella storia e nella realtà del suo tempo di cui vive la cultura e le contraddizioni, annunziando una parola non sua per aiutare gli uomini a comprendere la profondità della realtà, lo spessore degli avvenimenti alla luce della Alleanza e delle sue esigenze. Egli è l’uomo della fede che richiama alla fedeltà degli impegni assunti dal popolo e annuncia la fedeltà di Dio. Non annuncia direttamente il futuro, ma invita a leggere l’oggi di Dio e a viverlo intensamente (Lc 4,21). La figura emblematica di profeta è Mosè, dichiarato il più grande dei profeti (Dt 34,10). La Bibbia contrappone la sua figura a quella del fratello Aronne, sacerdote, che, fermo alla religione del dovere, arriva a corrompere il popolo, costruendo per lui il vitello d’oro (Es 32,1-6). Al contrario Mosè, il profeta, che guarda alla fede, cioè al rapporto di relazione responsabile e alla qualità etica delle scelte, non esita a spezzare le tavole di pietra contro il vitello, finzione religiosa, e a richiamare il popolo alle esigenze dell’alleanza (Es 32,19-32). Il profeta «sta davanti» anche a Dio che vuole distruggere il popolo (Es 32,10). Mosè s’interpone e si oppone all’intenzione di Dio, di cui solletica l’orgoglio per riportarlo di nuovo a miti consigli (Es 32,11-13). Solo la duplice fedeltà del profeta e non l’accondiscendenza del sacerdote, raggiungono l’obiettivo: «Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (Es 32,14).
La 1a lettura e il Vangelo hanno un messaggio evidente: descrivono la tensione permanente tra istituzione e carisma, tra struttura e profezia, tra prudenza e coraggio. Qualsiasi tentativo di tornare al passato, è una grave mancanza di fede. Come se lo Spirito di Dio avesse perso l’alito restando muto per i secoli futuri; questa è mancanza di fede in Dio Provvidenza, che guida la Chiesa, il tempo e la storia, perché il Dio di Gesù Cristo è un Dio incarnato (Gv 1,14) che parla in ogni tempo e in tutti i tempicon il linguaggio e i segni dei singoli tempi. Supplichiamo lo Spirito Santo perché non privi mai la sua Chiesa del dono della profezia e del senso dell’Incarnazione del Signore Gesù. È inevitabile che, nel tempo della storia, la comunità cristiana viva la tensione tra istituzione e profezia, tra sacerdozio e carisma.
Oggi vogliamo purificare il nostro cuore per imparare le coordinate a vivere da figlie e figli liberi, autentici e veri testimoni. Il cammino dei profeti è faticoso e spesso contrastato da chi ha altri interessi diversi dal Regno di Dio. Noi oggi vogliamo stare in fondo al tempio come il pubblicano della parabola lucana (Lc 18,13) e chiedere perdono per le nostre incoerenze, per le nostre inautenticità. Se abbiamo cercato alleanze di comodo o d’interesse, se abbiamo preferito la protezione dell’istituzione alla scomodità della profezia, chiediamo perdono, ma anche la verità della nostra anima per essere sempre e dovunque profeti dell’Altissimo (Lc 1,76).
Esame di coscienza
Signore, quando siamo gelosi dei doni che tu concedi agli altri, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison.
Cristo, quando non ti imitiamo nel tuo ministero di servire, abbi pietà di noi. Christe, elèison.
Signore, quando non riconosciamo agli altri la fatica del lavoro, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison.
Cristo, che ti sei fatto garante della dignità di tutti i poveri, abbi pietà di noi. Christe, elèison.
Dio, Signore e Padre, che ha mandato lo Spirito oltre i confini stabiliti dalla Legge e ha chiamato alla mensa della Sapienza coloro che la Legge e il ritualismo avevano escluso, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Il contesto di riferimento sono le condizioni di accesso al regno annunciato da Gesù Messia sofferente.
1. La prima condizione è l’ospitalità nei confronti degli inviati: qui sono i discepoli (Mc 9,41) che si presentano in «nome di Gesù». Mt invece li chiama «piccoli» (Mt 10,42), dando così al termine un valore spirituale, oltre la sociologia sulla stessa linea della prima beatitudine: «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3).
2. La seconda condizione è evitare lo scandalo dei piccoli cioè di quei credenti poco addentro alle casistiche della religione e della dottrina (Mc 9,42): con essi bisogna essere comprensivi senza addossare pesi su pesi magari gli stessi che gli addetti alla dottrina e ai princìpi non sono in grado di portare (Lc 11,46).
3. La terza condizione d’ingresso nel regno, è l’opposto della precedente, ma in direzione di sé stessi: bisogna essere rigorosi con sé e le proprie debolezze morali (Mc 9,38-40), ma docili e misericordiosi con gli altri. Con questa affermazione ritorniamo alla prima parte del vangelo di oggi che affronta il tema della profezia e dell’istituzione.
Al profeta importa la vita, allo specialista del sacro la dottrina e la morale fisse in sé stesse. Nessun moralista avrebbe accolto l’adultera con la tenerezza con cui l’accolse Gesù (Gv 8,3.11). Quando il sacro prende il sopravvento sul sacramento, cioè sulla dinamica dell’incontro tra l’uomo e Dio, si snaturano i contenuti della fede che diventa religione o peggio ateismo ammantato di gesti religiosi. Se il sacerdote non è anche profeta corre il rischio di prostituirsi e di fare prostituire il suo popolo. La fede, nascendo da un incontro tra due persone che si comunicano il cuore, è movimento, tensione, passione, apertura, rischio, voglia di nuovo. È superfluo dire che viviamo un tempo in cui le istituzioni profane e religiose sono in crisi profonda perché non vi è mai stato «un tempo» che non abbia vissuto e sperimentato una crisi. Un esempio chiaro è la mancanza di vocazioni religiose. Secondo la visione della religione «sacrale», essa è segno di mancanza di fede, frutto della secolarizzazione e del materialismo relativista che oscura i «valori religiosi»; secondo la visione profetica è «un segno dei tempi» con cui, forse, Dio vuole parlare e invitare a modificare strutture e natura della «religione» per passare ad una dimensione di fede.
Dio non si cerca più nella sicurezza delle istituzioni, ma nell’avvenimento e nella storia, nella relazione e nella vita. L’uomo scopre che Dio è creatore, provvidenza e paternità: nessuno può mettere più le mani su Dio perché egli si manifesta come imprevedibile, che cerca l’adesione del cuore. Il Dio d’Israele è un Dio in cammino. Il messaggio dei profeti in Israele è solo questo: Dio è libero e come ha scelto Israele così può anche ripudiarlo.
Se da un lato vi è l’esperienza del Sìnai dove si consuma l’alleanza nuziale sancita con la Toràh, dall’altro vi è la tragicità dell’esilio e della diaspora, dove Dio è presente nel suo silenzio e nel mutismo della profezia. Il processo di desacralizzazione delle istituzioni che vengono riportate nell’alveo della fatica umana si deforma, quando Israele nel prendere coscienza di essere il popolo eletto, si chiude in sé, ghettizzando il mondo esterno e rendendosi impenetrabile. Egli si istituzionalizza a sua volta e la categoria di «popolo di Dio» diventa una formula di esclusione e uno strumento di difesa dei privilegi acquisiti, diventando prigioniero di quella stessa Toràh che avrebbe dovuto liberarlo da sé e guidarlo nella missione verso il mondo (Gal 3,24-25).
Gesù nella sua breve esperienza terrena si muove liberamente tra le istituzioni del suo tempo, le accetta, le contesta, vi si oppone, le vive senza mai diventarne schiavo. Ufficialmente Gesù è un «laico» e come tale non solo difende le sue prerogative32, ma vive la responsabilità della trasparenza della massima istituzione israelita che era il tempio e in esso il sacerdozio, scacciando i mercanti che avevano trasformato la «casa di preghiera» di Dio in un mercato immondo (Mc 11,15-18). Lo shabàt/Sabato, al tempo di Gesù, era considerato come la «grande istituzione divina» risalente addirittura al Dio creatore e consegnato ad Àdam: esso identifica Dio stesso per cui era equiparato alla Persona stessa del creatore. Gesù mentre lo osservava lo dominava e lo dichiarava sottomesso alla dignità della persona perché «il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Da pio Ebreo, egli osservava con scrupolo la Toràh: indossava il velo sul capo (tallìt), portava sulla fronte e sul petto le scatolette con i versetti della Scrittura (tefillìm), portava addosso le frange attorno alla vita (tzitziòth) per ricordarsi l’osservanza dei precetti e sullo stipite della sua casa ogni volta che entrava e usciva, toccava, baciandola, la teca di legno contenente alcuni versetti della Scrittura (mezuzàh) per ricordarsi della Shekinàh/Dimora/Presenza di Dio (Dt 6,4-9). Nello stesso tempo, Gesù non esitò a violareil precetto per rispondere alle necessità dei poveri (Lc 13,10-14) e ad annullare tutta la precettistica della tradizione, condensandola nel comandamento dell’amore (Mt 22,40). Ogni persona per Gesù è sempre stata prima di ogni principio dottrinale o morale.
Gesù poté fare questo e può continuare a farlo anche oggi in mezzo a noi, perché afferma la trascendenza di Dio e la libertà del suo Spirito che «soffia dove vuole» (Gv 3,8) senza legarsi ad alcuna istituzione. Probabilmente Gesù nel brano del vangelo di oggi si ispira alla 1a lettura: due membri del popolo, già designati, pur essendo fuori del recinto sacro, profetizzano allo stesso modo di coloro che sono «dentro», sconvolgendo gli schemi dei professionisti della religione. Lo spirito profetico che agisce in Eldàd e Medàd che si trovano in spazio «profano», abolisce ogni distinzione tra sacro e profano perché Dio non è appannaggio di professionisti. Dio non parla solo attraverso le strutture preposte alla gestione del «sacro», egli agisce anche attraverso uno che non era dei nostri (Mc 9,38). Tutte le istituzioni sono opera dell’uomo e devono costantemente essere rinnovate o abbandonate, in costante confronto con il comandamento di Dio che arriva dalla Parola e dalla Storia, le uniche due coordinate che possono interpretare la fede. Dio non è mai «qua», ma è sempre «oltre» le convenienze, le opportunità, le sacralità, l’ovvio e l’abituale. Egli è sempre nuovo perché è la vita e non si attarda mai su ieri che è passato e come Presenza/Dimora-Shekinàh riempie l’«oggi» della prospettiva del «domani» e del futuro.
Quando Gesù recluta i primi discepoli li sceglie tra gli Ebrei e tutti i primi convertiti sono Giudei fedeli alla Toràh di Mosè. Dopo Gesù, nasce un conflitto tra la scuola di Paolo aperta al mondo esterno e quella di Giacomo chiusa nella rigidità della tradizione. Anche se con fatica immensa, prevale la prospettiva di Paolo e in conseguenza nascono nuove istituzioni diverse da quelle giudaiche: nasce la chiesa greca che nel suo patrimonio storico e culturale non ha nulla del Giudaismo e della tradizione. I pagani entrano nel nuovo recinto e sono accolti come figli di Dio senza imporre pesi diversi da quelli essenziali: confessare Cristo Signore, vivere il convito eucaristico come esperienza privilegiata del «mistero del risorto», riconoscere il ministero dei Dodici.
La Chiesa ha mutato volto e anche contenuti molte volte lungo il corso dei secoli, in un cammino lento e faticoso e spesso drammatico e traumatico., vivendo anche periodi e momenti in cui più che proclamare la signoria di Gesù l’ha negata con le sue scelte e le sue azioni, come le torture, la violenza, le guerre, i roghi e l’immoralità diffusa. L’istituzione fine a se stessa è uno strumento che conduce alla morte e all’oppressione. Molti nella Chiesa hanno sofferto ingiustamente, molti sono stati perseguitati, emarginati, distrutti nell’onore e nella dignità, salvo in qualche caso essere riabilitati dopo morte. In una istituzione morente e smarrita di fronte a un mondo nuovo che sorgeva dalle macerie della guerra, un vecchio Papa, Giovanni XXIII, decise di convocare un concilio ecumenico, cioè di riunire tutta la Chiesa, perché alla scuola dello Spirito imparasse di nuovo i criteri e il metodo dei «segni dei tempi». Non a caso la parola d’ordine del Papa e del concilio fu in quegli anni «aggiornamento».
La natura, il diritto e la fede esigono che ogni Chiesa possa esprimere se stessa nell’organizzazione, nella liturgia, nella teologia, nel modo di vestire e di essere. Se la gerarchia romana dell’epoca avesse colto «i segni dei tempi» interpretati dal gesuita Matteo Ricci (sec. XVI) e dei suoi successori, che in Cina cercavano una «via cinese» per il cristianesimo, forse oggi la Cina sarebbe cristiana, ma nella controversia sui riti cinesi prevalse Roma, che impose contenuti e forme «romane» compresi gli abiti liturgici stabiliti dal concilio di Trento. L’istituzione più intima che vi è nella Chiesa è la missione, cioè il portare il vangelo a ogni creatura fino agli estremi confini del mondo (At 1,8), e costituisce l’essenza stessa dell’esistenza della Chiesa. La missione oggi è in profonda crisi perché ha difficoltà a confrontarsi con la modernità, la libertà di coscienza e i costumi diversificati, a causa dell’uniformità in cui per secoli è stata formata e cresciuta. È una crisi salutare perché oggi la Chiesa ha sempre una Parola non sua da dire e può rendere un servizio autentico alla verità dell’uomo moderno che ha bisogno di salvezza come i suoi antenati. Cristo è ieri, oggi e domani (Eb 13,8). Per questo è necessario uscire dall’ambiguità delle strutture che alimentano se stesse e nascondono il vero volto della Chiesa che può acquisirlo solo se si purifica e lascia cadere tutte le sovrastrutture che ha accumulato nei secoli e che ne hanno, in parte, deformato la natura.
L’Eucaristia, in questo contesto, è l’istituzione chiave che assume la profezia come propria natura, impegnandosi a insegnare il metodo della ripresa della missione, offrendo misura e senso a tutte le altre istituzioni provvisorie. Essa è un raduno di persone e non una massa di gente indistinta; i credenti ascoltano la Parola e la partecipano nella vita; profetizzano e confessano la loro fede che risplende nella loro vita segnata dalla fraternità; chi presiede l’Eucaristia è il servo che lava i piedi e non il padrone che comanda; la comunione al Corpo del Signore rende i partecipanti non uniformi nel vestire, ma uniti nello Spirito e nell’anelito della testimonianza.
L’Eucaristia impone la de-clericalizzazione dell’Eucaristia stessa perché possa risplendere nella sua luce di raduno universale di popolo di Dio in cammino con tutti i popoli della terra. I laici non sono i detentori della partecipazione ai riti in modo passivo e succube, al contrario sono un Popolo di sacerdoti, un popolo di re, un popolo di profeti e una nazione santa (1Pt 2,9) che ha l’obbligo e la responsabilità di annunciare l’alleanza del Dio di Gesù Cristo a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Il concilio ecumenico Vaticano II ha solo iniziato l’opera che deve essere ancora portata a compimento. Questo il nostro impegno nella Chiesa, la nostra fedeltà alla Chiesa, il nostro servizio al mondo; per questo lavoriamo perché avvenga il prossimo concilio generale per la Chiesa cattolica e il successivo concilio ecumenico per tutte le Chiese cristiane.
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