Mensa della Parola: Gn 2,18-24; Sal 128/127,1-2.3.4-5a.5b-6; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16 (lett. breve 10,2-12)
Nel formare gli apostoli Gesù ha un obiettivo: condurli a capire il disegno di Dio creatore. Credere è entrare in questo disegno e il cammino di fede è pulire lo sguardo per «vedere» la vita con gli occhi di Dio. La fede, infatti, non è altro che un cantiere dove si realizza la costruzione del progetto della vita nella collaborazione armonica tra il progettista (Dio) e il committente (noi). È un cantiere sempre attivo, dalla nascita alla morte e anche oltre la morte, per l’eternità. La fede deve essere sempre conquistata giorno dopo giorno, perché non è un’acquisizione una tantum, ma un lento e laborioso lavoro secondo la legge della crescita e della formazione. La religione ripete gesti e parole all’infinito in un contesto d’immobilità, spesso sfociante nel fondamentalismo; la fede, invece, è la ricerca del senso alla luce di un evento che «ha afferrato» la vita del credente. Questo evento ha un nome: Gesù Cristo che, nella morte e risurrezione, fa appello alla coscienza, al cuore e alla testa di chi si lascia sorprendere.
La 1a lettura e il vangelo affrontano il rapporto uomo-donna dal punto di vista della radicalità della relazione come è vissuta da Dio. L’annuncio sconcertante è il seguente: la relazione uomo-donna non è una relazione qualsiasi che dipende dalla volontà dell’individuo; essa è lo spazio privilegiato dove Dio esprime in pienezza l’alleanza con l’umanità e il progetto di tutta la storia. Questo è possibile solo nell’incontro di due libertà, quella di Dio e quella della persona, perché senza libertà non può esistere né vita, né fede, né alleanza. Tutto ciò s’intende con l’espressione: «il matrimonio è un sacramento», cioè la profezia dell’innamoramento esclusivo di Dio per ciascuno e per tutta l’umanità, verificabile storicamente nella relazione «di coppia». Gesù pone sullo stesso piano sia il comportamento dell’uomo sia quello della donna, riportando così alla verità originaria la parità strutturale della coppia: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,11-12; Es 20,14; Dt 5,18; Lv 18,22).
Nella 2a lettura, Gesù accetta di essere fatto inferiore agli angeli entrando così nella dinamica della sofferenza, del limite e della morte: svuota sé per dare consistenza agli altri. Ciò significa che Dio è dentro l’umanità veramente; lo è in modo così reale che l’umanità stessa diventa la cifra di riconoscimento della divinità. Gesù con la sua esperienza pone un criterio nuovo, imprevedibile e sconosciuto a tutte le religioni esistenti, per fare esperienza di Dio: chi vuole incontrare Dio non deve più scalare il cielo proibito degli dèi, ma deve immergersi nella storia, nel cuore dell’umanità. Per trovare Dio, l’uomo non deve più emigrare da sé e dal suo mondo, ma deve sperimentare la propria umanità fino in fondo perché è Dio stesso che ha scelto il metodo dell’incarnazione per rivelarsi e farsi trovare. All’interno di questo mondo umano, Dio ha scelto la relazione più radicale e più fragile che esiste nell’umanità: la relazione uomo-donna, alla quale ha affidato il compito di esporre, di raccontare la sua natura intima di Dio-relazione: la Trinità.
Esame di coscienza
Chiediamo allo Spirito Santo di liberarci da ogni condizionamento per entrare nel cuore del disegno di Dio per contemplarlo, chiedendogli il dono di poterlo vivere secondo le nostre forze e domandando perdono qualora non ne fossimo capaci per qualsiasi motivo. Lo Spirito ci guidi nel mistero di Dio che svela un poco di sé nel mistero dell’uomo e della donna che formano un cuore e un’anima sola. La Parola di oggi è difficile, specialmente se calata nella mentalità odierna la quale è fondata sul criterio dell’utilità che ha sostituito quello della verità: quasi nessuno s’interroga su ciò che è vero, ma su ciò che serve come utile immediato. Liberiamoci dai condizionamenti culturali, dalle fluttuazioni degli interessi e lasciamoci misurare da una Parola, la 1a lettura, che viene dal lontano sec. X a.C. e ripresa dieci secoli dopo da Gesù nel vangelo per dire la sua novità; noi oggi la incarniamo a distanza di trenta secoli dalla prima lettura e di venti secoli da Gesù. Invocare la misericordia di Dio significa lasciarsi invadere dalla potenza dello Spirito per essere in grado di stare davanti a lui che parla travasando in noi la sua paterna maternità. Chiediamo al Signore la grazia di un cuore innamorato libero soltanto di lasciarsi amare.
Signore, tu hai chiamato l’uomo e la donna a essere la carne della nuova alleanza. Kyrie, elèison!
Cristo, tu hai dato al matrimonio la forza della profezia pasquale del tuo amore. Christe, elèison!
Signore, quando viviamo in funzione dei nostri bisogni e non della tua chiamata. Kyrie, elèison!
Cristo, quando non siamo capaci di dare al nostro esistere il senso del «principio». Christe, elèison!
Il Signore che ci convoca sul monte del «mistero pasquale» per consegnarci non più la Legge su tavole di pietra, ma la profezia del matrimonio come progetto di un’umanità rinnovata nella celebrazione della Nuova Alleanza, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Il tema che offre la liturgia di oggi è delicato perché tocca ciascuno di noi, specialmente le persone sposate e quelle che vivono una relazione profonda, anche se a volte problematica, o che hanno sperimentato la rottura del loro rapporto con la separazione o il divorzio, ma anche coloro che hanno fatto la scelta della convivenza o del matrimonio solo civile o della convivenza omosessuale. Nessuno da sé sceglie di vivere male o, peggio, nell’inferno, ma ciascuno di noi fa scelte di vita che crede uniche per la realizzazione della propria personalità. Dio stesso non vuole che viviamo nell’angoscia e nella disperazione e per questo non carica mai gli uomini e le donne di «pesi insopportabili» (Lc 11,46), ma, al contrario, è lui che prende su di sé il peso della croce dell’umanità tutta (Gv 1,29). Ciascuno di noi deve stare attento a quanto la Scrittura propone come ideale e come obiettivo all’interno di un disegno di amore che non vuole essere un peso, ma una liberazione radicale e definitiva.
L’ideale è sempre davanti a noi come mèta o orizzonte, arrivarvi comporta la fatica e spesso la tortuosità della vita stessa che sperimentiamo non essere lineare. Credere non è essere arrivati al regno di Dio, ma camminare verso di esso con tutti i condizionamenti, i limiti e i rallentamenti che la nostra situazione storica personale porta con sé. Proviamo a verificare la nostra realtà con il disegno di Dio e valutiamo quale corrispondenza vi sia tra di essi. Ci poniamo la domanda: che cosa la Scrittura ci insegna sul matrimonio come progetto di Dio? Il primo passo è cercare di entrare dentro il senso delle parole per capire ciò che dice la Scrittura. Sono necessarie tre premesse brevi.
1. Viviamo in un contesto di religiosità diffusa all’interno di un mercato religioso che, giocando sulle debolezze, le paure e le fragilità degli individui, offre una gamma vastissima di «religioni-fai-da-te» come risposta a una propria immaginazione di Dio; esse nulla hanno a che fare con la fede in una Persona viva con la quale entrare in relazione di vita. La società di oggi è affamata di religiosità consolatoria che si esprime a intermittenza: si usa quando se ne ha bisogno o quando non si hanno soluzioni razionali a problemi, situazioni e scelte; è come prendere una medicina eccitante o calmante a seconda dei casi.
2. Buona parte del popolo cristiano appartiene a questa dimensione religiosa che non fa riferimento né alla Scrittura, né alla fede, né a Gesù Cristo, ma soddisfa un bisogno ancestrale di vaga protezione. Si cerca il miracolistico e il contatto materiale della statua, la processione, la candela, le parole ripetitive, e così via. I sacramenti, e in modo particolare il matrimonio, sono vissuti come momenti di contatto con il divino a livello magico e solo esteriore: non si capirebbe perché il divorzio dei matrimoni religiosi raggiunga percentuali altissime, i matrimoni civili sono in crescente crescita, a scapito di quelli religiosi, e il fenomeno delle convivenze, che riducono la relazione «coniugale» a fatto meramente privatistico, è ormai la norma.
3. C’è qualcosa che non funziona nel matrimonio religioso, di cui non si vuole prendere coscienza per porvi rimedio, perché comporterebbe la dichiarazione ufficiale del fallimento della Chiesa nel suo aspetto formativo. Il matrimonio «in chiesa» (luogo fisico) non è un sacramento, cioè un incontro generativo a livello di vita, ma una festa esterna costruita attorno ai contraenti dove l’aspetto religioso del matrimonio si riduce a poco più o meno di una «benedizione» che non si nega mai ad alcuno. Perché sia sacramento è necessario sposarsi «nella Chiesa» come «profeti dell’alleanza» di Dio in Gesù.
La 1a lettura riporta un brano del racconto della creazione della tradizione Yahvìsta. Il racconto nasce in un ambiente maschile che considera la donna giuridicamente invalida ed esclusiva proprietà dell’uomo come il bue, l’asino, il servo e la serva (Es 20,17; Dt 5,21). Qui la donna è vista come «aiuto» all’uomo, quell’aiuto che Adamo non ha trovato tra le cose e tra gli animali (Gn 2,18-23): la donna esiste in funzione dell’uomo. Nella creazione la donna è superiore all’uomo che, infatti, «dorme» mentre Dio-chirurgo lo apre per estrarre «ishàh-donna» da «ish-uomo» perché sia «osso e carne sua» (Gn 2,21-23). L’uomo è assente alla nascita della donna, quasi a dire che non ha diritto su di lei. La tradizione sociale ha aggravato e modificato lo spirito del racconto in funzione del potere economico e sociale, per giustificare un sistema che non poteva prevedere che «un solo uomo al comando». Se la donna, infatti, è creata per essere «aiuto» all’uomo (Gn 2,18-20), la sua dipendenza da lui è la sua natura: essa, cioè, si realizza nell’essere sottomessa all’uomo; in questo senso la donna non esiste in quanto persona, ma vive in funzione di qualcuno. È sempre proprietà di qualcuno (padre, marito).
L’uomo al suo risveglio vede la donna e la definisce in rapporto a sé: «carne della mia carne e osso delle mie ossa» (Gn 2,23). La stessa procedura troviamo negli scritti paolini (1Cor 11,9; 1Tm 2,12). Nonostante o proprio perché ci troviamo in una cultura e in un ambiente estremamente maschilista, la Parola di Dio introduce elementi di novità che sono dirompenti e rivoluzionari. Li passiamo in rassegna.
a. L’uomo nel giardino di Èden è l’immagine visibile del creatore, di cui esercita il potere di vita o di morte in forma vicaria espresso nella potestà di «dare il nome». L’uomo dà il nome agli animali e alle cose (Gn 2,18-20), cioè esercita la sua «signoria» su tutto il creato come luogotenente di Dio: il nome, nella cultura semitica, significa la natura intima di chi lo porta e «conoscere il nome di qualcuno» significa avere un certo potere su di lui. Nonostante ciò nessuno degli esseri viventi sui quali esercita il potere di vita e di morte (= dare il nome) risponde al suo bisogno di «essere in relazione».
b. L’uomo non realizza se stesso nel dominio o nel potere perché alla fine si ritrova solo e insoddisfatto: cerca ancora un incontro che possa rispondere al suo anelito di relazione nella comunione. L’uomo cerca la sua identità e non la trova, ma la scopre solo quando vede la donna davanti a sé perché scopre in lei la parte mancante del suo essere incompleto: nel momento in cui vede la donna, egli scopre con stupore e ammirazione la parte migliore di sé (Gn 2,23), davanti alla quale si ferma la «signoria vicaria» perché egli non può esercitare alcun potere su di essa: non può darle il «nome», ma può solo prendere atto della sua esistenza che riceve da Dio: «Dio… la condusse all’uomo …» (Gn 2,22-23).
c. La donna è creata direttamente da Dio, senza alcuna partecipazione attiva dell’uomo perché egli dorme mentre Dio crea la donna. Facendo cadere un torpore sull’uomo, Dio sottrae la donna alla discrezione del maschio. Davanti a essa, l’uomo può esprimere solo il suo stupore perché in lei vede riflessa l’immagine di se stesso e insieme riassumono quella di Dio (Gn 1,27). Adamo è creato dalla polvere del suolo (Gn 2,7), da cui deriva la parentela dell’uomo con la terra e il regno animale. La donna no, non viene dalla superficialità della polvere del suolo o del fango della terra, ma dalla «carne-osso» dell’uomo. Non solo, il nome alla donna non è dato da Àdam, che quindi non ne può disporre, ma deve limitarsi a prendere atto della sua esistenza. Tutto ciò è una contestazione, una vera e propria demitizzazione del ruolo maschilista e patriarcale, un’opposizione radicale al costume vigente, già nel secolo X e nel secolo V a.C.
d. Per la creazione degli animali da parte di Dio, l’autore di Gn 2 usa il verbo «fare/manipolare», tipico del vasaio che impasta la creta (Ger 18,3-4). Per la donna, invece si usa il verbo «costruire/edificare» (Gn 2,22) che distingue ancora una volta la donna dal resto degli animali, tra i quali non «un aiuto che gli stesse di fronte» (Gn 2,19-20).
e. La tradizione giudaica insegna che Dio per creare Adamo diede ordine a Gabriele di raccogliere un pizzico di polvere dai quattro angoli della terra che impastò. Con questo impasto «universale» diede forma all’uomo che ha un orizzonte universale, ma una natura fragilissima perché è tenue come la polvere della terra; ma è anche superficiale perché la polvere è lo strato più esterno della terra e basta un soffio di vento per portarla via.
f. Al contrario, la donna è tratta da una costola dell’uomo, la parte più interna e protetta del corpo, cioè qualcosa di vivo e profondo, nobile perché vivente. I Padri della Chiesa mettevano in relazione la creazione di Eva dal costato di Adamo con la nascita della Chiesa generata dai sacramenti scaturiti dal costato di Cristo (Gv 19,34). Adamo non assiste alla nascita di Eva perché Dio lo ha fatto piombare in sonno profondo, quasi a dire che Adamo è assente e non può vantare diritti che non vengano dalla comunione. Quando si sveglia scopre che colei che gli sta di fronte è corrispondente a qualcosa di mancante in lui: l’uno e l’altra sono essenziali e nessuno dei due può vivere senza l’altro.
g. Al suo risveglio Adamo non può fare altro che stupirsi di fronte alla parte di sé che è la donna: «Disse Adamo: “Questa (è), ora sì/finalmente, osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne. Questa sarà chiamata “uoma” perché da “uomo” fu presa questa» (Gn 2,23). È un modo ebraico per esprimere quello che in italiano è il superlativo assoluto e sta ad indicare lo stupore imprevedibile, assoluto di fronte a una realtà che Adamo non poteva nemmeno immaginare. La donna è carne della carne dell’uomo, cioè è fatta della stessa fragilità, ma è anche osso delle ossa di Adamo, cioè è fatta con la parte più resistente del corpo e più interna, per cui è intima. Diventando «una sola carne» nel rapporto sessuale, i due non fanno altro che ricomporre il principio unitario da cui sono stati generati e in quanto «uomo e uoma», solo così si riconosceranno immagine di Dio creatore. Se l’uomo e la donna ricompongono l’unità originaria, solo insieme possono aspirare a essere «immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,27), mai separatamente.
Nota di spiritualità pastorale
In questo contesto l’esercizio della sessualità tra uomo e donna è l’atto divino per eccellenza, la pienezza della corporeità, compiuta nella più alta e profonda spiritualità perché il corpo è lo spirito visibile e palpabile; la sessualità, pertanto, è l’azione liturgica più completa che possa esistere nel creato: è la lode a Dio che è Amore (1Gv 4,8). La coppia, integrata insieme in «una sola carne» esprime in modo esclusivo la natura di Dio Trinità che è relazione d’amore e, nello stesso tempo, diventa il simbolo visibile dell’unita divina. Il celibato e il voto di verginità da punto di vista spirituale e biblico, se sono scelte libere e vissuti coerentemente, hanno un solo significato: essere una profezia dell’unicità del Signore. Essi, proprio perché incompleti, non coppia, diventano l’annuncio profetico dell’assoluto e della signoria di Dio.
Insegna la tradizione giudaica che il Signore, cioè Yhwh (in ebraico), nell’atto della creazione ha posto una porzione del suo nome (Y-h-w-h) nell’uomo, ma nella donna ne ha posto due porzioni. L’uomo, in quanto maschio/zaqàr, ha ricevuto da Dio una sola lettera del Nome santo e cioè una «y» (yod), mentre la donna, in quanto femmina/neqebàch, ha ricevuto due lettere del Nome di Dio e cioè la «y» (yod, in comune con l’uomo) e la lettera «h» (he) che ricorre due volte nel Nome di Dio. Da ciò deriva: l’uomo e la donna insieme sono l’immagine quasi perfetta di Dio; infatti, delle quattro lettere di cui si compone il nome «YHWH», una è affidata all’uomo e due a «uoma» (=1+2); l’ultimo quarto restante è la lettera «w» che corrisponde al N. 6, che né «uomo» né «uoma» posseggono. Ne consegue che non può esistere l’uomo da solo, né la donna da sola, ma solo insieme uomo/uoma sono partecipazione del Nome di Dio e della sua vita. La relazione che lega uomo e uoma si chiama «amore».
Questo è il contesto di riferimento in cui si muove Gesù e solo in questo contesto si può capire il suo insegnamento, altrimenti ci si perde dietro il giuridicismo del divorzio sì o divorzio no e si parte da presupposti che nascono solo dalla confusione e non dalla Bibbia. La parola chiave pronunciata da Gesù è «in principio = bereshìt» cioè un invito esplicito a tornare all’origine, ovvero al fondamento che evidentemente è stato smarrito lungo la storia divenuta anche un processo di allontanamento da Dio.
I parametri «del mondo» sono completamente fuori posto, se non sbagliati, perché si ragiona in termini di convenzioni e di convenienze; di fronte a una situazione dolorosa, sembra logico dire: «ma perché non si separano, non divorziano?». Gesù non si ferma alla casistica e non affronta nemmeno l’argomento «divorzio», ma invita a una riflessione che aiuti a porre la questione di fondo, sostando nel cuore stesso della nostra coscienza: «dove», a che punto sono della storia della mia salvezza? Vuol dire che siamo giunti alla «fine» e si rende necessaria una ripresa delle condizioni originarie. Matrimonio, divorzio, convivenza coppie omosessuali non sono «casi», ma sono conseguenze di una visione di vita, di scelte interiori e spirituali, fatte con i mezzi a disposizione, nel contesto della storia personale, in quello geografico e sociale dove la singola persona si trova a vivere, dalle relazioni ed esperienze vissute. Circa i due terzi della nostra vita dipendono dalla «cultura» che ci condiziona dall’esterno, e solo un terzo dipende dalla «natura» di cui siamo fatti.
In Mc 9,30 Gesù cercava la solitudine con i discepoli, ora qui accetta la presenza delle folle, anzi ne approfitta per dare loro istruzioni, ben consapevole che la folla non è un popolo cosciente. Vi sono, in mezzo alla folla, alcuni farisei che si avvicinano con uno scopo preciso: tentarlo con un tranello da loro architettato «prima». Le folle accorrono a lui per ascoltarlo, i farisei per tentarlo; per le folle, infatti, non dice nulla, ma solo che «accorrevano», mentre i farisei sono «[animati dall’intenzione] di metterlo alla prova». Al tempo di Gesù, vi erano due scuole fondamentali, una più rigorista (rabbì Shammài) che richiedeva motivi seri e «di peso» per permettere il ripudio della donna; l’altra più concessiva (rabbì Hillèl, maestro di san Paolo) che ammetteva il ripudio da parte dell’uomo «per qualsiasi motivo». Dt 24,1 concedeva il ripudio se il marito avesse trovato «qualcosa di turpe» nella moglie. I farisei màcchinano per indurre Gesù a scegliere tra l’una o l’altra scuola per metterlo contro un sistema morale attestato più sulla tradizione che sulla Parola di Dio, magari inducendolo a inventare una terza ipotesi e così screditarlo.
In altre parole, essi vogliono costringere Gesù a mettersi sul piano della casistica giuridica, emersa dal dopo esilio in poi. Gesù non casca nel tranello, ma si fonda sulla «persona», indifferentemente dal suo essere «maschio» o «femmina»; tratta tutti e due allo stesso modo e rimanda i farisei a verificarsi con la Parola di Dio, la sola che può esigere di essere vissuta come «comandamento».
I farisei erano chiusi nella prassi consolidata, Gesù va oltre e li trasporta sulla dimensione esistenziale, la sola che possa permettere di interrogarsi sul senso e la direzione del dinamismo della vita. I farisei ci provano. Gesù risponde con una domanda: «Cosa vi ordinò/comandò Mosè?» (Mc 10,3). La domanda verte quindi sul comandamento. I farisei, forse presi in contropiede, rispondono su un altro piano e contrabbandano la concessione mosaica temporanea («Per la durezza del vostro cuore Mosè scrisse questo precetto», Mc 10,5) come regola definitiva e permanente: «Permise Mosè di scrivere un libello di separazione/divorzio e di rimandarla» (Mc 10,4).
Il testo di Dt 24,1-4 aveva come scopo la difesa della donna, la parte più debole, mentre i farisei la leggono come una legge a loro favore, un diritto inalienabile, usurpando così il senso proprio della Scrittura che non garantiva la libertà del maschio di ripudiare come voleva la donna, ma poneva una serie di paletti in difesa della donna per tutelarla dal sopruso. Come di solito avviene, quella legge che doveva proteggere la parte debole, diventa la garanzia del più forte. Gesù non dice che il divorzio sia un bene o un male, non si pronuncia perché l’intervento non è a livello morale; egli si richiama al progetto originario di Dio ed è a esso che bisogna ritornare ogni volta che si crea un conflitto o si sperimenta una fragilità: qual è il disegno di Dio? Che cosa Dio chiede a me in questa situazione?
La preghiera è tutta qui: pulire lo sguardo e il cuore per leggere meglio la progettualità di Dio che resta come mèta e obiettivo, ma per raggiungerla occorre camminare attraverso la storia e tutta la fatica che la «fragilità/umanità/mortalità» comporta ed esprime. Il brano, infatti, si conclude «nella casa» (Mc 10,10) che per Mc è sempre immagine della Chiesa, di cui è misura e modello il «ragazzetto/bambinello» cioè uno capace di abbandonarsi senza secondi fini, ma con fiducia e certezza della paternità di Dio, come fanno gli «’anawim/piccoli/poveri» i discepoli poveri di Yahwèh che hanno il senso profondo di Dio, proprio perché non presumono di averlo.
Comments