Mensa della Parola: Sap 7,7-1; Sal 90/89,12-13.14-15.16-17; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30
Il cammino si snoda tra vari ostacoli: i facili ed effimeri entusiasmi della folla, che Gesù spegne subito; l’incredulità dei discepoli che lo seguono; l’ambiente religioso che sospetta di lui. L’incredulità diviene ostilità e rifiuto finché a Gerusalemme, la città santa, raggiunge il culmine: Gesù è ucciso in nome di Dio (Mt 26,65-66). Per vanificare la morte in nome di Dio, Gesù non fugge dalla morte, ma le va incontro e pochi istanti prima di morire perdona i suoi assassini capovolgendo così la legge del taglione prescritta nella Toràh. Alla logica dell’«occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24) si sostituisce la consapevole assunzione del male e delle sue conseguenze su di sé, senza riserve e senza nulla in cambio. È amore a perdere, è il perdono cristiano: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24). In nome di Dio si può solo perdonare, non uccidere; essere uccisi, non offendere (Gv 18,11).
Gesù è alla conclusione del suo ministero di rabbì itinerante e non ha raccolto grandi successi come forse sperava all’inizio. Le masse rifiutavano il Messia dimesso e povero che egli rappresentava, perché erano abbagliate dalla formazione religiosa che li aveva allevati all’attesa di un Messia «onnipotente», folcloristico e scenografico, regale e vincente. Le istituzioni (tempio e sacerdozio) furono contro di lui perché egli svelava la doppiezza della loro vera natura; usando Dio per il loro potere e per il denaro. Gesù capisce che finirà male e sente che la morte non è solo vicina, è inevitabile. Tutto si coalizzò contro di lui, considerato da molti un invasato, se non addirittura un pazzo, come pensa anche la sua stessa famiglia (Mc 3,21). Il regno predicato da Gesù non sarà mai popolato dalle folle, ma sarà abitato solo da un «piccolo gregge» (Lc 12,32), che assume, in ogni epoca della storia, il ministero della testimonianza, senza mirare ai risultati. Non teme la sua debolezza, ma si affida alla grazia di Dio (Lc 12,32), consapevole che «quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27).
Nella 1a lettura (Sap 7,7-11) la «sapienza» è l’arte del buon governo, che l’autore individua come conseguenza della preghiera e del disinteresse totale. Il testo afferma con chiarezza che nessun conflitto d’interessi può coesistere con lo spirito di sapienza che deve animare chi governa: nemmeno la salute, nemmeno le ricchezze, nemmeno «tutto l’oro» del mondo possono essere preposte all’anima di chi ha autorità. L’autorità deve essere esercitata come ministero, libero da qualsiasi presunzione. In sostanza la Scrittura ci dice che la politica non è l’arte del compromesso, né il governo è l’equilibrio delle convenienze, ma ambedue sono semplicemente una questione di anima, una disposizione dello spirito, un servizio reso agli altri in nome di Dio che è nei cieli, per il quale «non vi è preferenza di persone» (Ef 6,9). Chi governa deve essere umile e vero, serio e affidabile, trasparente e consapevole di non essere padrone, ma ministro della pace ordinata del suo popolo. Governare significa realizzare al meglio il «bene comune» come sintesi del benessere e della felicità di tutti. I credenti devono pregare per i governanti perché acquistino lo spirito di sapienza.
La 2a lettura, tratta ancora dalla lettera agli Ebrei, che, come abbiamo già detto, è un’omelia scritta da un sacerdote ebreo divenuto cristiano, riporta un brano conosciuto e molto forte che riguarda l’efficacia della Parola paragonata a una spada affilata dai due lati. In precedenza, l’autore aveva descritto il modo con cui si è rivelato Dio: ha parlato attraverso i profeti e infine in Gesù Cristo (Eb 2,1-4). Questa rivelazione è annuncio di salvezza che l’autore chiama «riposo» per coloro che l’ascoltano (Eb 3,18; 4,1.3-7.11; Nm 14,29; 1Cor 10,5); per coloro invece che non l’ascoltano, ma la rifiutano consapevolmente, essa diventa castigo (Eb 4,2). Il profeta Isaia aveva già parlato dell’efficacia della Parola in se stessa, paragonata alla pioggia e alla neve (Is 55,10-11); questa efficacia, in modo particolare, si manifesta in prevalenza nei profeti che annunciano la Parola, pagandone pesantemente le conseguenze per la loro fedeltà (Ger 20,7; Ez 3,26-27). Quando il profeta si lascia possedere dalla Parola, di cui è «voce che grida nel de-serto» (Mc 1,3; Is 40,3), diventa a sua volta testimone e garante della Parola che si compie (Is 8,1-17; Os 1-3; Sal 69/68,12). Con l’avvento di Gesù avviene qualcosa di inatteso e unico: la Parola è lo stesso profeta e il profeta è la Parola di Dio «incarnata». Dio non si limita più a inviare qualcuno a parlare in suo nome, ma viene egli stesso e si presenta come Lògos, come Parola (Eb 1,1-2; Gv 1,1.14).
Esame di coscienza
Chi ascolta con spirito di sapienza la Parola che è Gesù, scopre le intenzioni profonde del suo cuore, snida i sentimenti e illumina le decisioni della vita. In questo senso la Parola è giudizio e spada, perché non svela solo il comportamento esterno, ma scende nel profondo dell’anima, ed essendo affilata da ambo le lame, «doppio taglio» (Eb 4,12), essa inevitabilmente ferisce la carne viva e dà nome alle aspirazioni segrete e alla missione a cui ciascuno di noi è chiamato (Lc 2,35). L’Eucaristia è una scuola dove ognuno si nutre di fede e nello stesso tempo impara a credere di nuovo per tornare nel mondo ed essere profeta con la vita del Dio che ha sperimentato. La spada di cui ci parla la lettera agli Ebrei è la Parola, cioè la sapienza, cioè l’intelligenza, il pensiero. Essa non è un’arma di offesa, ma un metodo di ascolto e di adesione. Mettersi in relazione con un altro, qui con Dio, significa mettersi in gioco e non giocare in difesa. Solo così possiamo essere capaci di liberarci da noi stessi, dai nostri bisogni per essere pronti ad accogliere l’invito del Signore che ci chiama per nome: «seguimi» (Mt 9,9). Vogliamo seguirlo, andando per le strade del mondo e raccogliendo gli aneliti di pace e di amore, di dolore e di amarezza che deponiamo sull’altare. Invochiamo il perdono di Dio che è il Padre della sapienza, il fondamento della preghiera, la forza dell’efficacia e il punto di partenza per la missione come risposta alla chiamata di Dio.
Signore, per le volte che abbiamo sentito e non ascoltato la Parola, Signore, pietà
Cristo, ci chiami alla libertà da noi stessi per seguirti e testimoniarti, Cristo, pietà
Signore, abbiamo preferito la tranquillità alla sapienza del cuore, Signore, pietà
Cristo, sei la cruna dell’ago che ci introduce al tuo regno di giustizia. Christe, elèison.
Signore, se consideri le nostre colpe, nessuno potrà resistere. Kyrie, elèison.
Cristo, tu sei il perdono e la misericordia perché sei il Dio di Israele. Christe, elèison.
Dio misericordioso, che ci offre la Sapienza più preziosa di tutto l’oro nella Parola che ascoltiamo e nel Pane che mangiamo, cibo del cuore che ci rende liberi da qualsiasi condizionamento per essere in grado di seguire il Figlio che ci chiama alla radicalità del vangelo, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Sulla bocca di Gesù vi sono due insegnamenti semplici e lineari: un racconto di vocazione senza accenno alla ricchezza del candidato, se non in forma molto superficiale e un insegnamento sulle condizioni per entrare nel regno dedicato alla formazione dei discepoli. Dopo i primi successi molto esteriori, Gesù e gli apostoli sperimentano il rifiuto da parte della gente e la persecuzione da parte dell’autorità. La stessa esperienza fa la comunità cristiana anche dopo la morte di Gesù. I cristiani, sottoposti alla prova, applicano i racconti di Gesù alla propria situazione e ne ricavano un sostegno e un insegnamento per la vita. Gli insegnamenti originari di Gesù divennero una lezione sulla povertà reale per scoraggiare i propri aderenti all’attaccamento della ricchezza, prendendo a modello di vita la stessa comunità come è descritta negli Atti (At 4,36-5,14). Le condizioni per entrare nel regno annunciato da Gesù diventarono un ostacolo ai ricchi il cui cammino è appesantito da beni e ricchezze.
Il brano ha due temi connessi: l’incredulità dei Giudei, illustrato dal racconto di vocazione dell’uomo dai molti beni e la difficoltàdi entrare nel regno al seguito di Gesù con «bagaglio al seguito» cioè con le ricchezze in mano. Il richiamo evidente è a Giobbe che afferma: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò» (Gb 1,21). Il giovane rabbì Gesù è alla fine del suo pellegrinaggio e fa un bilancio consuntivo: ora prende coscienza che il suo regno non sarà invaso dalle folle osannanti (Mc 10,24). La nuova comunità che da lui prenderà il nome avrà come compito quello di essere una minoranza, poco più di un segnale, un indicatore stradale. Il rifiuto dei Giudei che in Mc è paragonato all’incredulità, in Mt e Lc produce una reazione violenta di Gesù che maledice il popolo con un verdetto peggiore di quello riservato a Sodoma e Gomorra (Mt 11,20-24).
Gesù è un vero uomo, non un prodigio che conosce tutto in anticipo. La sua natura umana lo obbliga alla fatica di ogni individuo nella ricerca e nella scelta. Egli probabilmente parte con un entusiasmo da «principiante», ma la storia e la natura degli uomini e delle donne che incontra gli insegnano che i miracoli sono merce rada e comunque bisogna rispettare i ritmi di crescita delle singole persone. Anche i discepoli di Gesù prendono atto dello scacco del lavoro missionario e la comunità primitiva mette in evidenza per due volte il loro «sbigottimento» (Mc 10,24.26). Mc da parte sua pone in luce l’amore inutile del Maestro: «Gesù, fissò lo sguardo93 su di lui, lo amò… Ma a queste parole egli, si fece scuro in volto, se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,21.22). La scena è drammatica perché il testo greco è forte: «fissò lo sguardo [su di] lui, Gesù lo amò».
Il verbo esprime la dimensione della gratuità senza condizione, misto ad un sentimento di tenerezza, cioè un amore personale,unico ed esclusivo. Non c’è posto per l’amore se il cuore è ingombrato da cose. Il mistero della salvezza è nascosto nel cuore di Dio perché a lui «nulla è impossibile» (Mc 10,27) e costituisce il fondamento della preghiera della Chiesa per la salvezza dell’umanità anche di fronte al rinnegamento. La salvezza è una prerogativa di Dio. Per questo non si deve mai giudicare alcuno. Gesù si rivela come autentico figlio di Abramo perché è in tutto simile a lui. Dalla sterilità di Abramo Dio seppe trarre un popolo numeroso come le stelle del cielo e la sabbia del mare (Gn 15,1-6); ora dall’insuccesso della missione della «discendenza [di Abramo] che è Cristo» (Gal 3,16), consumato nel fallimento totale della croce, trae il seme della nuova alleanza: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Le parole di Gesù acquistano un senso pieno perché descrivono la sua vita e ci indicano la direzione: «Non potete servire Dio e mammona» (Mt 6,24 Lc 16,13). Quando il missionario è preso dalla frenesia di realizzare o di convertire o di costruire, è destinato a fallire perché il suo compito primario è stare in mezzo ai suoi simili e vivere da testimone attraverso la profezia senza parola della sua vita, rimettendo a Dio il segreto del disegno finale perché il futuro è solo nelle sue mani (Mc 13,32). Il missionario e il battezzato cosciente sanno di essere servi con il diritto di seminare ciò che hanno ricevuto, ma non sempre hanno il mandato o l’occasione di raccogliere.
È molto difficile essere parte integrante della comunità e povero tra poveri, con la povertà della propria vita che «sta lì» a vivere e morire, testimone di una Parola non sua e di una salvezza che viene dall’alto.
La povertà non è un ideale, ma un metodo e uno strumento per realizzare l’ideale della comunione, della fraternità, del regno di Dio. I professionisti della povertà si mettono sempre alla testa dei poveri, i «poveri di Yahwèh» stanno insieme e, aiutandosi reciprocamente, camminano insieme verso il monte della liberazione che solo Dio può dare e solo chi vive distaccato dallo stile del mondo può ricevere: «Sono nel mondo … non sono del mondo» (Gv 17,11.16). Nell’intenzione di Mc il racconto dell’uomo ricco ha anche lo scopo di spiegare le ragioni dell’incredulità attraverso un percorso psicologico interessante che può riguardare ciascuno di noi.
Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme. Un uomo gli corre incontro (il vangelo non dice che sia giovane) e pone la domanda essenziale della vita: egli s’interroga sulla salvezza. La questione è esatta, ma egli la pone in modo errato, perché ricorre a Gesù come se fosse uno dei tanti rabbini che popolavano la Palestina dell’epoca per chiedergli un parere di convenienza. A differenza degli altri rabbini, che stavano «dentro» la scuola aspettando i discepoli, Gesù opera in maniera opposta: è lui che si sposta alla ricerca dei discepoli e per questo è sempre in strada, quasi a indicare il metodo per entrare nel regno che annunzia. Chi crede cammina, perché credere è avere gambe buone per percorrere le vie di Dio che s’incrociano sempre negli avvenimenti della storia e nelle persone incontrate sulla strada. La via indica movimento, apertura, incontro, confronto, dialogo. Il titolo «Maestro buono/eccellente/insigne» è appunto riservato alle guide che fanno scuola d’interpretazione della Scrittura e della tradizione e qui dimostra che l’uomo non è tanto interessato alla sua salvezza, ma ad un’opinione di scuola. Non solo non vuole mettere in discussione se stesso, ma vuole anche essere a posto con la sua coscienza e con gli obblighi della religione: quando si dice che uno vuole la botte piena e la moglie ubriaca.
Mc 10,18: «Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo».
Gesù lo snida subito, senza cadere nella trappola, rifiutando la sua tendenza a blandirlo; lo pone davanti alla presenza di Dio: «Solo Dio è buono». La bontà appartiene alla solitudine di Dio perché ne caratterizza la natura e chi vuole parteciparvi deve entrare in questa logica e lasciarsi toccare dal flusso della grazia che esige la nudità della verità. Gesù vuole dire che la sua risposta non sarà una delle tante opinioni, ma gli svelerà il comandamento di Dio che lo vincolerà nella sua coscienza e nelle sue scelte. La salvezza non è una questione da discutere accademicamente, ma un rapporto personale con Dio che si consuma in un rapporto d’amore e non di calcolo, di tenerezza e non d’interesse.
Mc 10,19: «Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Di fronte al tentativo di sfuggire a un confronto serio, Gesù lo riporta ancora una volta alla volontà di Dio, inchiodandolo ai comandamenti, cioè all’appello rivolto all’io profondo che è la sorgente della vita vissuta nella sua concretezza e non ragionata nell’astrazione. La volontà di Dio non è un capriccio, ma una relazione che esige una dinamica d’intimità e tocca le ragioni che ispirano e spingono a vivere. Spesso discutiamo «su Dio», ma non parliamo «a e con Dio» e non lo incontriamo nella vita perché non siamo capaci di incontrare gli altri. Non basta chiudere gli occhi e stare in raccoglimento per incontrare Dio, ma è necessario imbandire la tavola, preparare la mensa della propria vita come spazio dove Dio possa imbandire l’amore trinitario, dopo essersi saziato del nostro desiderio di lui, dandogli compimento.
Mc 10,20: «Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”».
La risposta dell’uomo è temporeggiatrice perché serve per prendere tempo e rimandare la sentenza. L’uomo capisce che i conti non gli torneranno più e vuole organizzarsi per impressionare e uscire indenne dalle esigenze «di Dio». L’uomo ricco ci prova ancora perché è soddisfatto di adempiere tutti i suoi doveri da uomo religioso di tutti i tempi, avendo caratteristiche che tramanda di generazione in generazione: è nato ebreo e non ha cessato di esserlo fin dalla nascita; vive per forza d’inerzia, non sceglie.
Mc 10,21: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”».
Oggi più che ieri siamo tentati di accontentarci della religiosità legale: pagare il pedaggio per la tranquillità della coscienza con una religiosità senza impegno e senza problemi. Gesù smonta questa religiosità e usa lo stesso linguaggio di Yahwèh con Abramo. Un Dio sconosciuto entra nella vita di un tranquillo capo clan e fa risuonare la sua parola autorevole: «Vàttene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre» (Gn 12,1). Abramo si lasciò «sedurre» da quella parola nuova senza altra garanzia per il futuro che la Parola stessa di un Dio sconosciuto e, fidandosi, dà inizio alla storia di Dio nella storia dell’umanità. Lo sguardo di Gesù è penetrante. Uno sguardo talmente diretto e forte che fa sentire la densità e la tensione dell’amore che trasporta: lo «amò di amore totale/gratuito». L’uomo è spogliato da quello sguardo che lo estrae dal sepolcro della sua esistenza senza senso, come Lazzaro dalla caverna della morte (Gv 11,43-44). L’uomo che pesa la propria ricchezza, ma non conosce la profondità dell’anima, capisce che le domande sulla vita eterna e le risposte sulla sua religiosità «fin dalla nascita» (Mc 10,20) non sono che scuse per eludere la fede e il rapporto con Dio che non vuole atti di religione e ossequio alle regole, ma pretende la vita intera. Di fronte all’invito perentorio di credere in Dio, l’uomo si toglie la maschera e si mostra per quello che è. Lo sguardo intimo di Gesù è arrivato al cuore e lì si è depositato, svelando un amore gratuito, quasi complice e coinvolgente: esprime la sua disponibilità a ricominciare con lui la nuova direzione della vita. Anche Dio però si ferma, a distanza di sicurezza, davanti alla libertà della coscienza.
Mc 10,22: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni». Un uomo ricco può essere una povera persona affondata nell’angoscia che nemmeno la ricchezza sa lenire; non è capace di mettere in atto una relazione di vita, forse è «solo» anche nella vita, magari con servi e dipendenti: la sua solitudine isolata risplende dall’alto dei suoi «molti beni» che non gli riempiono la vita, ma gliela occupano, impedendo gli slanci propri della vita stessa. L’invito di Gesù lo incupisce con un moto di dolore perché egli si crede religioso e invece scopre di essere miscredente. Si accontenterà della sua religiosità di convenienza, ma dovrà rifiutare d’essere salvato perché credere è solo attaccarsi alla persona di Gesù. Un discepolo carico di beni o «vestito in morbide vesti» (Mt 11,8) non può essere rappresentativo di chi, nato in una mangiatoia (Lc 2,7), ha chiamato a sé i discepoli con l’ordine di prendere per il viaggio, né bastone né sacca, né pane né denaro, né due tuniche (Lc 9,3).
Mc 10,23.25: «23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!… 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”».
Noi prendiamo la sentenza come un’iperbole che sottolinea «l’esagerazione» plastica del rapporto tra «cammello», animale con due gobbe, e la «cruna di un ago», passaggio strettissimo, dove può passare solo un filo sottile di cotone. Lo stesso valore resta, anche si dovesse trattare di una «gomena», corda grossa che serve per attraccare le navi al porto. L’espressione sottolinea una difficoltà insormontabile: «i molti beni» costituiscono una «porta molto stretta» da attraversare per giungere al Regno di Dio. È necessario che i ricchi ritengano le loro ricchezze mezzi e non fine e le condividano nel contesto di una giustizia che supera quella degli uomini. La povertà è un male specialmente per coloro che non sanno organizzarsi o difendersi; è quindi il terreno dove confrontarsi e misurarsi, specialmente oggi, in questo momento in cui il mondo occidentale, che si identifica con il mondo dei cristiani, è interpellato dalla fame e dalla denutrizione che colpiscono tre quarti dell’umanità. È necessario valutare le cause della miseria e della povertà che impediscono alla maggioranza dell’umanità di accedere alla mensa della dignità umana a cui ciascuno ha diritto per poter essere figlio di Dio. L’invito di Gesù: «Va’, vendi quello che hai e dello ai poveri» (Mc 10,21) è rivolto alla Chiesa. Il Pane spezzato dell’Eucaristia è l’icona di questa prospettiva che esige la nostra conversione alla giustizia di Dio che è l’amore per chi è nel bisogno e non l’uguaglianza tra diseguali.
Comments