Mensa della Parola: Is 53,2.3.10-11; Sal 33/32, 4-5.18-19.20.22; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45
La domenica che celebriamo oggi insiste nel farci conoscere sempre più la personalità di Gesù. Dopo le folle, i discepoli e gli stessi apostoli, incapaci di riconoscere un Messia al di fuori dei canoni ufficiali e popolari, Mc presenta il Messia dalla prospettiva del «Servo sofferente di Yahwèh» come dipinto da Isaia e col quale Gesù stesso si identifica nelle parole e nella vita. La Chiesa che nasce da Cristo non sarà, né potrà mai essere, una Chiesa di successo o un sistema di potere perché essa deve annunciare al mondo l’«uomo dei dolori» che «offrirà se stesso in sacrificio di riparazione» (Is 53,3.10). Il potere, in qualsiasi forma, e la sete di dominio di qualunque specie non appartengono alla dimensione evangelica e allo stile di vita dei suoi discepoli, che, se vogliono essere all’altezza del loro Maestro, devono ribaltare ciò che il mondo offre e i potenti pretendono: «42 “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43 Tra voi però non è così; 44 ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore (gr.: «diàkonos) e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45 Anche il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10,42-45).
La logica del vangelo è espressa in modo sintetico e definitivo dalle beatitudini e dal Magnificat, programmi di vita personale, ecclesiale e sociale. Nessun sistema può accettare questo invito, nessuna democrazia può realizzare questo stile, se non si converte all’idea dell’autorità come servizio, libero da qualsiasi interesse o tornaconto. La comunità eucaristica che vive all’ombra della croce, ne prende coscienza in modo evidente e si assume il compito profetico di tradurlo nella storia come metodo di vita politica, economica e culturale, perché pone al centro, come presupposto imprescindibile, l’orizzonte del «bene comune», radicato nel concetto di comunione, che è l’opposto-contrario dell’interesse di parte o, peggio ancora, individuale.
Chi ha la responsabilità di governo, sia nella comunità civile che nella Chiesa, non si dovrebbe ammantare degli sfarzi del potere, ma alzarsi da tavola, deporre le vesti, prendere un asciugamano, cìngerselo attorno alla vita, versare acqua nel catino e cominciare a lavare i piedi dei discepoli, asciugandoli con l’asciugamano di cui si era cinto (Gv 13, 4-5). Chi ha autorità deve avere coscienza di essere «servo» (religiosamente), «dipendente» (laicamente) di coloro che guida per scelta o per elezione, perché suo compito non è difendere «principi» generici, ma esercitare il mestiere di «tirare fuori l’essere». Un cristiano, che fa il politico, non va a Messa per adempiere un precetto e tranquillizzarsi la coscienza per accreditarsi, ma partecipa all’Eucaristia per purificare il proprio livello di servizio, imparare il metodo del Signore e tornare nella Storia come «colui che serve e non che è servito». Utilizzare Dio per affermare il proprio potere o per imporre una specifica visione di vita è un atteggiamento specifico che svela un «ateismo religioso» che non combatte Dio, ma lo usa come un volgare strumento a proprio vantaggio per fomentare, accudire e far crescere la propria vanità, sempre finalizzata alla carriera, all’esercizio del potere che si esercita disinvoltamente attraverso due strumenti diabolici: il sesso e il denaro.
Questa caratteristica è obbligatoria per un credente, ma è anche essenziale per qualsiasi politico, anche non credente, anche miscredente, anche agnostico, perché è visione assolutamente laica dell’autorità che comunque non deve mai essere usata per sé. La prova che l’autorità è autentica si ha solo se dice la «verità» e se non usa sotterfugi o manipola la realtà. Chi mente, manipola o manovra sottobanco non viene da Dio o dalla retta coscienza, ma dal malaffare. L’autorità ha il compito di estrarre la «natura/vita/ esistenza» di coloro di cui è responsabile per portarli a pienezza, non arroccarsi nelle proprie convinzioni e imporre il proprio modo di vedere. Anche perché ogni forma di potere, per definizione, è «pro tempore» e nessuno deve considerarsi eterno, ma solo strumento di cui dovrà rendere conto. Una delle piaghe più gravi che deturpa il volto della Chiesa «casta», rendendola «meretrix» è la sete di carriera del personale ecclesiastico, ovvero il vitello d’oro che inquina il pozzo dell’acqua della Parola di Dio, deturpa l’attesa di Cristo e allontana uomini e donne dall’incontro con il Signore. Una Chiesa che distribuisce titoli onorifici a piccoli uomini malati, che fanno finta di essere umili, ma intimamente godono del riconoscimento mondano per il quale erano disposti a dare anche la vita, sono gli impiegati di una chiesa mondana che offusca il volto di Cristo e lo rende inavvicinabile. Chi aspira a un titolo ecclesiastico è un disadattato, affettivamente immaturo con una sessualità disturbata o non risolta; tutto ciò prima o poi viene fuori, perché «sotto il vestito … niente».
Il missionario che sceglie di lasciarsi scegliere dal Cristo nudo in croce ha una sola pretesa: avere gambe buone e scarpe da montanaro per camminare lungo le strade del mondo, accompagnandosi a quanti incontra lungo la strada alla ricerca di se stessi e quindi del «senso di esistere» come desiderio di quella promessa vissuta da Abramo, Isacco, Giacobbe e dai profeti che indicano la via per raggiungere la montagna della rivelazione di Dio che si fa incontrare nel volto e nelle parole del Figlio suo Gesù Cristo. Ben triste deve essere quell’uomo che si mette al seguito di Cristo per scalare la vetta del potere a scapito della sua libertà, della sua dignità, della sua integrità morale e fisica. Chi cerca la carriera, è disposto, ovunque e comunque, a vendersi al migliore offerente.
La 2a lettura presenta il Cristo come sommo sacerdote che si offre in espiazione dei peccati. Nel giorno di Yom Kippùr (Giorno dell’Espiazione), in Israele, il sommo sacerdote offre due sacrifici: uno in espiazione dei peccati suoi e della sua famiglia e l’altro in espiazione dei peccati del popolo, simbolicamente caricati sul dorso di un montone mandato a morire nel deserto. Noi non dobbiamo più offrire un sacrificio per l’espiazione, perché Gesù ha offerto se stesso «una volta per tutte», donandoci la sua vita e innestandoci nel suo progetto. Egli ora è mediatore tra noi e Dio presso il quale ci accredita come figli minori comprati a caro prezzo (1Pt 1,18-19).
Nota esegetica
In aramaico «figlio di papà» si dice «Bar-abbà» (al plurale «ben-abbà»). Gesù ha dato la vita sua in cambio della vita dei «figli del Padre». Giovanni espone questa teologia attraverso i nomi, quando Pilato offre ai Giudei la scelta tra Gesù «Bar-Abbà» cioè Figlio Unigenito del Padre e «Barabba – Bar-abbà», rappresentante di tutti i «figli di papà – Ben-abbà» (Gv 18,39-40).
Quando la Chiesa s’immerge nel mistero del Figlio venuto per donare la sua vita in riscatto di quella di tutti i Barabba della terra, allora i criteri mondani del potere e del dominio volano via come la polvere e resta l’anelito di portare al mondo il «vangelo di Barabba» al quale Gesù non chiese se fosse pentito e non gli pose condizioni, ben sapendo che «Barabba era un brigante» (Gv 18,40) e aveva commesso «un omicidio» (Mc 15,7; Lc 23,19); non gli disse: vai a confessarti prima e poi portami il biglietto di prova, ma rimase muto come pecora condotta al macello (Is 53,7). Questa è la caratteristica dell’unico potere possibile nella Chiesa: impegnarsi con la vita a stare dalla parte di chi non ha parte, senza chiedere credenziali. Non vi è libertà più grande di chi regala la propria per amore di servizio.
Entrando nel cuore dell’Eucaristia e ascoltando la Parola che oggi è tagliente come una spada a doppia lama (Eb 12,4, lasciamoci spogliare da ogni sovrastruttura clericale per essere degni di stare in fondo al tempio come il pubblicano della parabola lucana (Lc 18,13).
Esame di coscienza
Il potere è sempre in agguato come tentazione nella vita degli uomini di Chiesa. Il vero vitello d’oro di oggi è la ricerca del potere come via di realizzazione di sé, mentre le conseguenze negative ricadono sui poveri e sulla collettività. La sete di potere è il mondo per cui Gesù non ha pregato. Tutto ciò si aggrava ancora di più quando accade dentro la Chiesa che dovrebbe essere il «servizio» allo stato puro. Occorre discernimento e consuetudine con la Parola di Dio per non diventare ingranaggio di un sistema maledetto da Dio. La nostra misura di riferimento è «il Servo di Yahwèh» di cui ci parla il profeta Isaia nella 1a lettura. Vogliamo chiedere la grazia del servizio al mondo intero sull’esempio stesso di Gesù per testimoniare che egli è morto per amore e solo per amore. Lo facciamo invocando la Trinità. Gesù è l’«uomo dei dolori che ben conosce il patire» il quale si è fatto carico dei peccati di tutta l’umanità senza chiedere in cambio nulla. Chiedere perdono a Dio significa regalarsi a lui senza riserve e impegnarsi a gestire la vita secondo la sua volontà. Gesù intercede per noi come sommo sacerdote che immola se stesso e non un capro espiatorio. Esaminiamo la nostra coscienza e lasciamo che lo Spirito verifichi il nostro grado di adesione al Signore.
Signore, tu dài l’esempio del Maestro che lava i piedi ai discepoli. Signore, pietà
Cristo, tu ci mandi nella vigna del mondo come operai del vangelo. Cristo, pietà
Signore, tu ci chiedi di bere il calice della croce insieme con te. Signore, pietà
Cristo, tu sei il Dio che serve i suoi figli e non si lascia servire. Christe, elèison.
Signore, servo dei servi purifica la tua Chiesa perché impari da te. Kyrie, elèison.
Cristo, liberaci dallo spirito del mondo che ci separa da te e dal Regno. Christe, elèison.
Dio onnipotente, servo di Yahwèh e dei servi del Signore che non ha considerato un tesoro la sua divinità, ma si è fatto pane che si spezza e vino che si versa perché tutti potessero avere la vita, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati, specialmente quelli di omissione, e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Nel vangelo di oggi troviamo il 3° annuncio della passione che, come i due precedenti, provoca reazioni scomposte da parte degli apostoli, come se volessero esorcizzare e allontanare il momento della prova. Addirittura due di loro pensano di cambiare la situazione a loro favore: vogliono fare carriera. Gesù usa due immagini per descrivere la sua passione: il calice e il battesimocon le quali l’evangelista dimostra che Gesù aveva piena coscienza di quello a cui stava andando incontro. Le due immagini sono connesse strettamente perché nell’AT esse sono il simbolo dell’ira di Dio, cioè del giudizio sui peccatori.
In Mc 10,38 Gesù fa una domanda ai suoi: «Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo in cui io sono battezzato?». Essa esige grammaticalmente una risposta negativa, mentre gli apostoli ne danno una affermativa: «Gli risposero: “Lo possiamo”» perché sono ubriachi della sensazione di potere che immaginano e non si rendono conto che essi non potranno mai imitare il loro maestro e nemmeno somigliargli. Essi infatti al primo momento della prova si dilegueranno abbandonandolo (Mc 14,50) e Pietro, che avrebbe dovuto essere «la roccia» della stabilità, non solo lo rinnegherà tre volte (Gv 18,18.25-27), ma dichiarerà formalmente di non conoscerlo: «Non conosco quello là» (Mc 14,71; Mt 26,72.74). Gli apostoli però saranno associati lo stesso al martirio e alla sofferenza del Maestro fino alla fine del mondo, perché quando diventeranno annunciatori del vangelo compiranno nella loro carne ciò che manca ai patimenti di Cristo (Col 1,24), cioè la sofferenza del mondo.
In questo modo troviamo qui una dimensione di senso per la sofferenza che il cristiano incontra nella sua vita. Essa non è voluta da Dio, ma è una realtà che appartiene all’esistenza come la gioia e la serenità. Ogni volta che la vita ci presenta un calice da bere, noi non ci possiamo rifiutare di assaporarlo fino in fondo. Abbiamo solo due possibilità: o lo rendiamo inutile, ripiegandoci sul lamento di come siamo «disgraziati»; oppure possiamo assumerlo, offrendolo a Dio come partecipazione al dolore del mondo redento nel sangue di Cristo. Ogni sofferenza regalata alla Trinità è un atto di condivisione con quell’umanità schiacciata e senza forze che aspetta da noi un piccolo sostegno per stare in piedi.
Spesso noi vanifichiamo la parte migliore della nostra vita buttandola nella spazzatura del superfluo, mentre Dio può trasformare la nostra impotenza e la nostra inutilità in benedizione e calice di vita. Stare ai piedi della croce significa imparare a scrutare l’orizzonte della vita dando valore a ciò che realmente conta. Nessuna sofferenza è inutile, piccola o grande che sia, perché se lo vogliamo può diventare strumento di salvezza per il mondo intero. Accanto a questa sofferenza, che potremmo chiamare «naturale», vi è l’altra sofferenza, più intima e grave, che nasce dal rifiuto, dall’emarginazione, dal giudizio degli altri, dal fallimento, dal tradimento: è la sofferenza che tocca la dignità e l’onorabilità. Quando a motivo delle idee, si è messi in condizione di marginalità, è allora che la croce diventa un faro illuminante e una ragione di vita.
L’episodio dei due fratelli in carriera si comprende meglio alla luce di questo contesto generale ed è ancora più chiaro nella redazione di Matteo (Mt 20,20-28), dove Gesù ha appena detto che essi giudicheranno le tribù d’Israele (Mt 19,28) come ministri di Dio giudice (Mt 25,31). Già il profeta Daniele aveva previsto che Dio avrebbe delegato il potere di giudicare i pagani al Figlio dell’uomo (Dn 7,9-10). In quest’atto finale, il Figlio dell’uomo sarebbe stato attorniato da un tribunale di magistrati assisi sui troni del giudizio, descritti dall’autore dell’Apocalisse (Ap 4,4.10). Gli apostoli pensano di essere loro questi assessori giudicanti e la conferma si trova nella domanda dei figli di Zebedeo a Gesù. In Mt invece è la madre dei due apostoli a rivolgersi a Gesù per impetrare un posto d’onore per i figli (Mt 20,20-21).
Nota sul possesso affettivo
Le madri (= l’autorità), forse più dei padri, spesso sono un impedimento serio alla crescita dei figli perché non solo gestiscono il presente, ma organizzano anche il futuro di essi. La colpa delle madri è quella di considerare i figli sempre minorenni, sempre bambini sempre bisognosi del loro aiuto che esse giudicano insostituibile. Ciò è il segno che le madri hanno bisogno dei figli per non sentirsi orfane: diventano figlie degli stessi figli. Diventa tragico quando questo atteggiamento si trasferisce dall’ambito familiare all’ambito della comunità o del lavoro. Chi governa da immaturo non vuole che i propri dipendenti crescano e siano autonomi perché ha paura di perdere una quota del suo potere: per esistere ha bisogno di comandare e di avere dei sottoposti. Si direbbe che la gerarchia abbia paura di un laicato adulto e fa di tutto perché si adegui ad un ruolo di laico-chierichetto sempre pronto ad «ubbidir tacendo».
Mc 10,40-45 del vangelo di oggi è uno dei testi più importanti di tutto il NT, perché contiene due idee fondamentali nella nuova economia del messaggio evangelico. Tali idee devono essere caratteristiche essenziali della Chiesa: esse sono il servizio e il riscatto, espressione dell’atteggiamento proprio di chi crede in Dio e non si ritiene padrone di nulla. Lo stesso vale per il termine «riscatto» perché chi esercita l’autorità è chiamato a «redimere» come vedremo fra poco: «Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Che cosa significa?
In Mc 10,45 per il verbo «servire» l’autore usa il verbo «diakonèō – io presto servizio», tipico del servizio liturgico, quindi un incarico onorifico. Gesù non è venuto per essere riverito, ma per servire con onore, considerando un onore porsi a disposizione di uomini e donne che sono degni di servizio. Due versetti prima, Gesù invita i due discepoli carrieristi a convertirsi ad una logica di «servizio/ministero», in ossequio al comportamento del Figlio che sceglie lo «svuotamento» in quanto non cerca l’umanità per il proprio auto-compiacimento, ma per se stessa. In Fil 2,7, esprimendosi in termini generali, Paolo parla dello svuotamento del Lògos fino alla forma di schiavo, mentre Mc 10,45 lo eleva alla funzione di ministro. Il Figlio non esita a schiavizzare se stesso pur di servire i figli di Dio: è la stessa idea di Gv 18,36, dove attraverso i «nomi» si mettono in relazione Gesù e Barabba.
I due discepoli che chiedono posti di comando non rappresentano il Servo che muore sulla croce, ma solo se stessi come presuntuosi detentori di un potere giudicante che hanno travisato: «fra voi però non è così» (Mc 10,43). Gesù non dice «tra voi non sia così», quasi fosse solo un augurio e nulla più. Il testo greco usa il verbo «io sono» al tempo presente indicativo per indicare un’azione o uno stato permanente e duraturo. Questa forma contiene in sé un obbligo morale che ha il peso di un comandamento: «fra di voi “non deve mai” essere così» come è per i «grandi», ma «deve essere sistematicamente» alla maniera del Figlio dell’uomo. Servire vuol dire che più si ha autorità, più si deve indossare il grembiule dell’ultima Cena (Gv 13,4-5), più si è in alto e più ci si deve abbassare (Lc 14,11).
L’idea di riscatto si trova nella 2a parte di Mc 10,45: «dare la propria vita in riscatto per molti». Per «riscatto» = «prezzo di liberazione/riscatto», traducendo la più complessa semantica ebraica, che a sua volta si forma dal sostantivo «go’el = vendicatore/liberatore», normalmente tradotto in italiano con «redentore». Il «Go’el» è colui che ristabilisce un diritto eluso, conculcato o negato, con l’idea di uno scambio sotto garanzia. Dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia e fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme (68-70 d.C.), quindi durante il tempo della vita di Gesù, il concetto di «vendicatore/ liberatore» era diffuso.
Nota di costume orientale
Nella tradizione biblica quando una persona veniva portata in giudizio e gli anziani si riunivano alla porta della città poteva essere assolta o condannata, in base alle prove che a volte potevano non essere schiaccianti. Se uno dell’assemblea, persona stimata per la sua dirittura morale da tutta la comunità, si alzava e si metteva in silenzio accanto all’accusato, il tribunale, in forza della presenza di questo «go’èl» o vendicatore che impegnava tutta la sua autorevolezza e la sua dignità a favore dell’accusato, sospendeva il giudizio e dichiara la non procedibilità. Il «go’èl» con il suo gesto «vendica» l’innocenza, cioè distrugge l’accusa ingiusta e la mostra in tutta la sua mostruosità. Egli riporta le cose alla loro proporzione, cioè al loro «principio». Gesù sulla croce svolge questo compito di «go’èl». Lasciandosi inchiodare sulla croce come un malfattore, egli si è assiso a fianco dell’umanità accusata di peccato, non si è limitato a dichiararne l’innocenza che non c’era, ma ha chiesto che la condanna spettante all’umanità ricadesse su di lui.
Il resto dell’espressione «per molti» indica la moltitudine non come parte del tutto, ma come totalità. L’uomo nella sua condizione non ha nulla da offrire perché la morte tutto consuma e alla morte non c’è scambio possibile. San Paolo lo dice espressamente (Rm 5,7-8) e risponde che solo Dio può presentare un riscatto (Sal 49/48,9.15; Is 52,3): è questo il senso della missione del «Servo di Yahwèh» (Is 53,10). Egli dà la vita, cioè la offre volontariamente a favore non di pochi ma di «molti» che, in greco, ha il senso dell’universalità/totalità. Paolo, che non ha incontrato il Signore in un’amena passeggiata, ma si è identificato con lui, si vanta di essere suo imitatore come «schiavo di Cristo Gesù» e solo per questo «chiamato apostolo» (Rm 1,1). In altre parole il suo essere autorità è conseguente al suo identificarsi nella natura di Gesù ministero e quindi servo. Egli, infatti, non esita a confessare di avere regalato la propria libertà a colui che lo ha «afferrato al volo/acchiappato» (Fil 3,12). Nella logica del Regno, c’è una parola che ci appartiene di diritto e quando la viviamo ci libera da ogni preoccupazione inutile: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10). Siamo solo servi di Dio e servitori/diaconi del Popolo santo di Dio. Tutto il resto viene dal maligno (Mt 5,37). Il giorno in cui nella Chiesa questa prospettiva del «Servo di Yahwèh/Gesù» diventerà il programma pastorale del popolo e della gerarchia, quel giorno sarà l’inizio del riscatto di tutta l’umanità, il primo giorno della pace universale e l’anticipo degli ultimi tempi.
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