Mensa della Parola: Is 40,1-5.9-11; Sal 85/84,9ab-10; 11-12; 13-14; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8
La liturgia della 2a domenica di Avvento dell’anno-B che è avvolta in un clima di attesa pacata, oggi scoppia in due grida: quello di consolazione del 2° Isaia e quello di Giovanni Battista. L’uno e l’altro si confrontano con il «deserto». Il primo vede il «deserto» come via di fuga e quindi prospettiva di salvezza: «Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore...”» (Is 40,3). Il secondo si rivolge direttamente al «deserto» visto come desolazione e vuoto di umanità: «Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la strada del Signore…”» (Mc 1,3). Il primo grido risuona nell’esilio e nel deserto di Babilonia; il secondo grido nella terra promessa, in Palestina, ed esprime il deserto dell’umanità smarrita anche quando attende Dio. Il primo invita a costruire una strada «nel deserto» per facilitare il ritorno dopo la liberazione che scorge all’orizzonte di una nuova epoca storica; il secondo invita a farci noi stessi strada interiore per accogliere il «Dio che viene». Il primo annuncia la consolazione della fine dell’esilio; il secondo indica il «principio del vangelo» che è la persona stessa di Gesù. Il primo annuncia che Dio viene con potenza; il secondo annuncia che giunge il più forte. Il primo porta a Gerusalemme la lieta notizia che il Pastore d’Israele ritorna alla testa del suo gregge; il secondo grida che Gesù, il Dio-vicino, consacrerà con il battesimo di Spirito Santo quanti accolgono il grido del profeta.
Mettiamo a confronto Is 40,3 (1a lettura) e Mc,1,3 (vangelo):
Dice Isaia 40,3: «Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore ...”».
Dice Marco 1,3: «Voce di uno che grida nel deserto: “Preparate la strada del Signore …”».
Marco cita lo stesso testo di Isaia, ma cambia la prospettiva che in italiano si evidenzia spostando i due punti da prima a dopo la parola deserto, modificando non solo il contesto in cui la «voce» grida, ma anche il contenuto dell’annuncio, sebbene materialmente possa apparire lo stesso. Gli Ebrei deportati a Babilonia sono costretti a costruire una strada lunga e larga nel deserto, segno della potenza di Babilonia. Il re babilonese la percorrerà alla testa della grandiosa processione di Capodanno in onore del dio Mardùk. L’angoscia nei deportati è abissale: i figli di Yahwèh devono costruire una strada a un idolo, a un dio straniero. Rifiutarsi significa morire, lavorare significa diventare complici di idolatria. Che fare? Il profeta, che legge gli eventi con gli occhi di Dio, va oltre le apparenze e riesce a vedere quello che i deportati non sanno vedere perché chiusi nel loro esilio e ripiegati nella loro sofferenza.
La profezia è annunciare leggere gli eventi che accadono alla luce dell’intelligenza della fede, alimentata dalla Paola di Dio, e capirne il senso nascosto e non evidente. Il 2° Isaia, che vive tra il VII e il VI sec. a.C., vede nella strada che gli esiliati sono costretti a costruire non un’adesione all’idolatria del dio Mardùk, ma uno strumento della Provvidenza: gli esiliati ritorneranno dall’esilio a Gerusalemme senza più dover attraversare il deserto, perché marceranno sulla comoda strada, preparata da loro stessi. Da qui prende avvio il proclama sugli esiliati: il «vangelo della consolazione» che invita a fidarsi di Dio e ad aprire gli occhi per leggere ciò che lui scrive nella storia. Il profeta è informato dei movimenti politici tra i popoli. Sulla scena del mondo orientale è apparso un nuovo astro nascente: la Persia di Ciro il Grande (attuale Iran), mentre Babilonia (attuale Iraq) è in procinto di crollare come potenza. Per questo l’autore, un anonimo discepolo del 1° Isaìa, invita a costruire la strada nel deserto perché servirà agli stessi esiliati. Chi guarda agli avvenimenti con gli occhi della Parola di Dio, sa leggere in profondità, sa cogliere l’intelligenza (intus-lègere) della realtà e individuarne l’interiorità. Il ritorno dall’esilio, intravisto attraverso la filigrana del movimento dei popoli, è descritto e prospettato come una grande epopea, una riedizione dell’esodo degli antenati con la stessa abbondanza di allora: il deserto diventa un giardino, l’arido stilla acqua, la steppa rifiorisce come un prato e la pace domina su ogni fatto e persona.
Mc applica lo stesso testo alla nuova situazione che non ha più un deserto davanti da percorrere, bensì la condizione umana che aspetta Dio, lo desidera, ma è tanto occupata ad aspettarlo che quando giunge non lo riconosce. Giovanni Battista ha questa funzione: indicare la strada del cuore, la via della purificazione e della conversione per essere in grado di accogliere colui che viene dopo e che è più forte. Il suo vestito e il suo cibo lo accreditano come uomo del deserto, dallo stile austero che più tardi Gesù metterà in contrasto con le mollezze delle regge: «7Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 8[…]Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! 9[…]Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta» (cf Mt 11,7-9; Lc 7,24-25).
Giovanni annuncia una parola di penitenza, cioè di purificazione e insegna un metodo per diventare più leggeri, più capaci di essere spirituali. Egli è il «messaggero» che precede la venuta del Signore – il Precursore – previsto dal profeta Malachìa (Ml 3,1). Giovanni il Battezzante è affascinante perché la sua consistenza e solidità sta solo nella voce. Egli non è qualcuno, non è un ruolo, non è padrone nemmeno della sua identità perché è solo una voce: «Io sono voce di chi grida nel deserto …» (Gv 1,20-23).
Anche se sono un deserto… anche se mi sento un deserto … c’è sempre una voce che grida per me, che grida a me: il Signore viene a cui non posso non rispondere: «Maranà thà/Signore nostro vieni!» (1Cor 16,22; Ap 22,20). Per questo invochiamo lo Spirito Santo che sostiene la nostra fragilità e la nostra debolezza (Rm 8,26).
Sia la prima lettura che il Vangelo ci parlano di deserto e della necessità di aprire una strada. Chi si mette in strada è sempre bifronte: lascia qualcosa e va verso qualcuno. Bisogna però conoscere la strada che si percorre, altrimenti c’è il rischio di andare a zonzo e di correre per non arrivare da nessuna parte. Nel cammino di Avvento siamo giunti alla seconda candela. Oggi la luce aumenta per accompagnarci lungo il cammino della vita. Anche se stiamo fermi, noi camminiamo lo stesso verso il compimento dei nostri giorni, verso la pienezza della vita che è la morte. Vogliamo attingere forza e luce per accogliere il vangelo e per consumarci di vangelo, la fiamma che sempre deve ardere nel nostro cuore. Preghiamo:
Accensione 2a fiamma di Avvento 1. Signore, è il secondo cero, principio dell’Avvento. Sia luce nella vita, sia fuoco nelle scelte, fiamma che avvolge il cuore, nell’olio dell’attesa. 2. La fiamma il cero arde e mai lo consuma, si abbèvera al tuo pozzo, col secchio di preghiera. 3. Lo Spirito infuocato tu versi nel roveto del cero che si scioglie danzando a piena gioia il dono della vita. 4. Contempli il volto orante, o Santo d’Israele, che resta qui ardente, a farti compagnia, nel simbolo del cero. 5. Di ardere e bruciare ci chiedi ovunque siamo, perché con ambo le tendenze, del cuore il bene e il male, amarti noi possiamo. 6. Si scioglie l’Assemblea, nel mondo noi si torna, restando qui oranti, col cuore modellato in ogni incontro generante e in cera trasformato. 7. È Avvento, Signore! Il tempo dell’attesa, l’eternità del tempo, che segna la tua Chiesa che scava il nostro cuore, donato e ritrovato. Amen. Oppure Inno a Cristo «Sole di giustizia» Con l’inno della Liturgia delle Ore inneggiamo a Cristo «Sole di giustizia», simboleggiato da questa fiamma, immagine del desiderio di ardere nella nostra vita. 1. Notte, tenebre e nebbia, fuggite: entra la luce, viene Cristo Signore. 2. Il sole di giustizia trasfigura ed accende l’universo in attesa. 3. Con gioia pura ed umile, fra i canti e le preghiere, accogliamo il Signore. 4. Salvatore dei poveri, la gloria del tuo volto splenda su un mondo nuovo! 5. A te sia lode, o Cristo, al Padre e al Santo Spirito, oggi e sempre nei secoli. Amen.
Preghiamo
Signore, accendiamo la 2a candela, simbolo della Parola che illumina il nostro cammino.
Arde e si consuma lentamente, in silenzio, fino a scomparire.
Nella nostra giornata possiamo anche noi ardere e consumarci d’amore.
Il tuo Spirito alimenti la nostra fiammella perché possiamo essere sorgente di calore e di luce per quanti incontriamo sul nostro cammino.
Giungeremo alla santa Eucaristia, anticipo del regno, non da soli, ma con una moltitudine di fiammelle che nessuno potrà contare, di ogni lingua, popolo e nazione perché il mondo intero sarà un solo fuoco d’amore. Venga lo Spirito, luce beatissima del tuo amore, nei nostri cuori. Amen
Esame di coscienza
La metafora della strada indica che nulla è mai fermo, ma tutto si muove verso uno scopo e una mèta. La strada non esiste per essere posseduta, ma per essere attraversata, perché essa collega il punto di partenza con l’obiettivo da raggiungere. La strada è una relazione che impone un impegno e una fatica. La strada non è fuori di noi, ma dentro la nostra anima che conosce già la direzione e la mèta. Perché la confusione e la superficialità non ci sovrastino e per acquistare una limpidezza di sguardo, accostiamoci con fiducia al battesimo di penitenza di Giovanni e domandiamo perdono dei nostri peccati per essere degni che Lui entri nella nostra casa, e sulla sua Parola possiamo gettare le nostre reti.
Signore, Dio di consolazione e sostegno dei fragili e dei deboli. Kyrie, elèison!
Cristo, che vieni a battezzare nel fuoco e nello Spirito Santo. Christe, elèison!
Signore, tu, Creatore, sciogli il legaccio dei nostri sandali. Kyrie, elèison!
Cristo, che porti a noi il vangelo della conversione del cuore. Christe, elèison!
Signore, tu vuoi che nessuno perisca, ma che tutti ci salviamo. Kyrie, elèison!
Cristo, tu sei il Figlio di Dio, il vangelo vivente del Padre. Christe, elèison!
Dio consolatore d’Israele e speranza degli esiliati, colui che ci chiama convocandoci alla mensa della Parola, del Pane, del Vino e della Fraternità, il Dio che non tarda a realizzare la sua promessa, il Dio che ha consacrato Gesù Messia e Signore servo dei poveri e degli emarginati di tutti i tempi, abbia misericordia di noi perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e preghiera
Mc è il primo degli evangelisti che inventa il genere letterario «vangelo» che anche Mt e Lc, assumono come modello per i loro vangeli, mantenendo anche la struttura di Mc. È databile dall’anno 70 d.C., anno della distruzione del tempio e di Gerusalemme. Il suo vangelo ha uno schema semplice:
1. Un prologo costituito da un trittico (Giovanni Battista, battesimo e tentazioni).
2. La descrizione dell’attività di Gesù (parole e fatti).
3. Il racconto della passione e morte che culmina con la risurrezione.
4. Il vangelo di Mc è senza conclusione (Mc 16,9-20 è un’aggiunta posteriore)
Il vangelo marciano è destinato a coloro che non conoscono Gesù, quindi ai catecumeni. È un vangelo adatto ai bambini perché la figura di Gesù è sempre in movimento, affascinante e attraente. Mc 1,1 è il titolo di tutto il vangelo come opera e probabilmente è stato aggiunto in epoca successiva, quando i quattro vangeli furono raccolti insieme (seconda metà del secolo I).
Nota esegetica
Tutte le Bibbie moderne traducono Mc 1,1 così: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio». Si preferisce tradurre più precisamente con «Principio del Vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio», dove la parola «principio» acquista un valore più profondo del semplice «inizio». Mentre «inizio» è connesso con la temporalità cronologica, «principio» fa riferimento più adeguatamente con fondamento o, se si vuole, con la radice e quindi l’origine. L’autore, ebreo che conosce le Scritture, vuole espressamente rifarsi al racconto della creazione di Gn 1,1 che descrive non l’inizio temporale, ma il fondamento stesso dell’opera «prima» di Dio. Il «principio» della Genesi non descrive il «momento» iniziale della creazione, ma la sua radicale fondazione nell’azione di Dio. Allo stesso modo, qualche decennio dopo Marco, alla fine del secolo e inizio del secondo secolo, l’autore del vangelo di Giovanni inizierà l’opera con la grande ouverture sinfonica con il tema del Lògos che riprenderà costantemente fino alla fine: «in principio era il Lògos/Verbum/Parola/Ragione» (Gv 1,1). Anche qui non si tratta di «inizio» temporale, ma di radicamento, di fondamento del progetto di alleanza; qui si parla di «origine», non di tempo. Il Vangelo non è un libro o una storia biografica o un racconto edificante o una morale, ma una persona che Marco vuole fare conoscere e di cui vuole fare innamorare gli ascoltatori. Per Marco, il Vangelo è Gesù che è Cristo. Il Vangelo è il Figlio di Dio. Il Vangelo è la Persona del Lògos.
Due temi s’intrecciano nella liturgia di oggi, e sono la conversione e la strada. Del primo abbiamo parlato altre volte, per cui ci soffermiamo un poco sul secondo. L’arrivo di Dio comporta una trasformazione: ciò che è alto si abbassa e ciò che è basso s’innalza: le difficoltà si risolvono e le fatiche si stemperano, quasi a dire che Dio non viene a imporre un giogo nuovo di schiavitù, ma apre una strada piana e dritta per facilitare il cammino. L’umanità è in cammino, percorre una strada caotica e spesso non si rende conto di dove stia andando: parla di pace e sceglie la guerra, parla di giustizia ed ecco il sopruso, parla di governabilità ed ecco le dittature striscianti, parla di diritti ed ecco le deviazioni, le manipolazioni, le torture. Questo mondo pensa di percorrere la sua strada senza Dio, rendendolo superfluo o addirittura negativo. La strada da percorrere è molto lunga ed è necessario abbassare i monti della povertà e della fame, come colmare le valli della disuguaglianza e della malattia per avere una strada dritta che porti all’uguaglianza e al rispetto «effettivo» dei diritti di ogni singola persona in ogni parte del mondo.
Israele ha vissuto «sulla strada» la parte migliore della sua esperienza di popolo. Abramo è nomade per vocazione, l’esodo non è altro che una strada lunga quarant’anni verso una Promessa, fondata solo sulla Parola, non sulle garanzie. Israele non fa in tempo a insediarsi nella terra tanto desiderata e attesa che deve rifare i bagagli e rimettersi in cammino, ma questa volta verso l’esilio, letto e vissuto come «castigo» per l’infedeltà all’alleanza, al patto di vita. Per Israele è la strada il vero tempio dove approfondire l’esperienza religiosa.
Strada è sinonimo di provvisorietà, insicurezza, essenzialità. Chi cammina non può trasportare la casa, ma deve scegliere il necessario perché la strada non ama il superfluo. Sulla strada ci si fida della parola di chi s’incontra e se ne accetta la compagnia (Emmaus - Lc 24,13ss). Israele non può affidarsi ad altro che alla nudità della Parola di Dio che resta l’unica garanzia per tutto il viaggio. In Es 13,17-18 si legge che fu Dio stesso a scegliere la strada da percorre e in Es 13,21 continua che Dio guidava la marcia stando alla testa dei pellegrini. Il vangelo di Luca è strutturato sul genere letterario del «viaggio», l’esodo del Figlio di Dio dalla Galilea a Gerusalemme, la città del compimento della volontà di Dio, verso dove egli si dirige risoluto (Lc 9,51). Gesù s’identifica con la strada e definisce così la sua identità e il suo ruolo: «Io sono la strada/la via» obbligata per andare al Padre (Gv 14,6). Il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo a differenza di volpi e uccelli che hanno tane e nidi (Lc 9,58): egli ha solo la sua strada che viene dal Padre e ritorna al Padre. La sua strada però passa per la morte, per la croce che diventa così il luogo privilegiato della sua obbedienza filiale perché egli è nella singolare condizione di «Uomo-Dio», in cui l’uomo è assorbito totalmente dalla fedeltà eterna al Padre. Per questo egli può dire ai primi discepoli e a noi: «Vieni, seguimi!» (Mc 10,21).
«Seguire…! Preparare la strada ...»! La nostra vera identità di credenti è sulla strada: siamo per costituzione viandanti, pellegrini, nomadi, come i nostri antenati, come i patriarchi, come Israele, il popolo della nostra origine. Siamo nati su una strada e siamo mandati sulle strade del mondo per essere testimoni del Vangelo. Credere non è difficile: significa camminare per andare alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Credere non è avere risposte nitide e saporose, ma possedere uno spirito escatologico che guarda al cosmo intero come orizzonte per trovare tutti «i pezzi frantumati di Dio» con lo scopo di ricomporne il corpo nella pienezza del tempo, quando sia i singoli sia i popoli avranno imparato alla scuola della parola di Dio a vivere un nuovo modo di relazionarsi e di riconoscersi. Allora sarà compiuto il «regno di Dio» e noi non avremo vissuto invano. Credere è un movimento che va da sé verso l’esterno, verso gli altri e attraverso gli altri verso l’Altro. Il movimento ha duplice direzione: è orizzontale, animata dalla philìa/amore di amicizia-attrazione-desiderio, l’amore che sceglie perché riconosce e verticale, animata dall’agàpē/amore gratuito che dona per sovrabbondanza, a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Dopo avere trovato gli altri, Dio, se c’è, lo si troverà alla fine del percorso, come un premio.
Dai primi cristiani il Cristianesimo fu chiamato «la Via» anche nel senso che è Dio che cammina verso di noi, rendendoci così più facile il nostro cammino di ricerca. Quando avremo percorso tutta la strada sull’esempio e l’imitazione del Signore Gesù, ci accorgeremo che i poveri sono i veri evangelizzatori perché saranno loro le nostre credenziali, coloro che ci apriranno gli occhi perché possiamo riconoscere e «vedere» il volto di Dio. Dio si può trovare perché non è lontano, se restiamo accanto e insieme a Gesù: non è nei cieli perché tu possa dire: non posso raggiungerlo; non è negli abissi del mare perché tu possa dire: mi è impossibile… Egli è vicino, è nel tuo cuore (Dt 30,11-14).
Lo sapevano al tempo di Gesù e lo sanno oggi i Rabbini che applicano anche allo studio della Scrittura ebraica l’idea concreta di «strada»: Il midràsh, infatti, è un modo di fare esegesi, spiegando la Scrittura con la Scrittura stessa (nella festa dell’Immacolata Concezione dell’8 dicembre ne diamo un saggio). Midràsh significa ricercare/scrutare/esaminare/studiare e ha attinenza con la «strada/via/cammino»: cercare significa scrutare la Scrittura che è la strada maestra per trovarlo. Camminare sulla via della Scrittura significa indagare, sviscerare, spiegare, interpretare. Camminare è conoscere. Conoscere è amare. Amare è sperimentare. Sperimentare è ripetere, prendere confidenza, abituarsi alla novità, raggiungere il riposo dello spirito in Dio.
Compito dei cristiani nel mondo è costruire la strada abbassando le asperità e riempiendo le valli per facilitare agli uomini e alle donne del nostro tempo l’incontro con il Dio vicino, il Dio Padre e Redentore. Ogni uomo, ogni donna, ogni popolo ha un proprio itinerario spirituale che deve incrociarsi con Cristo «Via» che viene all’appuntamento della vita. Della vita eterna. Essere discepoli significa percorrere la stessa strada del Maestro e Signore, verso il compimento della nostra maturità, verso la Gerusalemme della nostra anima dove possiamo incontrare nella verità e nella pace la volontà di salvezza di Dio. L’Eucaristiache celebriamo è sempre un’iniziazione alla strada pasquale che percorriamo con tutta l’umanità, è il pane che ha nutrito Elia pellegrino perseguitato verso la montagna di Dio «perché troppo lunga è la strada per te» (1Re 19,7), il pane che ci rafforza nell’affrontare le asperità della vita, mentre attendiamo il ritorno del Signore Gesù, facendo nostre le parole dell’Apocalisse: «E lo Spirito e la giovane sposa dicono: “Vieni!”. Così anche chi ascolta dica: “Vieni!”» (Ap 22,17). Noi che ascoltiamo e mangiamo possiamo e vogliamo dire: «Sì, vengo presto! Amen! Vieni Signore Gesù» (Ap 22,20).
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