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  • Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 2ª DI PASQUA

Mensa della Parola: At 4,32-35; Sal 118/117,1-4. 16-18. 22-24; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

 

Con la domenica di oggi, 2a dopo Pasqua, inizia il «tempo pasquale», un periodo di sette settimane, circa cinquanta giorni, durante i quali siamo invitati ad assaporare ciò che abbiamo vissuto e sperimentato in modo intenso ed emozionante nella Madre delle Settimane, nel Santo Triduo. La domenica è detta anche «dominica in albis», perché i catecumeni, battezzati nella notte di Pasqua, oggi riconsegnavano la veste bianca (= albus alba/bianca), simbolo della nuova identità e dignità di figli. Nei primi secoli essi la indossavano per una settimana intera e «otto giorni dopo» la deponevano per riprendere la vita quotidiana con l’impegno di vivere il battesimo e le sue promesse. I Padri della chiesa che, come abbiamo visto, chiamavano la Settimana Santa «La Settimana delle Settimane», indicavano quella successiva alla Pasqua con un’espressione particolare: Settimana della Mistagogìa, che potremmo definire la sperimentazione graduale di ciò che si è celebrato.

Il tempo pasquale comprende il periodo che intercorre tra Pasqua e Pentecoste. Per Giovanni la Pasqua e la Pentecoste coincidono nella morte di Gesù: «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30) che non è più una consegna materiale come avvenne per Mosè sul Sinai che dovette ricevere le tavole di pietra, ma è il dono del suo Spirito come pegno e garanzia della sua presenza. La comunità cristiana vive nel tempo e nello spazio e quindi ha bisogno di distillare eventi e conoscenze perché non può apprendere tutto in una volta sola. Per questo la Liturgia ha bisogno di tempo e diluisce il «Mistero Pasquale» in un periodo di apprendimento che diventa catechesi e formazione. Come Gesù istruisce i discepoli di Emmaus lungo la via: «E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,1-53, qui 17), allo stesso modo la Chiesa ci istruisce lungo la via della vita, distribuendo nei «tempi liturgici» l’unico evento che è Gesù Cristo.

Il periodo che intercorre tra la Pasqua e la Pentecoste, quindi, è un tempo non solo di apprendimento, ma anche di formazione, A Pasqua, infatti, sperimentiamo la risurrezione come grazia e dono, mentre a Pentecoste ne prendiamo coscienza in modo definitivo e impegniamo cuore e volontà nell’accettazione del dono per renderlo visibile nella vita in forza dello Spirito Santo. È la stessa relazione che intercorre tra la liberazione in Egitto e il dono della Toràh al monte Sinai. In Egitto fu dichiarato l’atto di liberazione, al Sinai il popolo liberato prende coscienza della libertà che fu estesa e codificata in un codice di alleanza. In Egitto è solo Dio che «ha visto e scende a liberare» (Es 3, 8), al Sinai vi sono due contraenti che si assumono i relativi impegni del patto di alleanza. A Pasqua Dio interviene agendo, a Pentecoste il popolo risponde accettando la libertà come impegno.

La differenza tra gli Ebrei dell’Esodo e noi però è anche grande: gli Ebrei attraversarono il deserto, noi camminiamo guidati dallo Spirito del Risorto. Gli Ebrei aspettavano i segni (acqua, manna, vita), noi viviamo in contemplazione di «tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno» (Lc 24,19). Gli Ebrei vivevano i simboli, noi assaporiamo il sacramento; gli Ebrei aspiravano alla terra, noi incontriamo una Persona.

Il tempo tra Pasqua e Pentecoste che chiamiamo «tempo pasquale», ha una caratteristica che segnerà da oggi in poi la storia cristiana: Gesù non c’è più, egli è presente, ma assente fisicamente. Tutti parlano di lui, ma non si può né vederlo né sperimentarlo come facevano prima. Inizia il tempo dei testimoni, di coloro cioè che si fanno garanti delle sue parole e delle sue azioni. In primo piano non vi è più la persona di Gesù, ma l’operato degli apostoli. Inizia così il tempo della Chiesa sotto la guida dello Spirito Santo. Per questa ragione, nelle settimane che intercorrono tra la Pasqua e Pentecoste, si tralascia la lettura del Primo testamento e si leggono gli «Atti degli Apostoli».

La ragione è semplice: il vangelo riguarda Gesù, gli Atti parlano degli apostoli: i primi 12 capitoli di Pietro, gli altri (dal 13 al 28) di Paolo. Si potrebbe dire che se il Vangelo descrive gli atti di Gesù, gli Atti degli apostoli narrano il Vangelo degli apostoli in missione. O, se si vuole, si può anche dire che gli Atti sono il Vangelo dello Spirito Santo, protagonista di primissimo piano in tutto il libro. Questa struttura afferma e mette in rilievo la continuità tra Gesù e la Chiesa apostolica, fatto non puramente cronologico, ma drammatico perché la Chiesa esiste solo per custodire e annunciare il contenuto che è la Persona del Signore Gesù. Tutte le volte, infatti, che distrae lo sguardo da lui e si ferma su sé stessa, cominciano i guai e spunta il clericalismo come la gramigna. Questo spiega perché il tempo della Chiesa è anche e specialmente il tempo della vigilanza e del discernimento.

L’espressione del vangelo odierno «otto giorni dopo» (Gv 20,26) ha tutto il sapore di una catechesi domenicale, quasi che lo stesso Gesù volesse rinnovare il «memoriale» domenicale, riaffermando il suo testamento. Non è solo un’indicazione di tempo, ma esprime la dinamica dell’anima che resta così strutturata in «ottava», cioè nella misura del Messia, di cui il numero otto è simbolo e indicazione. Ogni otto giorni noi ci riuniamo come gli apostoli nel cenacolo per ricevere la visione del Risorto e sperimentare i segni dei chiodi nella sua carne. Ogni otto giorni noi riceviamo l’investitura di nuovi «Adamo» perché il Risorto ci ri-crea a sua immagine soffiando in noi l’alito di vita (Gen 2,7), cioè lo Spirito Santo, che diventa così la nostra guida sulle strade della testimonianza nel mondo.

L’Eucaristia che celebriamo non rappresenta un rito iniziatico, ma lo spazio e il tempo in cui Dio si lascia imprigionare perché anche noi possiamo accedere alla risurrezione di Gesù, allo stesso modo degli apostoli, per ricevere come loro lo stesso dono dello Spirito in vista dei sette giorni settimanali che siamo chiamati a vivere. Vivere nel cuore della storia, sulle strade del mondo, nel nostro lavoro, in mezzo e insieme ai fratelli e alle sorelle cui siamo mandati e di cui siamo parte perché figlie e figli dello stesso Padre in vista dell’unico regno. Per intercessione dei Patriarchi e delle Matriarche del popolo d’Israele, degli Apostoli e delle Apostole della Chiesa nascente invochiamo lo Spirito Santo.

Cristo Risorto si fa sperimentare dagli apostoli perché devono testimoniare con la vita Colui che hanno vissuto nella fede. A loro il Signore affida il suo Spirito, lo Spirito della nuova creazione, perché vadano nel mondo alla ricerca di ogni figlia e figlio di Adamo ed Eva a cui offrirlo come pegno per il loro ingresso nel nuovo giardino di Èden che è l’umanità risorta dell’«uomo nuovo» (Ef 4,24). Ci disponiamo alla contemplazione del mistero del Risorto, prendendo coscienza di essere il cenacolo oggi riunito per la testimonianza.

Esame di coscienza

Tre segni pone Gesù per i suoi apostoli nel giorno ottavo: si offre vivo, dona lo Spirito e rimette i peccati. Nell’esaminare la nostra coscienza per essere vivi davanti a lui e ricevere il suo Spirito, non abbiamo paura dei nostri peccati perché solo il Signore può rinnovarci nell’intimo e trasformarci in pietre di carne, dense di vita risorta: è Lui infatti l’«Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo» (Gv 1,29). Invochiamo la misericordia di Dio su di noi affinché a nostra volta possiamo essere donne e uomini di misericordia viva.

Signore risorto, tu sei l’Agnello che prendi su di te il peccato del mondo. Kyrie, elèison!

Cristo Gesù, Figlio Unigenito del Dio vivente che doni il tuo Spirito alla Chiesa. Christe, elèison!

Signore Gesù, che vieni con acqua e sangue, per darci la redenzione sacramentale. Kyrie, elèison!

Dio santo, che ha risuscitato il Santo d’Israele e lo ha costituito Signore e Messia di tutto il creato, per i meriti degli Ebrei che hanno creduto in lui e lo hanno accolto come Figlio unigenito del Padre, per i meriti dei santi apostoli che hanno ricevuto la potenza dello Spirito Santo per scacciare la paura, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen!

Spunti per la riflessione e preghiera

Il brano del vangelo riporta il resoconto di due apparizioni ufficiali: una al gruppo degli apostoli meno Tommaso e una al gruppo completo compreso Tommaso. I due resoconti hanno molti elementi comuni. Anche Lc 24, 36-40 riporta elementi comuni al vangelo di oggi e questo è un segno che sia l’autore del IV vangelo che Lc attingono a una stessa fonte che riporta liste di apparizioni ufficiali.

Vediamo quali sono le caratteristiche di questo brano.

Gv dice che è la sera di quello stesso giorno, cioè il giorno della risurrezione. In quel giorno era avvenuta la nuova creazione rinnovata nel sangue dell’agnello pasquale. Sul monte Golgota domina il Crocifisso risorto, come sul monte Sinai dominava Yahwèh nell’atto di dare la Toràh. Dal Sinai scendeva la Toràh scritta sulla pietra; dal Gloglotta scende lo Spirito del Risorto che inaugura il nuovo esodo non verso una Terra Promessa, ma verso il mondo in direzione del regno di Dio. Ai piedi del Sinai, il popolo si deve purificare, dal monte della Croce discende il perdono e la misericordia.

Leggiamo in Gv 19,30: «Gesù disse: “È completato!”. E, chinato il capo, consegnò lo Spirito». Come Yahwèh avevacompletato i cieli e la terra (Gn 2,4) creando l’uomo a cui aveva infuso il suo alito vivente (Gn 2,7), così Gesù compie la nuova creazione, infondendo il suo Spirito nell’uomo nuovo e nella donna nuova che devono intraprendere il nuovo esodo non più verso la terra promessa di Cànaan, ma verso il regno di Dio.  In questo giorno si compiono, anzi si completano profeticamente tutti i fatti principali della storia della salvezza:

Gv 20,19:

- È sera/notte che evoca la notte della liberazione dall’Egitto: «Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dalla terra d’Egitto» (Es 12,42); «Ti ha fatto uscire fuori dall’Egitto, durante la notte». È la notte dell’abbandono dei discepoli, dopo che Gesù si nasconde per sfuggire la tentazione del potere: «Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare, salirono in barca e si avviarono verso l’altra riva del mare in direzione di Cafarnao. Era ormai buio e Gesù non li aveva ancora raggiunti …» (Gv 6,15-17). È la notte del tradimento quando [Giuda] «preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (Gv 13,30). Nella Bibbia la notte è testimone degli eventi di Dio e delle debolezze degli uomini.

- Le porte sono chiuse per paura dei Giudei. Di notte la paura aumenta perché le ombre ingigantiscono la fragilità e assopiscono le responsabilità. Gli apostoli stanno in un mondo ostile e si nascondono per paura delle conseguenze: nel tempo in cui l’autore scrive il IV vangelo, l’opposizione sinagoga-chiesa è aspra e la paura fa il resto. In Egitto, durante l’ultima piaga, gli Ebrei si rinchiudono nelle loro case per ordine di Dio per dare spazio all’angelo della distruzione (Es 12,21-23. 29-30). Anche il profeta Isaia aveva invitato a chiudersi in casa in attesa che il Signore abbia eseguito il giudizio contro i malvagi: «Va’, popolo mio, entra nelle tue stanze e chiudi la porta dietro di te. Nasconditi per un momento finché non sia passato lo sdegno. Perché ecco, il Signore esce dalla sua dimora» (Is 26, 20-21). Ora gli apostoli sono rintanati non in attesa del Signore, ma per paura di essere scoperti suoi amici. Pietro poi lo aveva rinnegato qualche ora prima (Gv 18,17.25-27). Di notte, la paura rende insicuri e più vulnerabili, specialmente se manca il punto, ogni punto, di riferimento. Tutto è ostile e nemico. Soli, chiusi e assediati, orfani di lui. Quale futuro? La loro fede è popolata da dubbi e sono senza forza. Credere non è avere certezze, ma saper portare i dubbi che popolano il cuore e la ragione. Anche Nicodemo, membro influente del sinedrio e discepolo in segreto, per paura dei Giudei, va da Gesù di notte (Gv 3,2; 19,39). Sembra proprio il destino di Dio: restare solo in mezzo alla folla notturna che lo cerca per ucciderlo o per abbandonarlo. Eppure anche di notte, tutti si muovono attorno a lui perché è il Signore che muove tutto.

Gv 20,19-21:

Venne … stette in mezzo e disse loro: Pace… Il Signore esce dal suo sepolcro e si ferma in mezzo a loro. Come sul Golgota era stato «nel mezzo» dei ladroni, richiamando l’albero della vita che stava «nel mezzo» del giardino di Eden(Gn 2,9), anche in questa notte di salvezza, Gesù sta in mezzo a loro. Egli è la Shekinàh/Dimora cui converge l’esistenza stessa del gruppo, della chiesa. Israele vedeva la tenda del convegno e prendeva coscienza della presenza di Dio (Es 25,8; 29,45), ora è Dio stesso che sta «in mezzo», dando un significato compiuto all’esodo: «È la Pasqua del Signore» (Es 12,11). La prima parola che il Risorto, Albero vivente di Dio, pronuncia è la parola Pace a voi: Il primo frutto della Pasqua è dunque la Pace che diventa così sinonimo del risorto: «Egli è la nostra Pace» (Ef 2,14). Su questo frutto si gioca la credibilità dei cristiani perché la pace biblica e messianica è la somma di tutti i beni del regno di Dio. Quanto cammino ancora se molti cristiani credono che la pace si possa imporre con le armi, quante pasque devono ancora passare? «Shalòm – Pace» è parte del nome di Yeru-shall-aìm Gerusalemme perché Dio non può abitare se non in una città di Pace, una città costruita sulla Pace, perché la Pace è la sintesi di tutti i doni pasquali, il primo annuncio del Risorto: «Pace a voi!».

 

Gv 20,22:

Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”. Gv usa un verbo «soffiò/alitò» che è lo stesso che usa in Gn 2,7. Per creare l’uomo, Dio aveva alitato il suo soffio vitale sulla polvere del suolo, dando così consistenza alla fragilità per eccellenza (Gn 2,7). Il Risorto invece alita il suo Spirito sui discepoli come antidoto alla solitudine e alla paura. Già dalla croce, un attimo prima di morire, aveva «consegnato lo stesso Spirito al discepolo e alla Madre, simboli della nuova umanità (Gv 19,26-27); alle quattro donne ebree (Gv 19,25); ai quattro soldati pagani (Gv 19,23) che erano sotto la croce, rappresentanti del mondo credente e non credente. Per Gv il momento della morte coincide con il momento della Pentecoste perché la morte di Gesù è il grembo del nuovo popolo messianico e l’inizio del nuovo regno. Pentecoste diventa una nuova creazione perché l’uomo che nasce dalla Pasqua deve riprendere il cammino mai cominciato da Adamo: andare nel mondo ed essere l’immagine del Signore ri-creatore e anche la sua statua visibile per testimoniarlo anche redentore. Gli apostoli, creati e posti nel nuovo giardino, che è la chiesa, ricevono la missione di andare. Sono mandati ad annunciare che la Vita vive, la notte è passata e le paure sono sconfitte. Ancora una volta si compie la promessa che aveva fatto: «16Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 18Non vi lascerò orfani: verrò da voi» (Gv 14-16-18).

Ora che la creazione è stata restaurata, la missione può cominciare nel segno dello Spirito, il vero e unico Maestro nel Regno inaugurato a Pasqua. Pasqua è tutta qui: Dio è presente nello Spirito di Gesù che vive nella testimonianza di parole e gesti dei suoi discepoli. Risurrezione significa accorgersi di questa presenza e, da parte dei discepoli, renderla visibile, ma anche credibile, altrimenti Dio resta nel sepolcro, seppellito dal nostro perbenismo e dalla nostra religione di comodo:

«26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. 27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dá il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,26-27).

Gv 20,28:

Signore mio e Dio mio. È la conclusione finale: un’esplosione di desiderio più che di fede; un desiderio carico di sentimento e di abbandono confuso per avere dubitato della sua Parola. Possa questa invocazione di Tommaso, come l’Amen che ormai abbiamo imparato, diventare anche la nostra professione di fede quotidiana, specialmente quando abbiamo paura, quando siamo stanchi, quando crediamo di non farcela e quando siamo tentati di credere che il Signore sia assente. Allora, sempre ricordandoci di Tommaso, invochiamo con lui: “Signore mio e Dio mio”.

 

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