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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 2ª QUARESIMA

Mensa della Parola: Gn 22,1-19 [Lit.: Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18]; Sal 115/116,10.15.16-17.18-19; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10

 

La liturgia della 2a domenica di Quaresima ci presenta due monti. Il primo è il monte Mòria che la tradizione biblica giudaica identifica con il monte del tempio di Gerusalemme23. Su questo monte (oggi dentro la moschea custodita dai Musulmani) è conservata un’enorme pietra monolitica sulla quale, secondo Ebrei e Cristiani, Abramo legò il figlio Isacco per sacrificarlo a Dio (Gn 22,1-18); per i Musulmani è la roccia su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare Ismaèle, figlio di Abramo e della schiava Àgar (Gn 16,15) anche se il Corano non lo nomina, a differenza della Bibbia ebraica. Secondo la tradizione musulmana, il profeta Maometto prima di essere rapito al cielo, sostò su di essa durante il suo viaggio notturno proveniente dalla Mecca. Ancora oggi, questo «luogo» è il cuore dell’ebraismo e del musulmanesimo e quindi il fulcro della lotta fratricida tra Ebrei e Palestinesi. Il monte è il simbolo dell’esistenza stessa di Israele e dell’identità araba. I cristiani non hanno mai accampato diritti su questo luogo, perché ben presto accentrarono il loro interesse sul vicino Monte Calvario, oggi custodito nella basilica del Santo Sepolcro, su cui trasferirono tutte le prerogative che le tardive tradizioni ebraico-musulmane attribuivano al Monte Mòria.

L’apocrifo La caverna del Tesoro (fine sec. IV-V d. C.), seguendo la tradizione, prima giudaica e poi cristiana, colloca sul Monte Mòria non solo il sacrificio di Isacco, ma anche l’offerta di Melchìsedek (Gn 14,18-20; Sal 110/109,4) e, infine, la crocifissione di Gesù, che è l’agnello impigliato tra i rami dell’albero della croce. Lo stesso apocrifo identifica il Gloglotta cristiano, oltre che con il giardino di Èden (Gn 2-3), anche con il monte Mòria/tempio di Gerusalemme. È evidente che di storico qui non c’è nulla.

Il secondo monte che la liturgia di oggi ci presenta nel vangelo è quello della Trasfigurazione, che la tradizione identifica con il monte Tàbor, su cui non vi è tempio e non vi si celebra liturgia, ma vi è il Figlio di Dio, il quale, insieme ad Elia (la profezia) e Mosè (la Toràh), parlano del «suo esodo», cioè della morte di Gesù (Lc 9,30-31). Dal monte Tàbor Gesù guarda all’ultimo monte, a quel Calvario da cui non scenderà più la Toràh su tavole di pietra, ma lo Spirito del risorto per radunare il mondo in un unico popolo, il popolo redento attraverso il nuovo atto creativo della nuova creazione: «E reclinato il capo, con-segnò lo Spirito» (Gv 19,30).

Nel trattato Tehillìm (= Lodi/Salmi/Preghiere, 68) del Talmùd si dice che alla fine del mondo, nel tempo del Messia, Dio farà scendere la Gerusalemme celeste (Ap 21) su quattro monti: il Tàbor, l’Hèrmon, il Carmelo e il Sinai simboli dei quattro angoli della terra da cui Dio aveva raccolto un pizzico di polvere per creare Adamo e su cui radunerà i dispersi della fine.

I monti nell’antichità erano i luoghi di dimora degli «dèi», perché posti «in alto» più vicini al cielo, sui quali si offrivano sacrifici: si chiamavano appunto «alture» (1Re 22,44; 2Re 12,4; 14,4; 15,4.35; 17,32). Al tempo di Abramo, presso i Cananèi che abitavano l’attuale Palestina, erano in uso, come dappertutto, i sacrifici umani per propiziarsi i favori degli «dèi»: le figlie erano particolarmente votate al sacrificio di propiziazione. In questo contesto nasce il racconto del sacrificio di Isacco (1a lettura) che si pone come contestazione di questi usi: il Dio di Abramo si dissocia dalle altre divinità perché egli chiede l’obbedienza alla sua parola, non la vita dei suoi figli. Egli salva la vita non la toglie. Il Dio di Abramo guarda al cuore non alla quantità di sangue. Egli vuole sì il sacrificio, ma come adesione del cuore e non quello esteriore. Possiamo dire che il racconto del «sacrificio di Isacco» è un racconto di demitizzazione della religione vigente presso i popoli limitrofi.

Il sacrificio di Isacco, nella tradizione ebraica, è elemento centrale della vita e della fede d’Israele. Esso prende anche il nome di «legatura» perché Abramo legò Isacco sulla legna e Isacco si lasciò legare invitando il padre a stringere bene i nodi perché non capitasse che, anche senza volerlo, si mettesse a scalciare, rendendo nullo il sacrificio. In questo sacrificio volontario di Isacco, la tradizione cristiana ha visto sempre l’anticipo profetico della morte di Gesù che si lascia «legare» al legno della croce, come Isacco il quale, secondo la tradizione giudaica, è «uno che porta sulle spalle la croce». Gesù non si lascerà solo inchiodare sulla croce, ma dal suo trono di dolore, riuscirà a capovolgere la «legge del taglione», emanata dalla Toràh di Mosè: perdona i suoi carnefici, abolendo semplicemente la vendetta (Lc 23,34; Gn 4,24 e Es 21,24).

Saliamo anche noi sul monte dell’Eucaristia che ci svela lo splendore del Pane e del Vino, segni visibili della Vita del Signore donata senza contropartita: potremo «vedere» il volto trasfigurato di Gesù e a nostra volta possiamo intraprendere un cammino di trasfigurazione perché «Io-Sono il pane vivente disceso dal cielo. Se qualcuno mangia di questo pane, vivrà in eterno. Il pane, infatti, che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51).

Da una parte c’è la contestazione dei sacrifici umani da parte del Dio della Bibbia e dall’altra l’affermazione solenne che solo nello spogliamento totale, anche nella rinuncia dell’unico figlio, c’è spazio per una fede autentica. Quanti sacrifici «umani» compiamo ancora noi nella nostra vita: quando giudichiamo, quando amiamo solo noi stessi e siamo disposti a sacrificare tutto pur di raggiungere i nostri scopi, quando vogliamo imporre i nostri punti di vista, quando, in una parola, diciamo di credere e invece siamo miscredenti (atei) praticanti. Credere è fidarsi di qualcuno a cui abbiamo regalato la nostra vita a nostra volta ricevuta. Credere è una relazione d’amore che genera e rigenera. Deponiamo le nostre idolatrie, le nostre ragioni, le nostre vittime e forse anche noi stessi vittime, qui davanti all’altare, che è il Monte della fede pura, dell’abbandono crocifisso e della vita trasfigurata,

Esame di coscienza

Esaminare la propria coscienza, significa riconoscersi figli e quindi riconoscere il proprio principio nella paternità che si rivela anche come maternità. Ad Abramo viene chiesto non il sacrificio del figlio, ma l’offerta del «tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco». Avrebbe fatto prima a chiedergli la vita. Sì, Dio vuole la vita, non gli avanzi, il superfluo. Egli chiede la vita intera, tutta, per restituirla più piena, più grande, più libera: risorta. L’atto penitenziale è il momento di questa coscienza, la misura cioè della distanza tra noi e Dio, ma anche la consapevolezza della vicinanza di lui a noi. Nel perdono di Dio è il fondamento della nostra vita.

Signore, la nostra fede è fragile e povera, ma donaci quella del padre Abramo. Kyrie, elèison!

Cristo, perdona le nostre cecità e durezze: donaci l’abbandono del figlio Isacco. Christe, elèison!

Signore, se non tocchiamo non siamo capaci di credere, purifica il nostro cuore. Kyrie, elèison!

Cristo risorto, purificaci lo sguardo perché possiamo vederti trasfigurato. Christe, elèison!

Dio santo che ha chiamato Abramo a immolare il suo figlio unigenito, Isacco, per prefigurare il mistero dell’immolazione sulla croce del Figlio suo Gesù Cristo, per i meriti dei santi patriarchi Abramo e Isacco e per i meriti di Gesù nostro salvatore, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti di riflessione e preghiera

Due tradizioni si fondono nel racconto del sacrificio di Isacco che segnalano una pratica diffusa in Oriente come in ogni cultura primitiva, e cioè il sacrificio umano come propiziazione della divinità. Un altro caso biblico simile al sacrificio di Isacco è quello della figlia del giudice Ièfte che fa voto di sacrificare la prima persona che incontrerà al suo ritorno a casa. Ad andargli incontro è la figlia, l’unica figlia, che non solo non si sottrae alla sua tragica sorte, ma consola il padre disperato a mantenere la promessa che aveva fatto a Dio (Giudici, 11, 30-40).

Nel mondo greco vi è la tragedia di Eurìpide (485-406 a.C.), «Ifigenìa in Tàuride»: è il segno di una universalità culturale e cultuale, diffusa in tutte le latitudini e longitudini. Il tema del sacrificio propiziatorio ed espiatorio è duro a morire. Gesù si scaglia contro i sacrifici del tempio, sulla scia del profeta Osea: «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6,6; Mt 9,13). Il racconto biblico rappresenta una novità perché non solo si scosta dalle usanze, ma contesta il rito e il costume del sacrificio umano come non corrispondente alla natura della fede. Da una parte vi è il sacrificio e dall’altra la fede, cioè la certa speranza che il Dio che aveva fatto nascere Isacco quando Abramo aveva cent’anni e Sara sua moglie era avvizzita, non sarebbe mai venuto meno alla sua promessa di rendere la discendenza del patriarca numerosa come la sabbia del mare o le stelle del cielo (Gn 12,1-4; 15, 4-6; 17,1-8).

Abramo non considera «suo» nemmeno il figlio «unigenito» Isacco, perché lo ha ricevuto nella vecchiaia come un dono inatteso e come dono lo custodisce e restituisce, ora che gli è richiesto, rimettendo se stesso, il suo futuro, il suo destino nelle mani di Dio senza chiedere spiegazioni perché a Dio non si chiede conto del suo agire. Abramo è talmente immerso nella fedeltà al suo Dio che non dubita di lui, anche se non capisce le ragioni di ciò che sta accadendo.

La fede spesso cammina nel buio più totale, affidandosi solo all’esilissimo filo di una Parola che di per sé stessa è fragile: può svanire in ogni istante se non si ha nella propria interiorità un moto di mare che permetta all’eco della Parola di muoversi e riposarsi. Abramo si affida alla roccia della fedeltà di Dio: se Dio ha promesso e se ora chiede indietro, sa quello che fa; basta fidarsi e affidarsi. Abramo si fida e si affida. Ancora una volta, «Abramo partì verso se stesso», cioè verso le profondità del suo cuore, senza sapere quello che avrebbe trovato. Ciò significava anche andare verso il futuro, senza sapere dove sarebbe andato ad approdare. Egli era certo di non smarrirsi perché sapeva seguire le tracce di Dio che lo ha chiamato, di cui comprenderà le ragioni, quando tutto accadrà (Gn 12,1-4).

Si potrebbe dire che questa pagina è una svolta nella storia dell’umanità: qualche secolo dopo scopriremo che il Dio di Isacco è il Dio di Gesù Cristo: egli supererà ogni sacrificio e la sua morte in croce, dal suo punto di vista, non è espiatorio, ma è un dono in duplice senso: accetta di morire in croce come malfattore per non tradire gli uomini e le donne con cui si era dichiarato solidale e nello stesso tempo, essendo messo a morte, in nome di Dio, di cui egli è si presentato come legittimo interprete-esegeta (Gv 1,18), si abbandona al Padre, sapendo che il suo sangue non è gradito da lui, ma sopportato come atto ingiusto di una umanità ingiusta. Questa fa dell’ingiustizia la sua ragion d’essere, motivo per cui ha mandato Gesù a proporre una nuova prospettiva un «nuovo mondo» fondato su un nuovo regime di relazioni, che egli chiama «regno di Dio/dei cieli». Il Dio di Abramo è lo stesso del Padre di Gesù: non è sanguinario e non ama i sacrifici, ma gode della giustizia e della fratellanza, della pace e della tenerezza (Is 1,10-20).

La tradizione cristiana dei Padri della Chiesa ha visto nella legatura di Isacco, l’anticipo della legatura/crocifissione di Cristo e nella legna caricata sulle spalle di Isacco che sale al monte del suo sacrificio, l’immagine della croce caricata sulle spalle di Gesù che sale al monte Calvario per offrire come Isacco la sua vita in obbedienza alla volontà del padre e a favore dei suoi discendenti. Gn 22,2 dice: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Nessun testo di psicologia ha mai conosciuto un crescendo così teso e così intenso di drammatica tenerezza e sconvolgente durezza. Dio non chiede il figlio di Abramo perché per questo bastava dire: «prendi tuo figlio». Egli vuole di più: esige la coscienza del padre che deve sapere di «donare» il figlio senza sconti, in tutta la lacerazione della consapevolezza. Per il padre di un figlio unico custodito con tutti i riguardi quelle parole erano sufficienti a farlo morire. Dio aggiunge: «tuo figlio, il tuo unico figlio».

Il coltello si affonda nella piaga e Abramo deve assaporare fino in fondo la tragedia della separazione. Quell’«unico» racchiude tutta la vita di Abramo, le sue speranze, il futuro, le fatiche passate, l’angoscia riscattata nella vecchiaia dalla nascita insperata di quell’unico figlio che avrebbe dato a lui una discendenza più numerosa delle stelle del cielo. Non c’è logica in tutto questo. Non ancora soddisfatto della prova, Dio prosegue: «tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami».

Chi parla non è un Dio, ma un torturatore sanguinario che si diverte a prolungare la morte di Abramo. Come se un figlio potesse non essere amato, come se Isacco potesse essere indifferente, egli che è il frutto dell’ardente amore di desiderio. Sì, Abramo ama il figlio e ora questo amore deve essere immolato con la carne del figlio ad un Dio incomprensibile e illogico. Abramo è gonfio di emozione e vorrebbe essere altrove, si sente scarnificato, ma non è finita: egli deve bere il calice della morte fino all’ultima goccia, fino al fiele. Dio infatti, non pago di avergli chiesto l’unico figlio amato, ora insiste con il colpo di grazia: «tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco». Il nome esplode come un colpo di lancia nel cuore di Abramo. Quel nome tante volte pronunciato, quel nome che definiva un volto, un sorriso, una passione, quel nome ora è sinonimo di morte e sangue, la parola più temuta e sofferta dal padre che si rassegna alla volontà impietosa e omicida di un Dio esigente che intende sradicare tutto, anche gli affetti più sani tra lui e Abramo. Gesù nel NT dirà parole simili: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10,37). Il Dio degli Ebrei e dei Cristiani è esigente, non si accontenta degli avanzi, ma vuole tutto, senza sconti, vuole il centro e la periferia del nostro essere. Vuole tutto per darsi tutto a chi ne è degno e pronto. Abramo è pronto e ne è degno.

Il vangelo riporta il racconto della trasfigurazione secondo Mc che, più di Mt e Lc, mette in luce i presentimenti di Gesù sulla sua morte e la sua glorificazione. Gesù si trova sulle rive del Mediterraneo a Cesarea di Filippo dove vi è stata la professione di fede e la ribellione di Pietro (Mc 8,27-33): Gesù ha annunciato la sua prossima morte e risurrezione (Mc 8,31), ma Pietro lo contesta e vuole distoglierlo (Mc 8,32) perché non concepisce che il Regno glorioso di Dio passi dalla sofferenza e dalla morte (Mc 8, 32-33). Gesù si sposta verso la Galilea passando per la Samaria. Gli Ebrei celebrano la festa delle capanne, che prevede un rituale d’intronizzazione del Messia, e Gesù ne approfitta per convincere i suoi discepoli che egli potrà essere Messia di gloria solo attraverso la sofferenza. I tre apostoli, che sono i testimoni garanti degli eventi importanti della vita di Gesù nella trasfigurazione, prendono coscienza che Gesù è veramente il Messia e questa coscienza si manifesta nella Festa delle tende(Sukkôt) che è la festa nella quale vi è un rito di intronizzazione del Messia. Diversi elementi testimoniano che ci troviamo durante la festa giudaica di Sukkôt:

- Menzione dei «sei giorni» (Mc 9,2): erano la durata ufficiale della festa, che era prolungata di un giorno e, in alcuni casi, anche due arrivando fino all’ottavo giorno per permettere di arrivare in tempo a coloro che fossero lontani.

- L’«alto monte» (Mc 9,2) e la nube (Mc 9,7) sono sempre presenti nelle teofanie, ma sono caratteristiche tipiche di questa festa.

- Le tende, che Pietro vuol costruire (Mc 9,5), richiamano quelle sotto cui gli Ebrei dimorarono nel deserto durante tutta la festa di Sukkôt.

- Il riferimento a Elia, cioè il profeta che Mc cita prima di Mosè, al contrario degli altri sinottici (Mt 17,3; Lc 9,30), perché, secondo la tradizione popolare era il profeta che doveva precedere il Messia (Lc 1,17; 9,8).

Questo racconto è parallelo a quello dell’ingresso di Gesù nel giorno delle «Palme», quando Gesù entrerà in Gerusalemme osannato Messia dalla folla che celebra la stessa festa di Sukkôt (Mt 21,1-11). Il messaggio del vangelo è chiaro: Gesù è veramente il Messia che di anno in anno il popolo festeggia nella festa di Sukkôt, anticipandone la venuta e glorificandolo in un tripudio di luce splendente (simbologia della veste bianca del v. 3). Il contesto della festa della trasfigurazione da una parte è formato dalla festa ebraica di Sukkôt con tutto ciò che essa evoca (il deserto, l’alleanza, la Toràh) e dall’altra dagli annunci della passione e morte che Gesù stesso si preoccupa di dare ai suoi apostoli. In Mc 8,31-38, non appena Pietro lo chiama «Cristo», Gesù gli risponde parlando della sua prossima passione e morte, quasi che fosse preoccupato che capissero bene quale sarebbe stata la posta. Gesù non corrisponde all’identikit del Messia come era di fatto atteso dalle diverse correnti: un messia sacerdote della stirpe di Aronne e un messia laico della stirpe di Davide (queste due prospettive messianiche si trovano anche nella letteratura di Qumràn. Possiamo essere ammaliati dalla luce che brilla sul monte e possiamo ubriacarci tanto di luce da volerci distaccare dalla missione che sta là in fondo alla montagna dove uomini e donne fanno fatica a riconoscere Dio perché incapaci di ritrovarsi come figli, fratelli e sorelle. Siamo mandati nel mondo non per restarcene comodi nelle tende di Pietro, ma per trasfigurare le strutture del mondo trasformandole dall’interno perché diventino supporti di sostegno per un’umanità che cerca di salire sull’«alto monte» di Dio.

Il cristiano non ha né sicurezze né comodità, egli conosce solo la via del suo Signore che non è venuto per essere servito, ma per servire (Mc 10,45). Non in qualsiasi modo, ma in un modo solo, quello di Cristo: attraverso la sofferenza e la passione, vie maestre verso la trasfigurazione e la gloria. Ancora una volta Gesù ci stordisce perché cambia i contenuti della nostra attesa: egli viene in mezzo a noi, ma non corrisponde a quello che noi vogliamo: la sua via non è la via dell’ovvio e del tradizionale, ma la strada della novità continua.

Nell’Eucaristia avviene una trasfigurazione e si compie l’incarnazione quotidiana, eppure la maggior parte dei cristiani non se ne accorge. La Messa è diventata una pia pratica di pietà, un rito da compiere per pagare il pedaggio a Dio in cambio di qualche cosa o della nostra buona coscienza. La Messa è la rivoluzione di Dio perché Egli viene a noi non nella pompa delle vesti e del lusso, ma nella povertà assoluta di un pane e di un calice pronti a sfamare la fame e a dissetare la sete. Qui c’è il Dio che tuona sul Sinai, qui c’è il Dio del monte Mòria, ma questa volta non ferma la mano di Abramo per risparmiare Isacco, questa volta la morte è reale e il nuovo Isacco, Dio stesso, versa tutto il suo sangue e distribuisce tutta la sua vita nei frammenti del pane e negli spezzoni della Parola perché ciascuno di noi possa vivere di questa vita donata per sempre. Se solo comprendessimo la drammatica dell’Eucaristia, noi resteremmo sconvolti come Mosè sul Sinai e non ce ne separeremmo mai. Da qui, da questo altare che è la sintesi del Monte Mòria e del Monte Calvario, noi guardiamo al mondo che Dio ama e su esso, come anche su di noi, riversiamo la benedizione dei meriti di Abramo, di Isacco e di Gesù Cristo.

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