Mensa della Parola: 1Sam 3, 3-10.19; Sal 40/39,2.4ab; 7-8a; 8b-9;10; 1Cor 6, 13c-15a.17-20; Gv 1,35-42 [+ 43-51]
L’impostazione dell’anno liturgico ha una sua logica pedagogica, anche se un po’ articolata.
In Avvento abbiamo atteso e misurato la dimensione del tempo aspettando una Persona, il cui volto si stagliava all’orizzonte della fine della Storia (escatologia).
A Natale abbiamo misurato lo stupore dell’incarnazione, proiettando l’attesa escatologica «a breve termine» e accogliendo il Bambino appena nato, come modello della Chiesa in cammino verso il Regno di Dio: «se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). A Natale abbiamo preso coscienza della nostra piena identità di uomini e donne «incarnati» nella storia, pellegrini verso la Gerusalemme celeste.
Il giorno dopo Natale, mentre stavamo ancora assaporando la gioia della nascita, siamo stati invitati a condividere la lacerazione della morte con Stefano, chiamato a dare la sua vita per essere coerente con se stesso e la Verità che ha incontrato. La nascita non è separata dalla morte perché il Natale non è favola, nenie e zampogne; al contrario è dramma di Dio, è vita dell’umanità.
Il giorno dopo ancora, il martirio di Stefano, per essere sicuri di avere capito bene la portata dell’incarnazione, abbiamo visto ancora il sangue dei Santi Martiri Innocenti, maciullati da Erode, per paura di avere tra di essi un concorrente al trono del potere. È sempre in nome del potere che si compiono i maggiori misfatti, spesso contrabbandati e millantati con ragioni religiose. In greco il termine «màrtyr – martire» significa semplicemente «testimone». Il mondo degli uomini toglie la vita a chi la vive autenticamente e coerentemente.
Otto giorni dopo, il 1° gennaio, abbiamo scoperto il volto femminile di Dio con la festa della Madre di Dio che ha svelato il «senso» del «nome» e della circoncisione, segni concreti di un’appartenenza. La Madre insegna che non nasciamo per essere solitari, ma per essere membra vive di un popolo, in base al principio che insieme ci si salva, da soli ci si danna. La donna è l’origine o meglio «il principio» del tempo che s’interseca con l’eternità. È lei che permette a Dio di vivere la sua «singolarità» di Dio e Uomo.
Al 1° gennaio è connessa anche la «Giornata mondiale della Pace», istituita da Paolo VI, che per la prima volta la celebrò il 1° gennaio 1968. La Pace, che è la somma dei doni messianici e addirittura per il profeta Isaia è il «Nome» stesso del Messia: «e il suo nome sarà: … Principe della Pace» (Is 9,5). «Shalòm», in quanto pienezza e perfezione dell’armonia del cosmo e della vita, è la condizione della vita stessa e della dignità.
La Pace, però, sembra lontana da questa terra, dove gli uomini trovano divertente scannarsi e scannare come «metodo» per risolvere i problemi di convivenza tra i popoli. Ogni pretesto è buono per fare una guerra, quella guerra che Giovanni XXIII, il papa più lungimirante e più credente del secolo XX, dichiarò «estranea alla ragione», «è pazzia».
Con l’Epifania il compito e la missione ricevuti a capodanno assumono il contorno dei confini del mondo: nessuno mi è estraneo se sono figlio/figlia di Dio. L’Epifania ci presenta i Magi come modello di ricerca del Signore che vive nelle grotte e nei tuguri del mondo. L’emarginazione è il luogo proprio di Dio.
Con il Battesimo di Gesù siamo stati legittimati e riammessi all’eredità che il patriarca Adamo e la madre Eva avevano perduto per sé e discendenti. Siamo di nuovo figli per riconoscere i fratelli e le sorelle sparsi nel mondo con l’obiettivo di fare una sola grande famiglia di Dio: il Regno dei cieli.
Nella domenica dopo l’Epifania la liturgia in tutti e tre i cicli (A–B–C) propone un brano del vangelo di Giovanni, quasi a prolungare il sapore del «Lògos» incarnato che entra nel tessuto delle relazioni umane. Proclameremo il vangelo dei discepoli di Giovanni il Battezzante che «cercano e trovano il Messia». Se dovessimo sintetizzare con una sola parola il tema che emerge dalle letture di oggi, non avremmo difficoltà. La parola è «vocazione/chiamata» oppure dovremmo usare il binomio: «cercare/trovare».
Nella 1a lettura ascoltiamo la stupenda pagina della vocazione di Samuele (1Sa 3,3b-10.19), il cui nome è già un programma di vita: Shemu-èl/il suo nome è Dio. Nella sua vita, Samuele, che opera tra il 1075 e il 1035 a.C., fu lacerato tra la monarchia e l’anti-monarchia, tra il ritorno allo stile nomade delle origini, rappresentato dal suo maestro Eli e la vita agricola e sedentaria piena di tentazioni di sicurezza e violenza. Egli vive la sua vocazione come lacerazione, sacrificio di dover sempre scegliere tra la politica e la mistica, che però non separò mai, ma di cui visse la fatica quotidiana del discernimento.
Nella 2a lettura Paolo, che vive momenti dolorosi con la sua comunità di Corinto, lacerata in partiti e fazioni, ci svela che la vocazione comporta conseguenze logiche che innervano «tutta» la persona umana. Non si è credenti a rate, ma sempre e ovunque; in questo modo ci consegna una prospettiva «nuova»: la persona è un tutt’uno armonico, perché il corpo è l’estensione dell’anima che così diventa visibile, mentre l’anima è il corpo spirituale che diventa così «tempio dello Spirito» di Dio(1Cor 16,19).
Il vangelo ci fa assistere da protagonisti al «metodo vocazionale» che ha inaugurato Gesù. C’è lo sguardo «fisso» di qualcuno che vede sempre prima degli altri, i quali «ascoltando» parole nuove sono spinti in avanti a dare corpo al desiderio genuino di cercare il senso della propria vita: «Ecco l’agnello di Dio» (Gv 1,36). Il Battista è un vero pedagogo, il genitore modello, perché invita i figli/discepoli a superarlo e ad andare oltre. Egli, infatti, si limita a indicare l’Agnello, mentre i discepoli «seguirono Gesù» (Gv 1,37). Il Battista è coerente con la verità di essere solo «una voce» che anticipa (Gv 1,23): «È necessario che lui cresca ed io diminuisca» (Gv 3,30). La vocazione di fede nasce dove c’è una fitta rete di relazioni affettive e amicali: il fratello chiama il fratello, il chiamato corre a vedere e coinvolge quelli che incontra; nel momento poi dell’incontro avviene il mutamento del «nome», cioè si prende coscienza del proprio destino e del proprio compito, che prima erano oscuri. Credere è molto facile! Basta abituarsi a ricevere ed essere disposti a cambiare l’orientamento della propria vita.
Il mondo non crede perché coloro che dicono di credere, credono nel «dio» della loro idea o del loro sistema di riferimento: il loro «dio» è un «valore» tra gli altri, forse nemmeno il più importante. Non è il «Dio di Gesù Cristo» (Rm 6,23; 8,39: Gal 3,26), ma il «dio-tappabuchi» di cui parla il grande teologo e martire luterano Dietrich Bonhöffer (1906-1945), un «idolo-supporto» delle paure sociali dei cristiani a corrente alternata.
Esame di coscienza
Andiamo anche noi come i discepoli del Battista a «cercare e trovare» il Signore che chiama e invita a restare con lui: restiamo con Gesù per vedere dove abita e come abita; ci farà scoprire il senso profondo del nostro cuore e l’anelito di ricerca della nostra anima che solo nella fede in lui possiamo estinguere.
Chiamati per celebrare la Pasqua settimanale, anche noi abbiamo risposto come Samuele: Vengo, Signore, per ascoltare la tua Parola e celebrare il sacrificio del tuo corpo e del tuo sangue, dati come doni. Consapevoli che non siamo qui per nostra iniziativa o volontà, ma solo per la grazia di Dio che ci ha scelti per essere un piccolo segno sacramentale di fronte al mondo intero chiamato alla redenzione, di fronte alla Chiesa, convocata attorno al suo Signore risorto. Per rispondere alla voce del Signore, bisogna essere liberi come Eli e Giovanni Battista che non raccolgono discepoli per sé, ma li indirizzano verso colui che chiama anche di notte. Per essere liberi, bisogna sperimentare il perdono che purifica da ogni presunzione e vanità. Per sperimentare il perdono, bisogna accostarsi all’altare della Parola e del Pane che ci consacra tempio vivo dello Spirito Santo. Riconoscersi peccatori significa scegliere Dio come «Signore» e offrire noi stessi come sua abitazione di grazia. Riconosciamoci bisognosi della tenerezza di Dio e saremo liberi di vivere la coerenza nella verità.
Signore, tu sei la fonte di tutte le vocazioni che abitano l’umanità, ascolta e perdona. Kyrie, eléison!
Cristo, tu sei il modello di tutte le risposte al Dio che chiama, ascolta e perdona. Christe, eléison!
Signore, che ci hai chiamati anche oggi alla Pasqua eucaristica, ascolta e perdona. Kyrie, eléison!
Cristo, che ci hai riscattati per essere tempio del tuo Spirito, ascolta e perdona. Christe, eléison!
Signore che ci convochi per vedere la tua Parola e ascoltare il tuo Pane, perdonaci. Kyrie, eléison!
Cristo, Agnello di Dio che prendi su di te il peccato del mondo, ascolta e perdona. Christe, eléison!
Signore, Dio di libertà e di amore, rivelaci il nostro nuovo nome di chiamati. Kyrie, eléison!
Dio santo, «lento all’ira e largo di misericordia» (Nm 14,18), guarda i tuoi figli che con la forza dello Spirito Santo, tempio vivente nei loro cuori e nei loro corpi, hai convocato alla tua presenza, abbi misericordia di noi, perdona i nostri peccati e guidaci alla vita eterna per la Gloria del tuo Nome santo che oggi vogliamo invocare sul mondo intero che tu sei venuto a cercare per salvare. Tu solo sei Dio e vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
Giovanni ha un’intenzione nascosta che vuole svelare e noi vogliamo scoprirla. Anche un lettore superficiale si accorge fin da una prima lettura che il capitolo primo del vangelo di Giovanni, fino al racconto delle nozze di Cana nel capitolo secondo, è una costruzione originale per un obiettivo grande: presentare in modo solenne l’ingresso nel mondo del Figlio di Dio. Troviamo infatti il Prologo che, come l’ouverture di una sinfonia, introduce e anticipa tutti i temi che seguiranno.
Segue poi un ritmo di tempo, cadenzato come un ritornello salmodico, che scandisce una settimana: quel vangelo che non si occupa quasi mai di darci indicazioni temporali, qui rasenta quasi la pignoleria: Gv 1,29: «il giorno dopo»; Gv 1,35: «il giorno dopo»; Gv 1,43: «il giorno dopo» che sboccano come fiumi nel mare nel racconto delle nozze di Cana in Gv 2,1 che comincia con l’espressione pregnante «Nel terzo giorno». L’autore vuole darci lo schema di una settimana e fin qui nulla di anomalo, ma se questa settimana è unita all’espressione solenne che apre il vangelo e cioè «in principio», allora comprendiamo che lo schema è lo stesso usato per la creazione descritta in Gen 1. Siamo di fronte a una nuova creazione e la chiamata dei primi discepoli è portante perché essi così sono i testimoni legali che la Toràh impone per dare validità giuridica a un atto importante (Dt 17,6; 19,15; Mt 18,16; 2Cor 13,1; 1Ti 5,19).
Dal brano del vangelo di oggi sappiamo che i fatti si svolgono in due giorni e alcuni sono indicati anche al millesimo di secondo per descrivere la vocazione dei discepoli come prolungamento dell’incarnazione del Lògos: «Venite e vedrete. Andarono, dunque, e videro dove egli dimora e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio»30 (Gv 1,39b) oppure «incontrò per primo» (Gv 1,41). Quest’ultima indicazione è modificata da alcune varianti con «sul far del giorno/di mattino presto» esplicito richiamo a «donna Sapienza» che si fa trovare «fin dal mattino» (Sap 6,14) da chi si alza presto per cercarla.
Questi elementi, com’è costume in Giovanni, ci spingono a scoprire il secondo livello di ogni parola e di ogni fatto. Quando leggiamo la Parola di Dio, non dobbiamo fermarci al primo significato, che è quello più ovvio, ma è necessario andare oltre, scavando in profondità perché il tesoro è nascosto (Mt 13,44). Il brano è intenso e carico di significato profondo che l’evangelista ci invita a scoprire oltre il senso ordinario e immediato delle parole. La cronologia indica che si è al secondo e terzo giorno della settimana della nuova creazione. Mentre nella prima creazione della Genesi, i primi sei giorni servono a Dio per preparare l’ambiente, in assenza dell’uomo, ma in vista dell’uomo (firmamento, mare, terra e germoglio delle erbe e degli alberi: Gen 1,7-13), nella seconda ricreazione della prima creazione, Gesù convoca gli uomini già nel secondo e terzo giorno e li fa entrare nella sua dimora (Gv 1,39).
Adamo si era nascosto al sentire la voce di Dio che passeggiava nel giardino e Dio stesso deve domandare «Adamo, dove sei?» (Gen 3,8-9), ora nella creazione della nuova alleanza, non solo gli uomini non si nascondono, ma sono in ricerca di Dio e Gesù in persona li invita a stabilirsi nella sua «Dimora», che è la Shekinàh, cioè la sua Presenza, che riprende il colloquio di intimità interrotto da Adamo e lo estende alla vita degli uomini, sperando in un altro esito.
Il vocabolario di questo brano è a intreccio, come i tralci di una vigna. Vi è quello del discepolo in rapporto alla Toràh e/o alla Sapienza che si esprime nella dinamica del binomio «cercare-trovare», un tema che percorre tutta la Scrittura: «che cercate?» (Gv 1,38) – «abbiamo trovato» (Gv 1,41. 45). C’è poi quello tipico del discepolo espresso nei verbi di movimento: seguire, andare, condurre, venire (Gv 1,37.38.39.40.42.43.46.47) che narrano plasticamente come la fede, la vita, la Chiesa non siano immobilità da custodire, ma cammini da percorrere e sperimentare. Non poteva mancare il vocabolario dell’ascolto (cf Gv 1,37.40) e del «dimorare/abitare/stare» (Gv 1,38.39).
Su tutti predomina il vocabolario degli occhi, cioè della «visione», che in Giovanni è sempre collegata a una «teofania/Manifestazione di Dio». Per Gv il discepolo non è solo colui che segue il Maestro, ma colui che «lo vede», perché il Maestro «si manifesta/si fa vedere». Seguire è vedere (Gv 1,36. 38.39.42.46.47.48.50.51). Il discepolo è colui che contempla ciò che sperimenta perché la sua «dimora», il suo «stare», come avviene nell’Eucaristia, è sperimentazione dell’anima, è visione di ciò che mangiamo e mangiamo ciò che abbiamo contemplato (1Gv 1,1-4). Quando nella Liturgia proclamiamo la Scrittura, noi «vediamo la Parola»; quando nella Liturgia noi mangiamo il Pane, noi «ascoltiamo» il Pane. La «visione» per Gv non è mai astratta, ma è sperimentale, e il vertice del connubio «vedere/toccare» lo esprime l’ossimoro insuperabile del prologo della prima lettera giovannea, dove, senza mediazione di sorta, afferma che la fede è «toccare il Lògos/Verbo della vita».
Se ascoltiamo con attenzione le parole che leggiamo, scopriremo in tutto il brano un crescendo musicale di titoli attribuiti a Cristo e che dimostrano come si salga da una cristologia bassa verso una più alta. In Gv 1, infatti, ricorrono sette titoli e tutti in progressione, che riportiamo nell’ordine di comparazione (non abbiamo il tempo di esaminarli singolarmente nella loro portata cristologia):
1. «Figlio di Dio» (Gv 1,9)
2. «Agnello di Dio» (Gv 1,36)
3. «Rabbì» (Gv 1,38)
4. «Messia» (Gv 1,41)
5. «Figlio di Giuseppe» (Gv 1,45)
6. «Re d’Israele» (Gv 1,49)
7. «Figlio dell’uomo» (Gv 1,51)
Nel secondo giorno della nuova creazione vi è un’indicazione di tempo precisa: «era circa l’ora decima/le ore 16,00» (Gv 1,39). Il riferimento alle ore 16,00 o ora 10a, un’allusione anticipata della morte di Gesù che Gv presenta come l’agnello sacrificato. Nel tempio di Gerusalemme due volte al giorno, alle ore 9,00 (mattino) e alle ore 15,00 (sera) era immolato un agnello, detto «tamìd/perpetuo» (Es. 29, 42). Alle 16,00 il sacrificio era terminato e si facevano le ultime azioni conclusive del sacrificio.
In Gv 19,33-37 Giovanni, attraverso le modalità della crocifissione (le ossa non spezzate, il colpo di lancia, ecc.), suggerisce l’idea che Gesù «consegnò lo Spirito» (Gv 19, 30) nel momento in cui nel tempio il Sommo Sacerdote immolava l’agnello/tamid-perpetuo. In questo modo nel racconto, insieme alle parole del Battista e all’indicazione dell’ora, l’evangelista ci prepara alla gloria dell’ora suprema: l’ora della morte in croce dell’Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo, dando corpo e volto all’agnello mansueto condotto al macello, descritto da Is 53,1-12. In questo contesto, la chiamata dei primi discepoli ha un’importanza speciale, anche giuridica, perché essi sono convocati per rendere testimonianza anticipata all’ora della morte che è l’ora della Gloria del Figlio, il quale offre se stesso in sacrificio «tamìd/perpetuo». Non possiamo escludere che si sia sottesa anche un’altra idea che sarebbe lineare con la teologia dell’autore del IV vangelo: Gesù è l’agnello di Dio che sostituisce l’agnello sacrificale del tempio, dando inizio così a un altro culto, centrato non più sul sacrificio, ma sul corpo del Signore (Gv 2,19-21), cioè sulla sua umanità.
Il Documento di Damasco (CD), 11,14-17 attesta che a Qumràn l’ora decima (le ore 16,00) è l’ora in cui cessa il lavoro, il venerdì pomeriggio, e inizia lo Shabàt. Se così fosse, l’indicazione dell’ora precisa sarebbe una coincidenza «voluta» dall’autore e avremmo una conferma di quanto detto sopra: Gesù è lo «spazio» in cui si manifesta Dio; egli è annunciato come «Agnello di Dio» che inizia, santificandolo, lo Shabàt, il «tempo» che Dio ha riservato per sé, ma anche la conclusione della creazione e il godimento di essa. Gesù è morto nel giorno di venerdì che è il giorno della sua crocifissione, quando sulla croce compie la profezia di Is 53,7 che equipara il Servo di Yahwèh all’agnello immolato: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca». Si potrebbe anche pensare che i due discepoli «si fermarono presso di lui» perché iniziava lo Shabàt per celebrarlo insieme a Gesù. Al tempo di Gesù si parlava aramaico e in questa lingua il termine «tàlya» significa tanto «servo» quanto «agnello». Un altro elemento importante è che le vocazioni di cui parla il testo corrono sul filo della conoscenza e della relazione parentale. Non ci s’inventa né cristiani, né credenti, né chiamati: bisogna incontrarsi tra amici, è necessario incrociare qualcuno, bisogna provenire da una rete di relazioni. Vediamo la progressione: Giovanni Battista indica Gesù, suo cugino; due suoi discepoli lasciano il Battista e seguono Gesù.
Noi spesso facciamo l’esperienza del «trattenere» piuttosto che «lasciare andare»: lo facciamo con i discepoli, con coloro che frequentiamo, con i nostri figli, gli psicologi con i loro clienti, creando nuove dipendenze che sostituiscono quelle da cui si guarisce. Anche con i figli, siamo incapaci di aiutarli a «fissare lo sguardo su» (Gv 1,36) qualcuno diverso da noi per indicare loro che forse c’è una strada «altra» e più alta di quella che potremmo offrire noi.
Uno dei due che seguono Gesù e celebrano lo Shabàt con lui è Andrea, il quale ha un fratello che si chiama Simone. Il testo dice che lo «condusse da Gesù» (Gv 1,42). C’è sempre qualcuno che ci accompagna da qualcun altro e noi, a nostra volta, potremmo essere sia il qualcuno che accompagna sia il qualcuno che riceve e accoglie. Appena Simone giunge da Gesù avviene un fatto nuovo che ci ricollega con la prima creazione. Nell’Èden Adamo riceve il potere di «imporre il nome» agli animali (Gen 2,19-20), cioè di prendere possesso di tutto il creato, anche degli animali. Nella nuova creazione è Gesù che cambia il «nome», cioè la natura di colui che chiama. Simone deriva dal verbo ebraico «Yashàm» che significa «essere desolato/rovinato/deserto»; ora diventa «Kēfâs» che in greco si traduce con «pietra/Piètro». Il discepolo che risponde alla chiamata, dall’inconsistenza passa alla solidità stabile della «roccia» fino a diventare garanzia di stabilità per gli altri: «Tu sei Piètro e su questa pietra …» (Mt 16,18).
Nel giorno seguente, terzo della nuova creazione, avviene lo stesso procedimento: Come la Sapienza si mette in viaggio per andare incontro a coloro che la cercano (Sap. 6,16) così Gesù «volle partire per la Galilea; incontrò Filippo» (Gv 1,43), che è greco, e lo coinvolge nella sua sequela (Gv 1,43). A sua volta Filippo «incontrò Natanaèle» che è diffidente (Gv 1,45-46). In ebraico Natanaèle significa «Dio dona» o «dono di Dio». Filippo però lo invita a fare la stessa esperienza dei discepoli del Battista: «vieni e vedi» (Gv 1,46). Natanaèle alla fine è il più entusiasta perché si lascia trasportare dalla sua esperienza personale e finisce per dare a Gesù tre dei sette titoli cristologici presenti nel testo: «Rabbì … Figlio di Dio … re d’Israele» (Gv 1,49). Essere discepolo per Giovanni significa andare alla scoperta della vera personalità di Gesù. Per fare questo è necessario «dimorare» con lui o perdere tempo con lui se si vuole partecipare alla manifestazione della «Gloria» come avverrà nel convito nuziale di Cana, immediatamente dopo (Gv 2,1-11). Solo chi ama sa perdere tempo per la persona amata.
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