Mensa della Parola: Is 61, 1-2.10-11 [liturgia: 1-2a.10-11]; Salmo: Lc 1,46-50. 53-54; 1 Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28. Oggi è la 3a domenica di Avvento e l’Eucaristia è caratterizzata da un costante invito alla gioia. Lo dimostra il titolo che la stessa domenica assunse nella tradizione: «Messa Rallegratevi/Missa Gaudete» (Fil 4,4). Il tema della gioia è ripreso nella 2a lettura (Ts 5,16-24), in cui Paolo esorta a gioire, a pregare, a discernere, a vivere in pace con il Dio della pace. Il secondo motivo è nell’interruzione del digiuno, perché il popolo e i poveri facevano lavori molto pesanti, di solito nei campi e nelle città, in condizioni di quasi schiavitù. Poiché la maggior parte viveva alle dipendenze dei nobili e dei monasteri, l’interruzione del digiuno obbligava «i ricchi» a concedere, per es., la carne ai loro sudditi che così prendevano un minimo di respiro. La liturgia nella 1a lettura propone un brano del Terzo Isaia, VI-V secolo a.C. (Is 61,1-11) il cui testo, secondo Luca, Gesù lesse nella sinagoga di Nazareth all’inizio della sua attività pubblica, come manifesto programmatico del suo pensiero teologico e pastorale (Lc 4,17-21). Il profeta Isaia presentava la propria vocazione profetica come annuncio del vangelo ai poveri, cioè a coloro che la tradizione profetica aveva identificato come la categoria che Dio sceglie per portare avanti il suo progetto di rinnovamento dell’alleanza. Per capire chi sono gli «‘anawìm», che in genere traduciamo con «poveri», occorre approfondirne il senso in modo rigoroso, altrimenti si rischia di fare confusione. Nel pensiero ebraico, il povero non è solo colui che è privo di denaro o di mezzi; non prevale cioè l’aspetto economico, che è una conseguenza, ma quello sociologico: il povero è l’inferiore, schiacciato dal peso della società in cui vive. «Il povero» è l’uomo curvato, senza difesa e sfruttato. Nei giorni del Messia, il concetto di «‘anawìm» (povero) iniziò un percorso di spiritualizzazione, passando dal piano sociologico/economico a quello religioso e morale. Cominciò ad acquistare una valenza teologica che mai aveva avuto prima: i poveri sono gli alleati di Dio per l’instaurazione del suo regno che non è esercizio di potere, ma spazio e modalità di relazioni nuove, fondate sulla verità, cioè sulla giustizia. Il «povero» si trasformò in una condizione spiritualizzata, una categoria di fede: è la persona pia, non violenta perché non si oppone alla violenza con la violenza, ma subendola consapevolmente perché sa che Dio porterà la liberazione sulla terra e vi si prepara ubbidendo alla Toràh. I poveri, in senso religioso, sono quindi coloro che, consapevoli della presenza del Signore nella Storia, ne assumono il carico e ne portano avanti le coordinate nascoste attraverso la loro vita vera e coerente, senza conflitti d’interesse, senza condizioni. Sono coloro che Gesù proclama «beati» (Mt 5,3; Lc 6,20). Non a caso il salmo responsoriale di oggi è il «Magnificat» di Maria, la madre degli «poveri» del nuovo tempo (Lc 1,46-50.53-54). Al tempo di Gesù, nella sinagoga si leggevano due letture, la 1a ancora oggi è tratta sempre dalla Toràh (Pentateuco), mentre la 2a dai Profeti. La 1a era proclamata da un levita, custode del rituale e della sacralità del testo sacro; la 2a da un laico presente che si autoinvitava o veniva invitato, se era conosciuto o se era un benefattore della sinagoga. Il laico Gesù, avvalendosi di questa prerogativa, si alza e, ricevuto il rotolo dall’inserviente, legge il profeta Isaia. Finito di leggere, consegna il rotolo e commenta il testo. È interessante notare il modo di citare di Gesù che così imprime al testo una prospettiva nuova che non è più quella del profeta: Isaia 61, 1-2Lc 4, 18-19Lo spirito del Signore è su di me,Lo spirito del Signore è su di me,per questo mi ha unto;per questo mi ha untoperché evangelizzassi da me i poveriperché evangelizzassi da me i poverimi ha inviatomi ha inviatoa restaurare chi è stato tribola-to/spezzato nel cuore,=====ad annunciare ai prigionieri la scarcerazione,ad annunciare ai prigionieri la scarcerazione,e ai ciechi la vistae ai ciechi la vista;====a rimettere in libertà gli oppressi,gridare l’anno favorevole del Signore (il giubileo),a proclamare l’anno favorevole del Signoreil giorno di paga/vendetta (il giudizio di condanna)===== Isaia annuncia «un anno favorevole» insieme a «un anno di paga/giudizio/vendetta» (Is 61,3). Gesù spezza il testo e non cita le parole «un giorno di paga/giudizio/vendetta», ma si ferma prima, limitandosi ad annunciare l’anno giubilare di perdono: «un anno favorevole» (Lc 4,19). Gesù porta una logica nuova, diversa da quella codificata nella tradizione d’Israele. Lc svolge una teologia della storia che supera anche il tempo di Israele e della Chiesa: il regno annunciato da Gesù inaugura «i tempi penultimi» per cui Dio dilata il tempo per offrire all’umanità l’occasione di cominciare una nuova esperienza di relazioni. Se Dio offre un tempo supplementare a ciascuno di noi, non si può fare penitenza, ma si deve fare festa. Il tema della gioia è pertinente perché appartiene all’attesa, al vangelo che etimologicamente significa «annuncio che porta gioia». Nel tempo di Avvento s’inaugura un anno giubilare di misericordia: il nuovo anno è il nostro nuovo «kairòs/tempo opportuno», qualitativamente favorevole per l’incontro con il Signore nella Storia. Il motivo della gioia è dunque radicato in Dio stesso, in forza del principio che c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione (Lc 15.7) Il Prologo di Giovanni descrive la figura del Precursore come spartiacque tra il mondo delle tenebre e il mondo della luceattraverso una conversazione drammatica da parte di Giovanni Battista. Egli non solo riesce a non rispondere ai suoi interlocutori, mandati dai capi religiosi a verificare la novità del battesimo di penitenza, ma sa anche depistare la loro attenzione da sé per indirizzarla su quella del Messia. Giovanni cioè svolge veramente il suo ruolo di «voce che grida»: egli non attira a sé e non fa concorrenza, ma conduce a colui che è in mezzo a loro e che loro non conoscono (Gv 1,26). Domenica scorsa, nella 2a di Avvento, abbiamo riflettuto sul senso teologico della strada e oggi la liturgia porta ancora più a fondo questa riflessione: non basta mettersi in strada, bisogna sapere dove andare, bisogna conoscere la mèta. Se vogliamo incontrare Dio, dobbiamo conoscere noi stessi. Giovanni, quando gli chiedono «Che cosa dici di te stesso?» (Gv 1,22) risponde di essere solo la voce anonima che annuncia uno più forte di lui (Gv 1,23). Egli sa di essere la voce, ma sa anche di non essere il Cristo, Elia o il profeta (Gv 1,20.21.25). Non si appropria di funzioni non sue, né si sminuisce per paura o per convenienza: egli è se stesso: davanti alle folle, davanti ai capi, davanti al «più forte», davanti alla sua coscienza. Partecipare all’Eucaristia è come andare alla fontana che sta in mezzo al villaggio (Papa Giovanni XXIII) per attingere acqua e portarne a casa. Ci nutriamo della Parola e del Pane, il nutrimento della nostra identità, per poi andare nel mondo per essere soltanto noi stessi perché solo così possiamo essere testimoni di colui che viene e che è più forte di Giovanni Battista. Preghiamo insieme il Signore della luce che illumini questa nostra terza domenica di Avvento, nel segno del cero, simbolo della nostra presenza che si consuma davanti a Dio.
Accensione 3a fiamma di Avvento 1. Signore, è il terzo cero, principio dell’Avvento. Sia luce nella vita, sia fuoco nelle scelte, fiamma che avvolge il cuore, nell’olio dell’attesa 2. La fiamma il cero arde e mai lo consuma, si abbèvera al tuo pozzo, col secchio di preghiera. 3. Lo Spirito infuocato tu versi nel roveto del cero che si scioglie danzando a piena gioia il dono della vita. 4. Contempli il volto orante, o Santo d’Israele, che resta qui ardente, a farti compagnia, nel simbolo del cero. 5. Di ardere e bruciare ci chiedi ovunque siamo, perché con ambo le tendenze, del cuore il bene e il male, amarti noi possiamo. 6. Si scioglie l’Assemblea, nel mondo noi si torna, restando qui oranti, col cuore modellato in ogni incontro generante e in cera trasformato. 7. È Avvento, Signore! Il tempo dell’attesa, l’eternità del tempo, che segna la tua Chiesa che scava il nostro cuore, donato e ritrovato. Amen. Oppure Inno a Cristo «Sole di giustizia». Con l’inno della Liturgia delle Ore acclamiamo Cristo «Sole di giustizia», inconsumato, qui rappresentato da questa luce ardente che si consuma: 1. O sole di giustizia, Verbo del Dio vivente, irradia sulla Chiesa la tua luce immortale. 2. Per te veniamo al Padre, fonte del primo amore, Padre d’immensa grazia e di perenne gloria. 3. Lieto trascorra il giorno in umiltà e fervore; la luce della fede non conosca tramonto. 4. Sia Cristo il nostro cibo, sia Cristo l’acqua viva: in lui gustiamo sobri l’ebbrezza dello Spirito.
Preghiamo
Signore, accendiamo la 3a candela, simbolo della Parola che illumina il nostro cammino. Essa arde e si consuma lentamente, in silenzio, fino all’ultimo bagliore.
Fa’ che nella nostra giornata anche noi possiamo ardere e consumarci nell’amore.
Il tuo Spirito alimenti la nostra fiammella perché possiamo essere sorgente di calore e di luce per quanti incontriamo sul nostro cammino.
Giungeremo alla santa Eucaristia, anticipo del Regno, non da soli, ma con una moltitudine di fiammelle che nessuno potrà contare, di ogni lingua, popolo e nazione perché il mondo intero sarà un solo fuoco d’amore. Venga lo Spirito, luce beatissima del tuo amore, nei nostri cuori. Amen.
Facciamo festa e siamo gioiosi perché ogni volta che chiediamo perdono con la sincerità del cuore, in cielo gioiscono gli angeli, le sante e i santi che con noi oggi formano il «corpo mistico» di Cristo che raduna ai piedi della croce l’intero popolo di Dio. Il perdono di Dio è la condizione per conoscere noi stessi nel pozzo profondo della nostra anima. La misericordia di Dio ci restituisce l’immagine della nostra identità.
Esame di coscienza
Signore, tu ci hai chiamati tuoi figli nell’acqua dello Spirito Santo. Kyrie, elèison!
Cristo, tu ci hai consacrato con l’unzione del tuo sangue redentore. Christe, elèison!
Signore, tu sai cosa c’è nel nostro cuore e lo purifichi col perdono. Kyrie, elèison!
Cristo, tu ci convochi per essere precursori della Parola nel mondo. Christe, elèison!
Signore, tu, Dio della Pace, educa il nostro cuore a costruire la pace. Kyrie, elèison!
Cristo, tu sei il più forte che viene avanti a noi per segnare la strada. Christe, elèison!
Signore, tu sei l’agnello di Dio che prendi su di te il peccato del mondo. Kyrie, elèison!
Dio creatore, ha mandato il suo Figlio ad annunciare il vangelo ai poveri e raccogliere attorno alla Parola di Dio tutti gli emarginati e i dispersi del mondo in ogni tempo ed epoca; egli annuncia un vangelo di gioia e di misericordia e manda il Precursore a preparare le menti e i cuori ad accogliere il più forte che viene dopo di lui; per i meriti dei santi e delle sante del cielo e della terra di ogni tempo, popolo e cultura, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e preghiera
La testimonianza di Giovanni e la mia vita
Si legge la Parola per applicarla alla vita di «ora» e di «adesso». È il senso dell’omelia. Applichiamo questo metodo alla nostra situazione reale perché il Vangelo è Parola di Dio che risuona «oggi» per me, per noi (Lc 4,21) mentre la leggiamo e la commentiamo all’interno della nostra comunità eucaristica.
«Chi sei tu? – Tìs eî?» (Gv 1,19 e 22; 8,25; 21,12).
La domanda posta dalla commissione d’inchiesta a Giovanni “Chi sei tu?”, è la domanda che attraversa la storia di ciascuno di noi, perché ci obbliga all’individuazione della nostra identità. In altre parole: io devo sapere chi sono. Non basta avere opinioni, o formule precostituite (Elia, il profeta), bisogna sapere chi si è e chi non si è, bisogna cioè avere un contatto vero e coerente con se stessi, se vogliamo vivere la nostra vita nell’autenticità e nella verità. La commissione d’inchiesta viene dal tempio, inviata dai farisèi, cioè dai custodi delle tradizioni, del culto, della spiritualità, della liturgia, della regola: sono gli specialisti del sacro. La domanda Chi sei tu? è personale e acquista un senso nuovo e dirompente: «Perché ho fatto questa scelta di vita, questo lavoro, questi impegni? Qual è la mia identità personale all’interno degli ambienti di vita e nelle relazioni che vivo? Qual è la ragione, la motivazione del mio essere uomo, donna, madre, figlia, marito, figlio? Giovanni sgombra subito il terreno: «Io non sono il Cristo», non assumendosi onori e compiti che non gli appartengono. A volte, può succedere che le persone che vengono a contatto con noi, tendano a considerarci migliori degli altri. Non dobbiamo illudere con le apparenze: la nostra consistenza è semplicemente nell’essere noi stessi, sempre, ovunque con chiunque. Anche se questo comporta incomprensione, giudizi, etichettature, esclusione. Forse è possibile che di fronte agli altri non sappiamo cosa rispondere, ma quando rientriamo nel segreto della nostra stanza, là dove non possiamo né barare né nasconderci, perché «il Padre tuo, che vede nel segreto» (Mt 6, 4.6) ci obbliga a rispondere alla verità di noi stessi: «Chi sono io?». Se non conosco il mio nome, se ho smarrito la mia identità, quale risposta credibile posso mai dare? Se l’immagine di Dio che è in me (Gen 1,27) non è nitida, come posso io metterla a fuoco nel volto e nel cuore dell’altro/a?
Giovanni non si appropria di diritti e meriti non suoi, egli s’identifica con una «voce che grida nel deserto». L’umanità ha raggiunto l’apice del suo deserto: più in là di Dio, più lontano non si può andare perché non c’è né spazio né tempo e il nulla è il vuoto del nulla. La Bibbia chiama questo stato «deserto» nella sua accezione geografica, non-vita, isolamento. Dio viene di persona, «in mezzo» agli uomini anche se gli uomini non lo sanno riconoscere. Per riconoscerlo è necessario cogliere la «voce» il cui grido nel caos diventa sempre più flebile, sempre più debole. Alla scuola di Giovanni s’impara ad «ascoltare il silenzio» perché Dio sa parlare solo le parole del cuore e il cuore parla senza parole.
Sono voce che grida a livello individuale. Sperimento la distanza tra quello che dico di essere e quello che vorrei essere; tra la mia realtà e il mio ideale; tra il mio quotidiano e il sogno della mia libertà; tra gli idoli che riempiono la mia vita e il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, dei Profeti, di Giovanni Battista, degli Apostoli, di Maria e di Gesù Cristo. Allora nel silenzio della notte, nella solitudine dell’essere, nel colloquio della preghiera io sono voce che grida: «dagli abissi invocai te/gridai a te, o Yahwèh: Signore, ascolta la mia voce!» (Sal 130/129,1-2); «Io grido a te: salvami!» (Sal 119/118,146).
Sono voce che grida nel deserto di larga parte dell’umanità, impegnata a morire di parole morte da non avere tempo per invocare il Signore e Creatore. La maggior parte dei cristiani battezzati non ha tempo, nemmeno un’ora (Mt 26,40) da passare con il Creatore, l’Eterno che ci concede tutto il nostro tempo? Noi come Pietro e gli altri due discepoli: «Non avete potuto vegliare un’ora sola con me» (Mt 26,40).
Sono voce che grida nel deserto dell’orgoglio e dell’autosufficienza per intercedere la compassione e la misericordia di Dio perché tutti gli uomini e le donne si salvino nel nome del Signore Gesù.
Sono voce corale di lode e di gioia che raccoglie tutte le voci gioiose, sparse per il mondo, per stare davanti a Lui e perdere tempo con Lui, secondo il costume degli innamorati che hanno tempo soltanto per il tempo dell’amore. Io sono solo una voce, attento al richiamo dell’amore, per rispondergli subito e andargli incontro, nel convito d’amore: “Una voce, il mio diletto! Eccolo, viene…” (Ct 2,8). Essere voce! Forse è qui il mistero della vocazione cristiana. La voce mette solo in relazione chi parla e chi ascolta. È un soffio, anche quando grida, perché dice la fragilità di chi la usa. Nel monastero della nostra esistenza, siamo chiamati a essere questa voce a livelli diversi: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete (Gv 1,26). «In mezzo a voi sta e ci resta uno che voi non conoscete». È in mezzo a voi, non fuori di voi, non accanto, non nelle vicinanze, non in un angolo: Egli sta piantato al centro di voi stessi, è il centro del vostro esistere e del vostro vivere. Parafrasando gli angeli della risurrezione, potremmo dire: non cercate fuori di voi, colui che vive dentro di voi (Lc 24,5).
In mezzo a voi sta uno! La sua presenza è nel cuore stesso di questa comunità eucaristica, della vostra famiglia, delle vostre amicizie, a patto che ciascuno accetti di essere sacramento visibile dell’invisibile e strumento di comunicazione e di partecipazione. Egli sta in mezzo per farsi condividere, per farsi ancora spezzare dall’amore di quanti partecipano al banchetto della comunità, portando se stessi con le due tendenze al bene e al male e mettendo se stessi sul banchetto della fraternità e sulla mensa dell’Eucaristia. Se Lui è in mezzo a voi, bisogna riconoscerlo! Eppure, «voi non lo conoscete!». Com’è tragica questa affermazione. È estraneo pur restando «in mezzo», uno sconosciuto, pur essendo presente! Se non siamo in grado di conoscerlo, significa che c’è un impedimento alla vista e si rende necessario comprare da Lui «collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (Ap 3,18).
Per recuperare la vista della conoscenza, bisogna interrogare il cuore, perché solo il cuore sa vedere e scrutare i moti d’amore, come avviene ai discepoli di Emmaus (Lc 24, 31-32). La conoscenza è data dalla vista, cioè dalla sperimentazione dell’amore che si traduce in fraternità condivisa e partecipata, vissuta con gesti, atteggiamenti e parole di tenerezza che diventano accoglienza dell’altro/a com’è, senza pretendere nulla in cambio: «Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Conoscere è amare! Amare vuol dire proiettarsi completamente nell’altro, considerato come la parte migliore di me, perché esprime per me il volto autentico di Dio che mi ama come sono, nella mia fragilità e nella mia pochezza. La via della conoscenza sperimentale di Dio avviene attraverso la Scrittura che svela il pensiero e il cuore di Dio, nel momento in cui lui in persona parla al cuore, svelando i suoi sentimenti, le sue attese, i suoi progetti e la profondità del nostro cuore: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture? Non si possono leggere le Scritture solo con la testa, esse sono essenzialmente una questione di cuore che biblicamente è la sede della conoscenza sperimentale. Impegnarsi nella conoscenza significa ancora e più profondamente avere stima e cura di se stessi per essere dono unico per coloro con cui condividiamo l’Uno che sta in mezzo a noi. La voce e la mia vita, allora, diventano parola incarnata che testimonia davanti al mondo che il Signore mi abita e io mi lascio abitare dalle sue presenze che sono il volto, il cuore e i sentimenti dei miei fratelli e delle mie sorelle, gli avvenimenti del mondo, i segni dei tempi.
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