Mensa della Parola: At 3,13-15.17-19; Sal 4, 2.4-6.7.9; 1Gv 2,1-5a; Lc 24,35-48
Siamo qui per confrontarci con la Parola che si fa carne, per verificare la nostra settimana trascorsa e per imparare, o meglio affinare sempre più la prospettiva di vita per affrontare la settimana che viene. È facile dire «Io credo in Dio», ma rischia di diventare o una frase vuota o anche una bestemmia, se la nostra vita ordinaria è la negazione diretta e indiretta della Presenza che si rende visibile attraverso il nostro essere e il nostro agire e la cui luce intende restituirci la coscienza della profezia che oggi viviamo e professiamo.
Essere profeti significa essere preda della Parola e vivere necessitati da essa che diventa esigenza, coerenza, verità, profezia di vita e di risurrezione. Questa 3a domenica ci aiuta ad assaporare la Pasqua nella dimensione del «dopo» la morte. Non è un caso che in questo periodo si legga il libro degli Atti che narrano la presenza di Gesù «dopo la morte e risurrezione» e in questo senso completano il Vangelo che narra la presenza di Gesù durante la sua vita terrena, ma anch’essi scritti dopo e alla luce della Risurrezione. Se i vangeli sono la raccolta essenziale di ciò che Gesù ha detto e ha fatto durante la sua vita, gli Atti sono ciò che Gesù ha detto e fatto dopo la sua morte, anche attraverso la vita degli apostoli, dei discepoli e delle donne della prima generazione che resta per sempre la generazione «tipo», il modello apostolico di ogni tempo.
Il libro degli Atti può essere definito anche come il «Vangelo dello Spirito Santo», così come il vangelo descrive gli «Atti di Gesù». Non è per caso che Luca scriva sia il terzo vangelo sia gli Atti, databili dopo l’80 d.C., mentre proprio per la loro natura, intorno al 150 circa. sono stati abbinati e pubblicati insieme per la continuità ideale, storica e teologica. Il brano degli Atti odierno riporta il 2° discorso missionario di Pietro ai Giudei dopo la guarigione del paralitico al tempio (At 3,1-11). Non è Pietro che guarisce, ma Pietro «nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno» (At 3,6) per dimostrare che «quel» Gesù è ancora vivo e operante nella vita del popolo d’Israele. Siamo qui a celebrare l’Eucarestia per un atto d’amore libero e gratuito: un bisogno interiore che ci fa dire come i martiri di Abitène: «senza la domenica noi non possiamo vivere» perché qui è la Parola, il Pane, il Vino, il Perdono, la Fraternità, l’Universalità. In un soffio: qui è il Cristo condiviso.
Nel Vangelo di Luca, Gesù si manifesta agli apostoli nella notte dello stesso giorno di Pasqua. Gli apostoli sono frastornati, pieni di dubbi, turbati e impauriti (Lc 24,37-39). Non possono essere loro gli inventori del vangelo perché non avrebbe senso questa presentazione negativa di coloro che di lì a poco dovranno dare testimonianza anche con la vita. Gli apostoli sono i primi a non capire e fuggono: essi si rifugiano nella paura che li costringe a stare insieme come bambini che, avendo paura del buio, si stringono a vicenda per sperimentarsi vivi. Sono insieme, ma non fanno comunità, sono raccolti, ma per difendersi dai fantasmi (Lc 24,39). Sono insieme, ma soli, soli e immobilizzati nel terrore di una presenza che non avevano nemmeno immaginato. Il Signore deve fare un’opera di persuasione dolce e suadente, invitandoli con dolcezza a toccarlo per vedere e verificare. Non riuscendo a vincere la loro paralisi, li invita a cena, portando quello che hanno. Quando si mangia insieme, anche le paure più profonde s’incrinano: portano pesce fresco (Lc 24,42-43). L’evangelista rileva che Gesù «e prendendo(lo), davanti a loro lo mangiò» (Lc 24,43).
Gesù mangia «davanti» a loro e non «con» loro. Mangiava «con loro» durante la sua vita terrena, ora da risorto mangia «davanti a loro». Con questo comportamento, l’evangelista ci costringe a prendere atto che il Gesù di «dopo» è lo stesso di «prima», macompletamente «diverso»: non è più l’uomo che cammina per le strade, egli ora è il Dio Invisibile, ma Presente, il Dio che vive una dimensione di vita diversa che non appartiene più all’esperienza delle fisicità, ma che si staglia sul crinale della divinità per fare dell’umano un «luogo» di esperienza divina. Questo «luogo» per noi è l’Eucaristia, il sacramento dove «vediamo e tocchiamo» che è Lui: vediamo pane, ma contempliamo il suo Corpo, vediamo il vino, ma assaporiamo il suo sangue, per i semiti simbolo della sua vita. Possiamo sperimentare perché vediamo con gli occhi della fede, cioè siamo posti in una dimensione di vertigine perché non capiamo più nulla e possiamo solo cadere in ginocchio e nutrirci della sua risurrezione, mentre con il cuore e le labbra «confessiamo» con Tommaso: «Mio Signore e Mio Dio» (Gv 20,28).
Ascoltiamo uno dei discorsi missionari degli apostoli. Qualcuno potrebbe dire che noi non ne abbiamo bisogno perché siamo battezzati e credenti. Così non è perché se vogliamo essere missionari dobbiamo a nostra volta essere evangelizzati. Nell’esortazione apostolica «Evangelii Nuntiandi», Paolo VI affermava che «evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa»: «la comunità dei cristiani non è mai chiusa in se stessa. In essa la vita intima – la vita di preghiera, l'ascolto della Parola e dell’insegnamento degli Apostoli, la carità fraterna vissuta, il pane spezzato non acquista tutto il suo significato se non quando essa diventa testimonianza, provoca l’ammirazione e la conversione, si fa predicazione e annuncio della Buona Novella. Così tutta la Chiesa riceve la missione di evangelizzare, e l’opera di ciascuno è importante per tutti. Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli, essa ha sempre bisogno di sentir proclamare «le grandi opere di Dio» che l’hanno convertita al Signore, e d’essere nuovamente convocata e riunita da lui. Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, se vuol conservare freschezza, slancio e forza per annunziare il Vangelo».
Esame di coscienza
Lasciamo, dunque, che l’annuncio risuoni nei nostri cuori per poterlo condividere con tutta l’umanità nel segno della Santa Trinità: «Convertitevi, dunque, e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati» (At 3,19). Sono queste le parole che terminano sempre i discorsi missionari degli apostoli. Giovanni a sua volta ci presenta Gesù come «vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 2,2) e, nel vangelo, Lc ci ricorda il mandato di Gesù risorto che invia gli apostoli perché «nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47). Tutta la liturgia della Parola ha questo filo di unione: la conversione e il perdono dei peccati che noi possiamo, dobbiamo intendere come relazione affettiva con lui che ci convoca al suo banchetto di grazia e amore. Riconoscersi peccatori davanti al «Santo e Giusto» (At 3,14), significa affermare la verità di Dio e la nostra autenticità.
Signore risorto, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison!
Cristo Gesù, Dio di Ludovica, Simone, Elena e dei giusti, abbi pietà di noi. Christe, elèison!
Signore Gesù, che spesso ti crediamo solo un fantasma, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison!
Dio, Padre del Signore risorto e nostro, che si manifesta ai discepoli, mangiando «davanti» a loro, abbia misericordia di noi, perdoni le nostre contraddizioni e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
In questo brano, espressamente collegato all’esperienza dei «discepoli di Emmaus» (Lc 24,35), Lc ha un’evidente preoccupazione apologetica perché si preoccupa di offrire ai suoi lettori le prove della risurrezione di Gesù. Ciò che risalta in questo brano è la totale mancanza di fede degli apostoli e la brutta figura conseguente (Lc 24,38.41). Se vogliamo, qui potrebbe esserci un indizio della «veridicità» dei vangeli dal punto di vista storico: gli apostoli non possono essere gli «inventori» della risurrezione perché non avrebbero scritto mai una pagina come questa che li presenta in preda allo spavento, con atteggiamento infantile, di fronte a quello che credevano un fantasma (Lc 24,37). Cristo deve tranquillizzarli riguardo alla sua corporeità e quindi ripetutamente li invita a toccarlo (Lc 24,39) e si presta all’esperimento di mangiare «davanti a loro» (Lc 24,42-43) nel senso di «alla presenza di loro», perché lo vedessero bene, senza equivoci.
Questa è una caratteristica che riguarda il comportamento di Gesù solo «dopo risurrezione»: non mangia più «con» loro, come faceva prima quando era «uno di loro»45, ma ora nel suo nuovo stato di «risorto», egli mangia «davanti a loro» (Lc 24,43), quasi a voler sottolineare la differenza della natura nuova che distingue e quindi separa il maestro dai discepoli. Gesù sta al cospetto di loro, anche contro la loro incredulità perché non vi fossero dubbi sulla sua presenza «corporea» che si staglia sullo sfondo del terrore e dello sgomento dei discepoli. Essi erano convinti che tutto fosse finito con la morte di Gesù e non immaginavano nemmeno la possibilità di una risurrezione: come spiegare altrimenti terrore e sgomento?
L’evangelista si preoccupa di dire che Gesù è «veramente» vivo e presente, ma non ci spiega «come», cioè non spiega le ragioni del suo nuovo modo di essere. La liturgia di oggi è molto importante perché ci assicura sulla verità della risurrezione che non è una fantasia di uomini o un’invenzione di un gruppo interessato, visto che essi stessi sono increduli e pieni di dubbi. Tutta la cristologia (= chi è Gesù Cristo) è in crisi e può essere un’occasione propizia per «dire oggi» la novità di Gesù di Nazareth che porta sempre più un messaggio fortemente rivoluzionario e destabilizzante. Gesù risorto non è un ricordo degli apostoli, ma la chiave di lettura di tutta la storia della salvezza sia sul versante dell’umanità (antropologico) sia su quello del mondo (cosmico), sperimentata e interpretata da prospettive diverse, personali (evangelisti) e storiche (comunità di fede disperse) e non da un punto di vista storiografico che non era essenziale per i primi testimoni. Cosa significa «risurrezione», cosa vuol dire «storia»? Noi facciamo fatica a ripensare queste «realtà» perché siamo nati e cresciuti all’interno di un sistema religioso che ha concepito la storia e la catechesi prevalentemente come «apologetica» per difendere la divinità di Gesù ad ogni costo contro ogni tentativo di sottolinearne la umanità. Un’altra caratteristica di questi discorsi missionari è il collegamento del peccato con la risurrezione (Lc 24,47; Mc 16,15-16; Gv 20,23; 1Gv 2,1-2). Secondo la mentalità religiosa del tempo di Gesù, il peccato è una frattura insanabile con Dio perché viene a turbare l’ordine stabilito dal creatore. La conseguenza di questa frattura è il castigo della morte, cioè il prezzo che noi paghiamo alla nostra fragilità. È inevitabile quindi che la risurrezione dalla morte diventi anche opposizione al peccato, cioè vittoria sulla morte. Noi riteniamo che la morte sia un fenomeno biologico inerente la vita stessa, parte dello stato costitutivo del vivente: noi moriamo perché viviamo e non può esserci vita senza l’orizzonte della morte. La morte e la vita sono due sorelle siamesi che vivono insieme, respirano insieme, stanno insieme e non può esistere l’una senza il sostegno dell’altra. La morte non è più una conseguenza di un comportamento (im)morale. Vivere in un certo modo, alla luce di determinati criteri, può condurre a una morte piuttosto che a un’altra perché una cosa è certa: la morte è la rivelazione suprema della vita; anzi è il punto più alto dell’esistenza, l’atto e il frutto più maturo della vita vissuta.
La catechesi cattolica parla di morte morale dell’anima e quindi di peccato mortale, quando si avvera una frattura decisa, scelta e voluta in opposizione al progetto di alleanza proposto da Dio. L’uomo moderno, più agnostico che credente, non tiene conto di queste categorie, che anzi ritiene puerili, perché egli si considera nuovo Adamo, autosufficiente e bastante a se stesso. Questo atteggiamento deve costituire un pressante invito a non chiudersi dentro la cittadella assediata dal mondo cattivo e cinico, ma a ripensare le proprie categorie culturali e religiose per purificare sempre, non solo il concetto stesso di Dio, ma anche quello di noi stessi che deriva da una sedimentazione storica e spesso superficiale. Peccato è autosufficienza, ma anche presunzione di sapere tutto di Dio per garantirsi autorità, struttura di potere e strumenti per esercitarlo. Si pone il problema di metodo: è possibile presentare oggi l’associazione biblica tra risurrezione e remissione del peccato in termini accettabili per la persona moderna, supportata dagli sviluppi della conoscenza biblica e della scienza stessa?
La risposta è semplice se si considera e si vive la fede come una «relazione» tra persone. Ogni relazione ha in sé un modulo di accettazione o di rifiuto dell’altro. Ognuno di noi ha fatto l’esperienza, per qualche motivo, del rifiuto passivo (subìto) o attivo di un’altra persona. Chi si pone in relazione si mette a rischio di essere rifiutato perché l’accettazione non è scontata. Essa è piuttosto un processo con regole e gradualità che non possono essere aggirate né tantomeno eliminate. Essere accettati dagli altri è la base della propria autostima, perché ci si sperimenta proiettati verso un’esperienza di comunione che fa esplodere tutte le potenzialità interiori di ciascuno. Se uno si sente rifiutato si chiude in sé e si estranea dal mondo esterno per crearsene uno proprio.
Alla luce di questo vediamo cosa succede sul piano della fede: la morte è la realtà più inaccettabile che vi sia e tutti ne abbiamo timore; cerchiamo infatti in ogni modo di esorcizzarla, rimuovendola dal nostro orizzonte di vita quotidiana. Noi non pensiamo mai che potremmo morire oggi, domani, dopodomani, all’improvviso. Di fronte a un terremoto, ci commoviamo, commiseriamo coloro che l’hanno subito, ma difficilmente pensiamo che sarebbe potuto o potrebbe succedere a noi. Esorcizzare la morte, però, non significa eliminarla: pertanto quando essa arriva siamo impreparati e ne restiamo schiacciati. La nonna, il papà, la moglie, il figlio, l’amica, il parente che magari non vedevamo o non cercavamo perché sapevamo che c’erano, all’improvviso diventano «abissi di vuoto» incolmabili. La risurrezione è tutta qui: Gesù non doveva morire perché fu condannato ingiustamente sulla base di false testimonianze (Mt 26,60; At 6, 13), calpestando qualsiasi forma di diritto processuale.
Ciononostante, Gesù, proprio perché innocente, solo ed esclusivamente per amore prese su di sé le conseguenze di questa tragedia. Scelse di non fuggire né di difendersi, scegliendo consapevolmente come sua la realtà inaccettabile della morte, facendone la ragione della sua vita, diventando lui stesso «inaccettabile» (Is 53,5), tanto da temere e rasentare anche l’abbandono di Dio (Mc 15,34). Egli consapevole che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16), va ancora oltre e non si limita a dare una testimonianza, ma si lascia prendere la vita, regalandola a coloro per i quali è stato mandato. Il dono di sé è totale perché non trattiene nulla per sé, ma dona non solo la vita, ma anche la morte. Facendo proprie le conseguenze dell’ingiustizia, egli è libero di agire per amore, regalando la propria vita a coloro che gliela rapiscono, salvandoli da se stessi: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Nota esegetica
Gesù è il grande «Dabàr = Parola/Fatto» perché la sua parola è sempre corrispondente alla realtà e in lui non c’è frattura fra il suo apparire e il suo essere. Poco prima aveva dato un orizzonte ai suoi discepoli: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Ora lui dà l’esempio, superandolo: dona la sua vita anche per i suoi nemici. Se è vero che il «un discepolo non è più del maestro» (Lc 6,40; Mt 10,24), è maggiormente vero che il maestro deve sempre stare un passo e un gradino avanti dei suoi discepoli perché non basta insegnare con le parole, che devono sempre essere accompagnate con il sigillo delle scelte, delle azioni corrispondenti (Gc 2,18). Qui si pone il superamento della morte di Gesù come sacrificio espiatorio. Il «sacrificio espiatorio» è logico nella linea del peccato originale e nella assunzione del sistema liturgico ebraico, dove è essenziale il sacrificio cruento di animali per «rabbonire» la divinità in una logica di «dare-avere». Se questo fosse vero, Adamo sarebbe più importante di Gesù. Ciò è smentito da «Donna Sapienza» che presiede alla creazione, prima di Adamo ed Eva come sta scritto: «22Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. 23Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. 24Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; 25prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, 26quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. 27Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, 28quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, 29quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, 30io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante,31giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8, 22-31).
Alla Sapienza dei Proverbi, fa eco Giovanni: «In principio era il Logos e il Logos era Dio» (Gv 1,1) e lo stesso Gesù: «Padre… glorifica davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse… perché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,5.24). Anche Pietro si rifà a questa tradizione: «18Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, 19ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. 20Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi» (1Pt 1,18-20).
Dio Padre accoglie l’offerta del Figlio Unigenito che si fa addirittura «peccato egli stesso» (2Cor 5,21), lui che è «senza peccato» (Eb 8,28). Accettando il Figlio in questa condizione di ribrezzo e di morte senza senso, il Padre sta accanto al Cristo, prendendolo in parola e facendosi carico dell’umanità nel suo stato di desolazione, alla quale lancia la nuova alleanza universale, scritta non su tavole di pietra ma sulla carne viva e nel sangue del Figlio suo, Gesù di Nazareth: nessuno può più considerarsi escluso o morto, perché il Padre accoglie ogni morte e accetta ogni peccatore perché si converta e viva (Ez 33,11). Quest’atteggiamento del Padre diventa così il fondamento della considerazione che ciascuno di noi deve avere di sé stesso, superando un falso concetto di umiltà inculcato per secoli e perseguendo invece l’orgoglio cristiano di essere figli di Dio. Nessuno può dire: io valgo niente, perché con la morte di Cristo ogni individuo vale la sua vita. Se Dio mi accetta anche morto, vuol dire che io valgo molto per lui: valgo la vita del Figlio Unigenito.
Siamo partiti dal concetto di «relazione» come veicolo per parlare del peccato e della morte nella cultura di oggi che è segnata proprio dalla mancanza di relazione vitale, mentre è piena di avvicinamenti occasionali o provvisori che non lasciano il segno. Non è facile saper vivere la dimensione di dipendenza che ogni relazione comporta e pertanto è necessaria la comunità eucaristica dove prendiamo coscienza dei nostri limiti e degli obiettivi di Dio. È facile perdonare i peccati degli altri; più difficile è riconoscersi e accettarsi perdonati da un Altro. È facile fare doni o meglio regali, ma è più difficile accettarne uno perché il dono accettato svela il grado di dipendenza di chi lo riceve. Il dono fatto esprime un potere, il dono ricevuto una sottomissione. Non così in una relazione d’amore dove non esistono «dare e ricevere»: l’amore rifugge dal concetto di reciprocità, ma accetta solo il processo di gratuità che è circuito di uno stesso e identico movimento: la dipendenza dell’io e del tu si annullano per diventare solo rivelazione del «noi», fusione di un’unica dipendenza di crescita.
Amare vuol dire dipendere da chi si ama e quando si accetta questa dipendenza si vive e si sperimenta la totalità della libertà, perché non c’è maggiore libertà di quella di colui o colei che la regala per amore. Senza pretendere o chiedere nulla in cambio. In questo contesto, il peccato diventa la cartina di tornasole della nostra capacità di voler dipendere da Dio come sorgente di libertà e di autonomia, per cui ci sentiamo custoditi e amati non per i nostri atteggiamenti o ciò che facciamo, viviamo, pensiamo, ma unicamente per noi stessi: noi valiamo la vita stessa di Dio. Per questo vogliamo vivere la risurrezione, che comporta la remissione del peccato, che è il ristabilimento della nostra identità nel contesto della signoria di Dio sul mondo e sulla nostra vita nel segno dell’amore che ha un nome proprio: Gesù.
L’Eucaristia che celebriamo è l’espressione di questa «mistagogìa» che apre noi all’esperienza di Dio e Dio alla nostra esperienza. Gesù risorto non mangia più «davanti a noi», ma ora non solo mangia «con noi», ma addirittura è lui stesso che si offre come cibo di vita: egli scompare in noi per apparire risorto nelle nostre scelte, nelle nostre parole, nei nostri gesti, nella nostra vita di testimonianza.
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