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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 3ª QUARESIMA

Mensa della Parola: Es 20,1-17 (lettura breve: Es 20,1-3.7-8.12-17); Sal 19/18,8-11; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

 

La liturgia propone un dipinto in forma del trittico. Approfondiamo le singole pale cominciando dalla 1a:

1) «Non avrai altri dèi di fronte a me».

2) «Non ti farai alcuna scultura (idolo) né immagine alcuna».

3) «Non pronuncerai nel vuoto/invano il nome del Signore»

4) «Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo… non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero…» (Es 20,3.4.7.8).

Nella 2a sono incise sei «parole» che riguardano la vita comunitaria/sociale di ogni israelita:

5) «Onora tuo padre e tua madre».

6) «Non ucciderai».

7) «Non commetterai adulterio».

8) Non ruberai.

9) «Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo».

10) «Non desidererai la casa del tuo prossimo, sua moglie né il suo schiavo e la sua schiava né il suo bue né il suo asino».

Nota esegetico-giudaica

La tradizione giudaica ha formulato «613 precetti» che ogni pio ebreo deve osservare per tutta la vita. Essi indicano la totalità della Toràh e, quindi, della volontà di Dio. Lo stesso trattato scompone i 613 precetti in due parti: a) 248 sono comandamenti positivi (precetti da fare/obblighi) e b) 365 sono comandamenti negativi (precetti da non fare/divieti). I precetti positivi impegnano a compiere un’azione (esempio la circoncisione), mentre i precetti negativi vietano di fare una certa azione (esempio il divieto di portare pesi in giorno di sabato). I numeri dei precetti positivi (248) e negativi (365) sono profondamenti simbolici; secondo la scienza del tempo, infatti, il corpo umano si componeva di 248 parti (ossa, nervi, tendini, ecc.), mentre 365 sono i giorni dell’anno solare. Da ciò emerge che sia il corpo, cioè lo spazio, sia il tempo sono soggetti alla Toràh. Per questo motivo gli Ebrei scuotono il corpo in movimento continuo quando pregano perché alla preghiera deve corrispondere non solo lo spirito, ma anche la materia, cioè il corpo. Il dondolìo del corpo è simbolo dell’adesione all’intera Toràh di tutta la persona che la riceve.

Gesù si colloca in questo solco della tradizione fin dal suo primo discorso programmatico, quello fondativo e costituente o discorso del monte. Non però in modo passivo, ma in una prospettiva dinamica ed evolutiva fino ad abolire l’illusione che l’osservanza materiale, proprio della religione, possa costituire adempimento del cuore, esclusivo atteggiamento della fede. Egli, infatti, da ebreo, fa piazza pulita dei 613 precetti che non abolisce, ma riporta al loro «principio e fondamento», alla loro radicalità originaria, all’intenzione dell’autore/Dio che è una questione di cuore e di amore: «37 Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. 38 Questo è il grande e primo comanda-mento. 39 Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 40 Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”» (Mt 22,37-40).

I rabbini dividono anche le due tavole collocando cinque parole in ciascuna di esse. Le prime cinque parole della 1a tavola contengono il Nome santo di Dio, la 2a tavola con il secondo gruppo delle ultime cinque parole non riguarda Dio, ma le relazioni umane sullo sfondo del rapporto con Dio: in questo senso c’è il perfetto equilibrio tra la relazione con Dio e quella con gli altri. Non solo, la Mishnàh aggiunge che le tavole di pietra su cui furono scritte le parole sono state create «prima della creazione del mondo», proprio per sottolineare la loro natura universale, esistendo già prima ancora del tempo e dello spazio e, cosa più determinante, prima della nascita di Israele. Un’altra tradizione aggiunge che mentre Dio scriveva in ebraico le parole sulla pietra esse erano simultaneamente tradotte in settanta lingue, una per ogni popolo che, secondo la credenza di allora, abitava la terra. È la prima traduzione simultanea della storia dell’umanità

Queste dieci parole, con cui Dio «crea» Israele suo popolo nel segno della Toràh, sono l’eco delle prime dieci parole che Dio pronunciò «in principio», quando con esse creò il mondo, lo scenario, il palcoscenico preparato per l’ingresso del protagonista della storia che andava a iniziare: Israele, il popolo dell’alleanza. La creazione, dunque, non è fine a se stessa, ma è il teatro, l’ambiente dove Israele avrebbe vissuto guidato dalla Toràh, riassunta nelle dieci parole di libertà date per iscritto, cioè scolpite, perché non vadano smarrite. Esse non sono imprigionate nell’immobilismo, ma sono il binario-guida per andare più veloci e per non sbandare. La parola di Dio, anche quando impone, non è un limite, ma una proiezione, un orizzonte e un fine orientata alla libertà.

Nota esegetica

La liturgia di oggi ci offre una straordinaria sintesi teologica che ci eleva dalla superficialità della religione abituale all’ebrezza della spiritualità che solo sul monte Sinai e, in seguito sul monte Calvario, possiamo provare e sperimentare. Alcune osservazioni sulla 1a pala che presenta il dono della Toràh, cioè la Parola consegnata a Israele sul Sinai per mano di Mosè; essa è il ripristino dello stato primordiale dell’Èden, quando Dio e l’umanità erano familiari e intimi e Dio «parlava» con Adamo ed Eva, passeggiando nel giardino. Il mondo nasce dalla Parola di Dio: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3.6.9); allo stesso modo è la Parola di Dio che genera Israele come «popolo» quando gli consegna le dieci parole di libertà e di identità che sono i comandamenti (Es 20,1-21). Con dieci parole è creato il mondo, con dieci parole è costituito l’Israele «regno di sacerdoti e nazione santa» (Es 19,6). Nella creazione, il mondo esce dal caos e dal vuoto appena evocato dalla parola creatrice; al Sinai Israele esce dall’anonimato della schiavitù per diventare una «nazione», cioè un popolo cosciente e libero, non appena è evocato dalla parola di Dio, che attraverso Mosè gli conferisce la coscienza della libertà che diventa norma di vita. Il popolo sa cosa avviene e, infatti, risponde senza esitare: «Quanto ha detto il Signore, faremo e ascolteremo» (Es 24,7). Prima viene l’esecuzione fattuale che si basa sulla fiducia in Dio (atto preminentemente d’amore) e solo dopo segue l’ascolto, cioè il ragionamento, le distinzioni, le valutazioni per giustificare l’adesione consapevole (analisi critica). Seguendo il metodo rabbinico, anche noi possiamo provare a suddividere altrimenti le dieci parole in due gruppi: la 1a tavola riporta tre parole, mentre la 2a ne riporta sette. Il rapporto di 3 a 7 è una proporzione squilibrata: tre comandamenti riguardano Dio, sette invece coinvolgono la relazione di Israele con Dio e con tutti gli altri popoli, quasi a dire che è facile relazionarsi con Dio, mentre è molto complicato aprirsi al di fuori di sé. Per essere sicuri di stare in buoni rapporti con Dio, è indispensabile instaurare relazioni vitali con gli altri. Vivere in rapporto con Dio, infatti, è semplice e non occorrono troppe parole; mentre è più complesso vivere in relazione orizzontale con gli altri che diventano così la misura della relazione verticale con Dio: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Finché la perfezione dell’umanità non s’innesta in Dio, questi resterà incompiuto e imperfetto perché privato della sua immagine e somiglianza (Gn 1,27).

Nella 2a pala del trittico osserviamo il quadretto movimentato della purificazione del tempio con Gesù protagonista severo che «osa» parlare di purificazione del «Luogo» (Maqòm), cioè del tempio di Gerusalemme, lo sgabello della sua gloria (Sal 132/131,7). Gli Ebrei avevano talmente identificato Dio con il tempio che lo chiamavano «Luogo/Maqòm» come sinonimo di Yahwèh. Dentro questa mentalità bisogna collocare il gesto di Gesù che chiede purificazione: è come se Dio stesso dovesse purificarsi. Una bestemmia perché Gesù si appropria delle prerogative di Dio e agisce con autorità.

Nella 3a pala, quella centrale del trittico, troviamo il Crocifisso dipinto da Paolo con due colori: lo scandalo e la stoltezza. Il Dio di Gesù non è un «dio logico», ma un dio scandaloso che sconfina nella stoltezza. Egli è un Dio che s’impegna a essere così repellente per il «buonismo cristiano» da farsi rifiutare prima ancora di essere conosciuto. È un Dio che si mette di traverso tra la religione di convenienza e l’umanità sofferente e ripugnante. Scandalo e stoltezza: «O stolti Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso!» (Gal 3,1; 1Cor 1,22-23; 2,2). Chi potrebbe mai accettare un dio così? Già il profeta Isaia ci aveva messo in guardia, ma noi eravamo distratti e ci siamo voltati dall’altra parte: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima» (Is 53,2-3).

Il Crocifisso ha due soli versanti segnati dalla croce: il versante verticale verso l’alto, in direzione della Trinità e il versante orizzontale in estensione verso il mondo intero: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il Crocifisso è la confluenza tra la Divinità e l’Umanità, la sintesi singolare e inaudita di Dio e dell’Uomo. Nessuna religione può immaginare e teorizzare ciò: noi infatti lo apprendiamo solo per rivelazione e per esperienza interiore.

Le dieci parole, il tempio e il Crocifisso formano una trilogia circolare. Le dieci parole creano Israele come popolo, la purificazione del tempio restituisce la coscienza di Israele al suo fondamento che è la Gloria di Dio; entrambe sono proiettate verso il cuore stesso della fede cristiana: Gesù Cristo, Dio crocifisso che accoglie la morte in sé come dimensione della divinità per restituire Adamo ed Eva al loro stato originario di viventi per l’eternità. Dio ama così tanto i suoi figli che annientare se stesso per dare loro la vita in abbondanza (Gv 10,10). Nessuna religione pensata dagli uomini può prevedere una simile versione. Non a caso nel Medio Evo Cristo era simboleggiato dal pellicano che strappa il suo cuore per nutrire i suoi piccoli morti, risuscitandoli «dopo tre giorni». Il racconto della purificazione del tempio appartiene alla tradizione di tutti e quattro i vangeli (Mt 21,12-13; Mc 11.15-17; Lc 19,45-48; Gv 2,13-24: vangelo di oggi), segno dell’importanza di questo gesto posto da Gv all’inizio della vita pubblica di Gesù, attribuendogli così una portata e un messaggio dirompente e di rottura con una tradizione che ormai aveva perduto il suo senso originario.

Esame di coscienza

Ciascuno di noi ha bisogno di uno specchio dove vedere riflessa la propria immagine. I comandamenti sono il rimando della nostra coscienza al cuore del nostro essere e della nostra crescita. Per raggiungere una meta bisogna percorrere una strada e se la strada è «data», il cammino è più leggero. Le «Dieci Parole» sono dieci piste di libertà: quattro riguardano Dio e sei le relazioni umane. Consapevoli di ciò saliamo al tempio purificato da Cristo per prendere coscienza della differenza tra la religione-mercato e la fede che innamora. Esaminando la nostra coscienza non lasciamoci scoraggiare dalla quantità dei comandamenti, ma prendiamo atto che Gesù ha condensato tutta la legge e la morale in un solo imperativo: amare i fratelli e le sorelle come luogo privilegiato per scoprire e amare Dio stesso. Chiediamo perdono per le volte che non abbiamo voluto/saputo amare come Dio ama ciascuno di noi.

Signore, facciamo fatica a testimoniare i comandamenti, parole di libertà. Kyrie, elèison!

Cristo, che sei il Comandamento mandato a chiamare i peccatori, abbi pietà. Christe, elèison!

Signore, Dio crocifisso, quando ti traffichiamo con la cultura e le finte civiltà. Kyrie, elèison!

Cristo, quando non ti riconosciamo Messia sofferente nel travaglio del parto. Christe, elèison!

Signore, quando nominiamo il tuo Nome santo nel vuoto di morta religione. Kyrie, elèison!

Dio dei Padri e delle Madri che chiama Israele alla libertà attraverso le dieci parole consegnate a Mosè, il quale ci ha guidato all’incontro con il Crocifisso, scandalo e stoltezza per il mondo; per i meriti di Gesù, che purificando il tempio c’introduce nel luogo della preghiera che è l’amore, abbia misericordia di noi, per-doni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti di riflessione e preghiera

Il decalogo appartiene al genere letterario «forense-giuridico» e stabilisce i comportamenti negativi e le relative sanzioni. Il codice giuridico/penale è formulato in modo ipotetico/condizionale, in terza persona singolare: Se qualcuno uccide qualcun altro, verrà messo a morte. Il decalogo biblico, invece, si allontana da questo schema e assume la forma assoluta, imperativa, alla 2a persona singolare, che esige una relazione personale, perché la norma è un appello alla coscienza della persona: Tu non ucciderai.

Questa forma assoluta del codice di alleanza esprime un imperativo morale indiscutibile che pone i due contraenti su piani diversi, ma mai separati. Tra chi ordina e chi deve accettare c’è diversità di ruoli, ma comunione di prospettiva: Israele è il vassallo e Yahwèh è il sovrano, ma nello stesso tempo il sottomesso viene posto sullo stesso piano dell’autorità perché l’appello del comando è rivolto al «tu», non cioè all’umanità indistinta, ma alla coscienza individuale della singola persona nella pienezza della propria autonomia etica.

In oriente è sempre il vincitore a imporre al vinto un codice di alleanza come garanzia di salvaguardia per lo sconfitto. Senza l’alleanza col vincitore, il vinto rischia di essere allo sbando, preda di chiunque. I popoli più forti, infatti, approfittavano della debolezza dei vinti per sottometterli e depredarli. Prima di Cristo, dunque, esisteva la coscienza della tutela delle minoranze, garantite dal vincitore, a differenza di oggi, ad oltre duemila anni da Cristo, nel tempo in cui si sproloquia di «civiltà occidentale/ cristiana», dove le minoranze sono sempre oppresse e le temporanee maggioranze esercitano la dittatura delle istituzioni, della morale e dell’insipienza. In questo contesto di alleanza di garanzia, chiunque volesse approfittare della situazione di debolezza dei vinti, doveva fare i conti con il vincitore che si assumeva l’impegno di garante del debole. Il decalogo fu elaborato diverse volte nel corso della storia d’Israele. Possiamo ricostruire la forma originaria del decalogo nello schema seguente:

1.   Solo Io-Sono il Dio tuo che ti ha fatto uscire dalla casa del lavoro/schiavitù.

2.   A te non saranno gli dèi [degli] altri alla mia presenza [lett.: davanti ai miei volti].

3.   Non porterai il Nome di Yahwèh, tuo Dio, nel vano [giuramento, per scherzo, falsamente, e anche non lo invocherai inutilmente].

4.   Ricorda il giorno di Shabàt per santificarlo. Non farai alcun lavoro il giorno settimo: è un sabato.

5.   Onorerai [= dài peso] tuo padre e tua madre.

6.   Non ucciderai.

7.   Non commetterai adulterio.

8.   Non ruberai.

9.   Non risponderai con falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

10.           Non desidererai la casa del tuo prossimo (moglie, servo, serva, bue, asino e averi).

La prima osservazione riguarda il «luogo» della rivelazione delle «dieci parole». Esse sono date da Dio non in un tempio splendente, non nel corso di una liturgia sontuosa, ma nella povertà estrema del deserto, terra di nessuno, terra di passaggio, terra dell’avventura. Le parole che risuonano nel deserto sono parole libere che non appartengono nemmeno a Israele che resta solo un testimone, un «uditore»: chiunque può ascoltare, chiunque può accogliere le parole perché ciascuna di esse si rivolge ad un «tu» che può essere chiunque. Per questo le «dieci parole» hanno una valenza universale che supera ogni limite religioso. Da qui si può desumere, per osare un azzardo, la laicità di Dio che nessuna religione può imprigionare e dichiarare «suo».

Le prime due parole riguardano l’identità di Dio che può mai essere con-fusa con l’idolatria: Yahwèh non accetta di essere messo sullo stesso piano degli idoli che «4 sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. 5 Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, 6 hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. 7 Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni!» (Sal 115,4-7/Sal 113,12-15).

La terza parola che Dio pronuncia è rivolta direttamente agli addetti al sacro e a coloro che usano il termine «Dio» con troppa facilità: «Non porterai nel vuoto il Nome di Dio» (Es 20,7). Gli Ebrei hanno un così grande rispetto del Nome santo che non lo pronunciano mai per non correre il rischio di farlo vanamente. Solo nel giorno di Yom Kippur - Giorno dell’espiazione, il sommo sacerdote nel Santo dei Santi (la parte più interna e inviolabile del tempio, dove è conservata l’arca, pronunciava il Sacro tetragramma YHWH. Anche il capofamiglia lo trasmette al suo erede maggiore solo in punto di morte e in un contesto di segretezza. Quando nella lettura della Bibbia s’incontra il Nome santo di Yahwèh, si deve pronunciare «Adonài Signore mio».

Il Nome nella cultura orientale indica la natura profonda di chi lo porta, e il Nome «Yahwèh» è così grande che gli Ebrei non distruggono nemmeno i libri liturgici usurati dall’uso poiché in essi è scritto il Nome santo di Dio. Essi li depongono in un ripostiglio senza porta, per conservarli con rispetto. Nella seconda metà dell’800 è stata trovata il ripostiglio del Cairo, in Egitto, che ci ha regalato una miniera di testi per la preghiera, permettendoci di conoscere sempre meglio il mondo cultuale e orante dei tempi biblici. L’uso del «Nome» in origine si riferiva alla magia in Es 20,7, mentre in Dt 5,11 riguardava i falsi giuramenti.

La quarta parola riguarda il giorno di Shabàt, il cuore della religiosità di Israele senza del quale nulla ha senso nella vita d’Israele. Esso richiama il creatore e l’ordine della creazione: osservare Shabàt significa riconoscere che Dio è il Signore e il fine della creazione. Ogni Ebreo nel giorno settimo imita il Dio creatore. Non solo, Adamo, inteso come genere umano, è creato a «immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27) ma rispettando Shabàt esplicita questa somiglianza, partecipandola al creato intero, come dirà espressamente san Paolo in Rm 8. Il giorno di Shabàt non è consacrato semplicemente al riposo, inteso come oziare o dormire o fare niente, al contrario, esso è il tempo dedicato alla somiglianza con Dio e quindi ad annunciare la profezia che ogni uomo è il «segno visibile» di Dio, la statua con le sembianze divine (Gen 2,7-8) che «riposando», cioè vivendo la dimensione divina, indica agli animali, alle cose che respirano e a quelle senza respiro, all’universo intero, che il suo e il loro fine è Dio stesso. Shabàt è il tempo della coscienza di essere figli di Dio, o meglio di avere Dio per padre.

La quinta parola è indirizzata all’onore verso i genitori che sono il primo prossimo da amare: il prossimo del prossimo. Questa parola è la sola tra le dieci dette da Dio cui è collegata una promessa: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Es 20,12). Nella seconda versione di Deuteronomio, addirittura la promessa raddoppia: «Onora tuo padre e tua madre, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato, perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Dt 5,16). Paolo nella lettera agli Efesini riprenderà, quasi alla lettera, il testo di Dt: «Onora tuo padre e tua madre! Questo è il primo comandamento che è accompagnato da una promessa: perché tu sia felice e goda di una lunga vita sulla terra» (Ef 6,2-3).

Con esso s’impegnano i figli a farsi carico dei genitori come esigenza primaria davanti a Dio. Al tempo di Gesù se uno diceva che il proprio patrimonio con cui avrebbe dovuto assistere i genitori «era consacrato a Dio», era esentato da tale obbligo, perché il suo patrimonio non poteva più essere utilizzato per fini profani. Questo, però, era un artifizio perché il voto di consacrazione a Dio del patrimonio non obbligava a devolverlo veramente al tempio, ma restava una promessa aleatoria. In questo modo si manteneva intatto il patrimonio, si era dispensati legalmente dall’obbligo di assistere i genitori e si poteva frequentare il tempio con la coscienza tranquilla. È quella che chiamiamo la religione del tornaconto e dell’inganno che Gesù sventa e condanna.

Il Siràcide, che commenta in chiave sapienziale la quarta parola sull’onore dei genitori, si spinge anche oltre affermando che onorare i genitori equivale all’espiazione dei peccati, cioè si ottiene lo stesso risultato che nel giorno di Yom Kippur, la liturgia più solenne di Israele, dopo la Pasqua: «Chi onora il padre espia i peccati» (Sir 3,3). Al contrario, abbandonare il padre e la madre corrisponde a essere blasfemi, cioè negatori di Dio. In questo senso il padre e la madre sono messi sullo stesso piano diDio: all’uno e all’altro spetta lo stesso rispetto e lo stesso onore.

L’uccisione di cui si parla nella sesta parola riguarda solo l’omicidio fuori del quadro comunitario e legale, perché l’omicidio era previsto da ogni ordinamento sociale. L’adulterio della settima parola riguarda ogni atto sessuale che viola l’integrità del matrimonio altrui: il peccato di adulterio è una colpa verso Dio perché viola la dignità di chi lo subisce. L’ottava parola riguarda prima di ogni cosa il ratto di persone (Lv 19,11), che comporta la sanzione della pena di morte, quindi interessa il furto di denaro e di cose con sanzioni diversificate.

La nona parola riguarda la testimonianza giudiziale che deve essere fondata sulla verità e non sulla vendetta o peggio ancora sull’interesse che spinge il teste a manovrare e cospirare ai danni di qualcuno (Dt 19,19). La decima parola riguarda due realtà: la casa del prossimo e la sua proprietà; per due volte infatti è detto «Tu non desidererai!». Il verbo ebraico «Chamàd» non è un semplice «desiderare», ma «avere mire» e quindi macchinare per possedere ciò che non appartiene per impossessarsi di ciò che è di altri: «17Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). È interessante notare la lista di ciò che è proibito macchinare per averne possesso: la casa, la moglie, lo schiavo, la schiava, il bue e l’asino, tutti messi sullo stesso piano perché sono «proprietà» del prossimo. La moglie non è «persona» nel senso moderno del termine, ma è allo stesso livello delle bestie da lavoro e degli schiavi, mera proprietà. Quando Gesù condannerà l’adulterio, Mc, che riflette il ministero di Paolo svolto nel mondo greco dove anche la donna poteva prendere l’iniziativa, porrà uomo e donna in parità di diritti e di colpa: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,1-12).

L’importanza delle «dieci parole» del Sinai non sta nel fatto che esprimono una legge naturale o un valore etico, ma è nell’espressione genuina della volontà di «qualcuno». La morale ebraica e quella cristiana hanno come fondamento non una legge e nemmeno la natura, ma Qualcuno che entra in relazione e instaura un’alleanza, cioè un rapporto che si può esprimere con una legge oppure con la mediazione della coscienza. Gesù ha ridotto i comandamenti a uno solo: l’amore, perché o la morale è un’etica dell’amore o è solo un’impostura e una schiavitù. In questo senso il comandamento non è solo una norma astratta, ma una «parola» rivolta ad un «tu» per stabilire un rapporto di reciprocità. In fondo, la morale ebraico-cristiana affonda le sue radici nel cuore stesso di Dio che diventa così la ragione prima e ultima di ogni scelta e di ogni azione.

Il vangelo riporta il passo della purificazione del tempio nella versione di Gv, che nella prima parte (Gv 2,13-17) è simile ai Sinottici (Mt 21,12-13; Mc 11.15-17; Lc 19,45-48), mentre la seconda (Gv 2,18-20) è propria del IV vangelo. Il gesto di Gesù in Gv ha un valore messianico (annuncia una svolta nella rivelazione e nella storia), a differenza dei Sinottici per i quali invece ha un valore profetico (segno di un atteggiamento spirituale e morale della fede che supera così il livello di religione). Nei Sinottici, infatti, Gesù cita il profeta Isaia (Is 56,7) che parla di zelo per la casa di Dio, mentre Gv non mette alcuna citazione in bocca a Gesù per sottolinearne l’autorità di Messia, che compie la profezia di Malachìa, il quale aveva preannunciato un Messia dal fuoco purificatore.

Il tempio di Gerusalemme era il cuore della vita quotidiana ed era governato dal Sinedrio composto da settanta membri sotto la guida del sommo sacerdote, la cui carica, al tempo di Gesù, era comprata all’asta tra coloro che ne avevano diritto, cioè i Sadducei; chi si aggiudicava la carica di sommo sacerdote, si dissanguava economicamente e, pertanto, trovava ogni mezzo per rifarsi. La carica durava un anno. Il sommo sacerdote e il suo casato avevano quindi poco tempo per rifarsi delle spese; per questo il porticato del tempio era trasformato in un mercato all’aperto che brulicava di ogni genere di mercanzia e di cambiavalute. Il tempio, centro della vita ebraica, era anche una «banca», dove i privati depositavano i loro capitali e tutti quelli che venivano da fuori cambiavano le monete straniere in shèkel, l’unica ammessa per pagare sia la tassa del tempio che ogni Giudeo aveva l’obbligo di versare dal compimento del 18° anno di età, sia le offerte liberali.

Gesù compie il gesto della «corda», che usa come un flagello per scacciare i mercanti dal tempio. È un gesto importante che deve essere compreso nella sua profondità. Il Talmud descrive il Messia che arriva portando in mano un flagello con cui avrebbe messo fine a ogni costume malvagio. I rabbini al tempo di Gesù aspettavano l’arrivo del Messia con timore e tremore. In ebraico il «flagello da corde» significa anche «dolore/travaglio» [del parto]», il gesto della cordicella può avere anche il significato di un gesto profetico: la venuta del Messia è accompagnata da sofferenze e dolori come i profeti avevano annunciato (Is 26,17; 66,8; Ger 22,23; Os 13,13; Mi 4,9-10). Con quel gesto Gesù dichiara apertamente che il Messia è in mezzo a loro e prende possesso della «sua casa di preghiera» e ciò comporterà sofferenza e dolore, come un parto: è la rinascita. Il significato, dunque, dell’espressione «flagello da/di sferze», intende esprimere il duplice messaggio che accompagna il Messia: da una parte la sua venuta è accompagnata dalle doglie del parto che provocano sofferenza e dall’altra il popolo subisce la sferza della purificazioneche deve condurre alla conversione. San Paolo parla espressamente del creato che geme nelle doglie in attesa della liberazione: «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Rm 8,22). Il tempo del Messia è tempo di scelta, come lo stesso Gesù aveva detto all’inizio del suo ministero: «Il tempo (kairòs) è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» che è il Cristo Gesù (Mc 1,15).

Nella seconda parte (Gv 2,17-20) vi è la discussione sul tempio. Scacciando i mercanti dal tempio, Gesù s’impossessa della «Dimora» di Dio e dichiara chiusa la funzione del tempio antico, perché adesso lo sostituisce un tempio nuovo che è il suo corpo, cioè la sua umanità. I Giudei vogliono un miracolo (Mt 12,38; 16,1; Lc 11,16; Gv 6,30; 10,32) che dimostri l’autorità con cui Gesù agisce in questo modo dirompente, ma egli risponde in modo strano in greco: «sciogliete questo tempio/corpo». Il verbo sciogliere non si usa per indicare la demolizione di una costruzione, mentre si usa nel significato di «abolire/sopprimere/ invalidare/annullare» e quindi ha senso se riferito al corpo (come qui), al sabato (Gv 5,18), a un passo della Toràh (Gv 10,35). Lo schema del «distruggere – ricostruire» è un paradigma caro al profeta Geremia (Ger 1,10; 18,7-10; 24,6; 42,10; 45,4), ma ora nel tempo di Gesù assume un valore definitivo. Parlando del tempio del suo corpo (Gv 2,21) Gv usa il termine «naòs» che corrisponde in ebraico al «debìr», la parte più sacra del tempio, cioè il «Sancta Sanctorum», là dove è custodita l’Arca e il Nome, ma qui indica l’intero tempio. In questo modo Gv afferma anche la natura divina di Gesù.

Nella terza parte (Gv 2,21-22) vi è la spiegazione cristiana di questo avvenimento: Il riferimento ai tre giorni prende un senso pasquale insospettato perché riporta alla morte e alla risurrezione di Gesù. Anche Gv 2,23 richiama la risurrezione perché ci dice che Gesù è a Gerusalemme per la Pasqua. Gesù non è soltanto un Messia che viene a distruggere e costruire, egli è il Figlio di Dio che porta il nuovo tempio del suo corpo, il segno della sua umanità, che diventa il nuovo giardino di Eden dove può di nuovo accedere l’umanità riscattata, il luogo del sacrificio perfetto (Eb 9-10) e sorgente di benedizione perenne (Gv 7,37). Il racconto della purificazione del tempio, del travaglio del Messia e del corpo/tempio, per Gv ha un senso ancora più profondo: egli afferma il carattere sacerdotale di Gesù, caratteristiche che i Sinottici non sfiorano nemmeno. No! Gesù non viene a purificare il sacerdozio antico o il tempio di pietra, egli viene a stravolgere l’esistente e il nuovo santuario è la sua persona nella quale ogni generazione può ristabilire la nuova alleanza eterna e definitiva perché il tempo del Messia è il tempo della relazione personale, dell’incontro delle coscienze.

Nota esegetica

Il gesto, e più ancora l’atteggiamento di Gesù, contro «i mercanti» pone per noi interrogativi importanti e decisivi. Per Giovanni il tempio non può essere «un mercato», mentre per i Sinottici, sulla scia del profeta Isaia, esso è «casa di preghiera». Le due sottolineature non sono in opposizione, ma integrate, perché eliminare «il mercato» significa riportare il tempio alla sua finalità originaria che la relazione personale con Dio. Gv, infatti, facendo citare dai discepoli «lo zelo della casa di Dio» di cui parla Isaia, afferma che Gesù «ardeva/fremeva nello spirito», mentre purificava «la casa del Padre suo». La parola «zēlos» che traduciamo con «zelo» indica un «fremito ardente/infuocato» (At 5,17; 13,45; Rm 10,2; 13,13). C’è quindi in Gesù una passione appassionata che si esprime in una avversione invincibile, quindi in una lotta decisiva.

Non abbiamo più bisogno di tempio di pietra perché ora possiamo entrare nel tempio dell’umanità di Dio, sempre e dovunque. È questo il motivo per cui i cristiani non hanno mai rivendicato spazi nell’area del tempio. L’Eucaristia è il sacramento di questo santuario/corpo perché in essa si compie il progetto di Dio che è il Lògos-fatto-carne-fragilità (Gv 1,18), visibile nella povertà del pane e del vino, alimenti vitali che vivificano l’immagine di Dio. Il corpo del Messia, Figlio di Dio nella vita di quanti lo ricevono per essere a loro volta tempio dello Spirito del risorto che cammina nella storia (1Cor 3,16-17), diventa per i credenti il tempio non più di pietra ma di carne, tempio dove il rito è espressione della vita e la vita è celebrata nel rito.

 

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