Mensa della Parola: Gn 3,1-5.10; Sal 25/24, 4bc-5ab; 6-7bc; 8-9; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20
Domenica abbiamo sperimentato la «chiamata» di due discepoli del Battista. La prospettiva del IV vangelo (Gv) vede la loro vocazione come prolungamento dell’incarnazione del Lògos di cui sono i testimoni accreditati: «Venite e vedrete. Andarono, dunque, e videro dove egli dimorava e quel giorno abitarono con lui; erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,39). Abbiamo anche spiegato il senso di questa indicazione di tempo così puntuale, ma anche originale nella metodologia del IV vangelo. Cercare… andare… vedere… abitare… fermarsi… sono verbi che formano il vocabolario del discepolo, del testimone e in primo luogo del testimone per eccellenza che è il Lògos, la chiave di senso della vita.
Nota esegetica
«Parola» deriva dal latino Verbum, dal greco Lògos, dall’ebraico Dabàr e dall’aramaico Memrhà. Essa è lo strumento eccellente, principe della comunicazione: per comunicare con noi, Dio si fa Memràh, Parola, Discorso, quasi a dire che personifica la comunicazione fino a identificarla con la persona di Gesù, il Lògos che viene a fare l’esegesi del Padre (Gv 1,18). La lingua ebraica ha un solo termine, Dabàr, per esprimere un doppio significato contemporaneo: Parola/Detto e Fatto/Avvenimento. La parola è impalpabile, il fatto è sperimentabile; la parola esprime il senso e la direzione, mentre il fatto, che definisce la «cosa» materiale, sperimenta quel senso e lo traduce in consistenza: non resta chiuso in sé, ma si lascia comunicare.
Gv in greco traduce con il vocabolo «lògos». Il Lògos giovanneo non ha più solo il senso della lingua ebraico/aramaica nella sua identità divina, ma assume anche il senso greco che comprende una certa dose di razionalità, per cui entra in un processo razionale intellegibile, pur restando misterioso. Per questo, tradurre «Lògos» con «Verbo/Parola» è riduttivo perché il suo ventaglio semantico si è molto ampliato per diventare anche «discorso/ragionamento/ motivazione/ragione» e, per estensione, «spiegazione/senso», con inevitabile riferimento alla filosofia, per sé, estranea alla Bibbia.
La Parola, per Gv e la sua scuola, è una Persona che stabilisce con noi una relazione d’amore e una comunicazione d’intimità che trasfonde vita. Dire che la «Parola/Verbo/Lògos carne fu fatta» (Gv 1,14) significa soltanto affermare il senso del «Dabàr» ebraico e della «Memràh» aramaica, cioè affermare, contro ogni spiritualismo, la vicinanza sperimentale di Dio. La storia grande e la storia di ciascuno di noi è il luogo di questa esperienza/incarnazione e nessuno più può dirsi estraneo alla relazione con Dio. È Dio che si fa prossimo e compagno di viaggio «dentro» l’esperienza umana. Non bisogna più uscire dall’umanità per tentare d’incontrare Dio, ma basta vivere la profondità di se stessi per avere la certezza di poter «toccare» non solo il lembo di Dio, ma la sua stessa identità. Nella Parola che diventa la nostra carne possiamo toccare, ascoltare e mangiare Dio stesso, come magistralmente afferma l’autore della prima lettera di Giovanni: 1 Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – 2 la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, 3 quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. 4 Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,1-4; Ez 3,1).
Come si tocca la Parola? O si mangia? Qui sta il vertice della rivelazione, ma anche la differenza che segna il Cristianesimo da ogni altra religione storica esistente, compreso l’Ebraismo e il Musulmanesimo, erronea mente definiti come le «tre religioni del libro»: sarebbe meglio dire «religioni rivelate». Tutte le religioni storicamente conosciute hanno come obiettivo la separazione della terra dal cielo, del mondo dal divino, della materia, considerata come «male», dallo spirito, considerato come «bene». Con il Lògos-carne questa separazione cessa, almeno come possibilità, e si apre il tempo dell’unità tra Dio e l’Umanità, come era nel giardino di Èden.
Oggi proseguiamo nella prospettiva vocazionale, ma dal punto di vista di Marco, che è il punto di partenza e una delle fonti degli altri due evangelisti, Matteo e Luca. Durante l’anno B, infatti, sarà l’evangelista Marco la guida liturgica, come Mt lo fu per l’anno A e Lc per l’anno C. Tutti e tre i Sinottici riportano la chiamata dei primi discepoli, ma ognuno con contenuti e prospettive diversi. Al tempo in cui scrive Mc, la divisione tra Giudei-giudei e Giudeo-cristiani è ormai cosa fatta. Nelle sinagoghe si commina la scomunica per i Giudeo-cristiani che riconoscono Gesù come Messia (Gv 9,22) e intanto la comunità cristiana si arricchisce sempre più di credenti provenienti dal mondo dei «pagani», in particolare dal mondo greco, per il ministero di Paolo.
Le comunità fuori della Palestina sono fiorenti e in espansione. La corrente farisaica, l’unica sopravvissuta alla distruzione del tempio, si chiude in se stessa a difesa della identità ebraica, ormai in serio pericolo, dopo la proibizione ai Giudei di dimorare in Gerusalemme (70 d.C.). Inizia una diaspora diversificata: per i cristiani diaspora di espansione, anche se con persecuzioni; per i Giudei diaspora di persecuzione sistematica perché diventano sempre più il capro espiatorio della storia che culminerà nell’orrido diabolico della Shoàh. Tra i cristiani si struttura la missione «ad Gentes». La liturgia oggi fa un quadro di tutto questo, ma in termini biblici.
Da una parte vi è Giona, figura narrativa di un autore del sec. V. a.C., che riflette su alcune idee del profeta Geremia, il quale poneva in evidenza l’accessibilità del mondo pagano allo stesso trattamento del popolo eletto. Nìnive, capitale di Babilonia, è condannata dal giudizio di Dio alla distruzione. Il profeta Giona va a portare questo messaggio di morte, certo che il castigo di Dio non avrebbe tardato a distruggere quei «senza Dio» dei Niniviti. Per Giona Dio è giusto e quindi deve distruggere i «pagani». Per sua disgrazia, però, si scontra con un evento imprevedibile e che la sua «religione» non aveva previsto: tutta la città fa penitenza e si converte. Questo «cambiamento» sconvolge la «teologia da manuale» del profeta, che reagisce accusando Dio di essere «troppo» giusto e quasi… di venir meno alla sua parola. Che Dio è un Dio che non distrugge i pagani?
Dall’altra vi sono i primi apostoli, chiamati a coppie di fratelli (Gv 1, 43-51), quasi a dire che Dio «pesca» là dove le relazioni umane sono profonde e autentiche. Egli non cerca solitari e individualisti, come sono per formazione e inclinazione la maggior parte del clero e la quasi totalità della gerarchia, ma persone «esperte di umanità» che sappiano camminare con i loro contemporanei, condividendo e sperimentando, senza presunzione di esclusività salvifica e valutazioni sapienti dei criteri delle scelte della vita.
L’apostolo Paolo nella 2a lettura ridimensiona lo statuto del matrimonio come valore assoluto secondo la cultura e il costume dell’AT; egli invita a cogliere la «novità» che ha accorciato il tempo: la risurrezione. Cristo risorto svuota il tempo della sua ossessiva ripetitività e ineluttabilità e lo riempie di «kairòi/occasioni/momenti propizi» (Mc 1,15), che bisogna cercare perché essi sono nascosti a chi si ferma alla superficie della vita. Introducendovi il tempo, la risurrezione allarga la dimensione dell’eternità, per cui anche i criteri di valutazione e di discernimento propri della storia che si svolge nel tempo devono essere nuovi e adeguati. Paolo propone il criterio del «come se non…»: vivere ogni cosa, scelta, fatto, accadimento, ecc. come se non… fosse definitivo e quello che sembra assoluto come se fosse relativo.
Da una parte vi è Giona che avanza verso i Niniviti, sicuro che la «giustizia di Dio» avrebbe operato la loro distruzione. Qui abbiamo un vero campione di uno che pretende di «possedere Dio» e di gestirne il destino secondo la propria logica. Giona crede veramente che Dio debba pensare come lui e per questo è sicuro del risultato di morte: chi non è come lui non può vivere, ma deve sicuramente morire e, se Dio è giusto, può solo distruggerli. Nella sua logica clericale e religiosa, non c’è posto per la pedagogia, per l’errore, per la crescita; tutto è meccanico, anche Dio. Purtroppo per lui, al contrario, proprio Giona sarà costretto a mettersi in discussione, convertendo fino a cambiarla la sua immagine di Dio per riscoprirla totalmente estranea al cliché che egli aveva e di cui era portatore, chiuso a qualsiasi eventuale novità.
Dall’altra parte vi sono anche uomini scelti appositamente per andare incontro agli altri uomini «affinché» producano consapevolmente questa «occasione di novità» (Mc 1,15: kairòs) per ribaltare il giudizio inevitabile; novità di fronte alla quale anche Dio sospende il proprio giudizio perché nel NT invia gli apostoli a suscitare la «metànoia/cambiamento-di-pensiero» (Mc 1,15), che è un radicale mutamento dei criteri di valutazione. La conversione non riguarda gli atteggiamenti o i comportamenti, ma il centro vitale e decisionale della persona, che la Bibbia chiama cuore, e noi, oggi, coscienza: il fulcro dove si forma la convinzione e determina i comportamenti. Convertirsi vuol dire modificare i criteri del pensiero per mettere in movimento un processo di relazione, descritto con l’altro termine che segue, sempre nello stesso versetto del vangelo: «credete nel vangelo», dove «Vangelo» è sinonimo della persona di Cristo Gesù (Mc 1,1). Convertirsi e credere sono i due momenti dello stesso dono che sperimentiamo nella vita: entrare in comunione con Dio, insieme a tutti i fratelli e le sorelle. Sia la conversione sia la fede non provengono dalla carne e dal sangue (Gv 1,13), ma dallo Spirito Santo che suscita in noi il desiderio di Dio e il modo di arrivarci.
Ne invochiamo la grazia e la dolcezza per poterne sperimentare la consolazione mentre ci accingiamo ad entrare nel santuario dell’Eucaristia, che è la vera scuola dove impariamo il metodo della conversione e il sentiero della fede invocando lo Spirito Santo.
Esame di coscienza
Gesù passa sempre lungo la spiaggia del mare della nostra esistenza, specialmente se siamo immersi nelle nostre occupazioni o nello svolgimento ordinario della nostra vita. Il suo passaggio non è mai casuale. Nell’ordine della creazione e della Provvidenza, nulla accade mai per caso. Egli viene apposta per «chiamarci». Ognuno di noi, nessuno escluso, ha una «propria» personale chiamata. Per capire saliamo il monte della Parola (Is 2,3; Mt 5,1-2), accoccolandoci ai piedi del Signore, perché ci spieghi le Scritture come ha fatto con i discepoli di Emmaus (Lc 24, 27.45). Facciamoci carico del desiderio del mondo e presentiamolo davanti alla Trinità di Dio. Noi non convertiamo alcuno, nemmeno noi stessi. La conversione e la fede scaturiscono dal cuore di Dio e solo chi cerca Dio con cuore sincero le intercetta. Per andare nel mondo a testimoniare con la vita la novità che il kairòs(evento/svolta) della morte e risurrezione di Gesù ha portato nella nostra esistenza, è necessario essere convertiti e credenti. Come il pubblicano in fondo al tempio (Lc 1e8,13) chiediamo sinceramente perdono per i nostri peccati, specialmente i peccati di omissione, e lasciamoci modellare dallo spirito del vangelo, come la creta nelle mani del vasaio (Ger 18,4-6), per essere fedeli alla vocazione cui siamo stati chiamati.
Signore, tu sei Dio giusto perché Padre di misericordia, ascolta e perdona. Kyrie, elèison!
Cristo, tu sei venuto a chiamare i peccatori perché in cielo non mancasse mai la festa. Christe, elèison!
Signore, tu attendi paziente e benigno il nostro ritorno alla tua materna paternità. Kyrie, elèison!
Cristo, tu con la tua croce ci hai insegnato il metodo di giudizio dell’amore gratuito. Christe, elèison!
Signore, tu mandi gli apostoli a pescare uomini vivi per il tuo regno di amore. Kyrie, elèison!
Cristo, hai lasciato il Padre per chiamare noi figli smarriti tra le acque del male. Christe, elèison!
Signore, tu perdoni sempre chi si converte e crede al vangelo da te predicato. Kyrie, elèison!
Dio Signore, che ha mandato Giona ad annunciare la conversione agli abitanti di Nìnive; che in san Paolo ci offre il criterio per vivere la provvisorietà della vita; che chiama gli apostoli a seguirlo perché possano essere garanti di ciò che egli «ha detto e fatto»; per i meriti della santa Chiesa che vive ovunque qualcuno risponde con filiale abbandono a Dio, per i meriti di Gesù Cristo, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
Giona è il tipico credente «medio» o mediocre che, avendo uno schema di Dio, pensa non possa esistere altro Dio se non quello della sua immaginazione: lui e quelli come lui che osservano le regole della religione sicuramente andranno in «paradiso», gli altri, tutti peccatori e indegni, miscredenti e atei, di sicuro andranno all’«inferno». Questo tipo di credente è esperto nell’insegnare a Dio il suo mestiere: gli dice chi deve assolvere, chi deve condannare, con chi deve stare e con chi non deve stare. Giona è l’emblema di quei credenti che hanno rovesciato le parole di Genesi 1,27: non è più Dio che crea Adamo a sua immagine e somiglianza, ora è Giona e chi come lui che creano Dio a propria immagine e somiglianza. Tutto ciò nasce da una religione del «possesso»: Dio è un prodotto del pensiero, oggi si direbbe «un valore» da custodire gelosamente, secondo criteri e valutazioni che si basano su un approccio di dominio. Dio vero è quello e solo quello che dico o annuncio io. È il principio del fondamentalismo religioso, senza distinzione di religioni. Questo Dio non può uscire dai confini che gli sono stati assegnati, non può mai agire fuori campo: è un Dio sempre sotto osservazione, un Dio a libertà vigilata, o meglio a schiavitù controllata.
Giona però non sa che il Dio dell’Esodo, dei patriarchi e dei profeti non può essere imbrigliato perché nessuno può possedere Dio e tanto meno prevederlo: Dio è sempre oltre. Oltre ciò che appare. Di fronte al pentimento repentino dei Niniviti, Dio «si pente» (Gn 3,10) del male che aveva minacciato di fare e accoglie la conversione, mutando la condanna di distruzione in accoglienza di amore e di perdono. Noi sappiamo come va a finire: Giona si arrabbia con Dio e lo accusa di non essere di parola, mentre Dio lo rende ridicolo con la storiella del ricino che fa ombra e poi si secca.
Qui l’autore attribuisce a Dio un sentimento cui lo aveva costretto Mosè, quando aveva deciso di distruggere Israele a causa del vitello d’oro e del tradimento. Allora Mosè, che poteva scegliere una via più facile e cominciare una nuova storia, forse più allettante, da grande profeta qual era si piazzò davanti a Dio e si oppose alla sua volontà distruttrice: lo obbligò a «convertirsi» alla parola di alleanza che aveva giurato di mantenere (Es 32,10-14). Mosè costringe Dio stesso a convertirsi tenendo fede alla sua alleanza, e Dio si piega davanti alla verità: «si pentì». A questo punto, Mosè può voltarsi e scendere dal monte, portando in mano il segno dell’alleanza. Qui troviamo il mistero della preghiera che non è recitare formule, fossero anche bibliche, ma intraprendere un serrato confronto con Dio per arrivare a una conclusione: obbligare Dio a essere se stesso, cioè fedele. È come prendere un amico per il bavero e immobilizzandolo al muro dirgli: da te non me lo sarei mai aspettato perché tu non puoi tradire e io non te lo permetterò. Persino Dio si converte, così ci dà l’esempio; per questa ragione è un Dio credibile che merita tutta la nostra fiducia. Credere è essere aperti e sempre attenti alle novità di Dio che rotolano sul nostro cammino, delle quali forse non ci rendiamo neppure conto, tanto siamo presi dall’idea di un Dio immaginario. «Convertirsi», per noi, significa essere capaci di purificare l’immagine o il pensiero che abbiamo di Dio, confrontandolo con il volto del Dio di Gesù Cristo come ce lo dipingono i vangeli.
Nel NT Gesù chiama alcuni uomini per andare espressamente in mezzo agli altri uomini e donne, grandi e piccoli, e invitarli alla «conversione». Essi hanno il compito di annunciare un supplemento di tempo per dare a noi l’occasione di decidere se convertirci o meno, se accettare la sfida o rintanarci nelle comode e calde pantofole della religione d’occasione. Gesù non viene ad annunciare una condanna, ma «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19) perché «Dio, infatti, non inviò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo fosse salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17): «affinché di tutto ciò che mi ha dato nulla vada perduto» (Gv 6,39). «Il tempo è compiuto» (Mc 1,15) nel senso che è finito il tempo di Giovanni, cioè il tempo dell’attesa e della preparazione, cioè è stato portato a maturazione per una svolta decisiva e definitiva. Il tempo ha raggiunto il suo «plèroma», cioè il massimo della sua espansione e del suo sviluppo, raggiungendo il vertice della propria maturità: non può non esplodere riversando nello spazio la novità che porta in grembo. Il tempo è compiuto non perché l’umanità è matura e perfetta, ma perché ha gli strumenti per leggere i segni e scegliere di conseguenza. Il tempo è maturo perché diventa un appello alla coscienza morale di ciascuno che assume la veste di testimone e di garante.
Gesù è rispettoso del ritmo di crescita di ciò che accade, tanto da non iniziare il suo ministero mentre opera Giovanni il Battezzante, bensì «dopo che Giovanni fu arrestato» (Mc 1,14). Quando pensiamo di essere indispensabili, quando siamo tentati di vivere come se il mondo intero dipendesse dalla necessità assoluta di noi, forse faremmo bene a pensare a Gesù, rimasto in attesa che Giovanni finisse il suo compito per sostituirlo non appena uscì di scena. «Convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Conversione, fede e vangelo qui sono sinonimi in stretta connessione. Se la conversione è una modificazione del criterio di pensiero, anzi un rovesciamento di valutazione, la fede è un’adesione a un progetto di esistenza il cui codice è il vangelo, cioè Gesù Cristo, che è il contenuto e messaggero di esso. In questo senso diciamo che il Vangelo è la Persona di Gesù Cristo. Credereperò non è un atto che si compie in modo definitivo, una volta per tutte, ma una fatica lenta e progressiva, legata al cammino di crescita della persona umana nella sua reale condizione esistenziale, spirituale, psicologica, sociale, economica, morale. La conversione non è un atto «unico» della vita, ma una serie di scelte che investono lo svolgimento dell’esistenza: esistenza come impariamo a viverla dopo aver incontrato il Vangelo vivente che è il Signore Gesù. Significa abituarsi al cambiamento come condizione di vita permanente. Solo chi si abitua al cambiamento si educa a essere costantemente aperto alle novità di Dio che, quasi sempre senza chiedercene il permesso, irrompono negli eventi che popolano la nostra vita.
La tradizione giudaica al tema della conversione dedica la solennità più importante dell’anno: la festa di Capodanno, che dura dieci giorni e sfocia nella solennità del grande giorno dell’espiazione o Yom Kippur.
Come nel vangelo di domenica scorsa (Gv 1, 35-42), anche oggi Mc ci fa assistere alla chiamata delle stesse coppie di fratelli, segno che il fatto è unico, ma l’interpretazione è diversa, secondo la prospettiva e la teologia che ognuno vuole comunicare. Nella didascalia al vangelo abbiamo appena ascoltato che la Toràh imponeva la presenza di due o tre testimoni per la validità giuridica di atti e parole (Dt 17,6; 19,15; 2Cor 13,1; 1Ti 5,19). Lo scopo per cui gli evangelisti pongono la chiamata degli apostoli/inviati/pescatori all’inizio dell’attività è in funzione della validità giuridica della predicazione del Signore. Essi devono testimoniare davanti al mondo quello che Gesù «fece e insegnò» (At 1,1) e devono garantire con la propria vita. Questo è il loro compito quando saranno portati davanti ai tribunali e davanti ai re, «Avrete allora occasione di dare testimonianza» (Lc 12,21-12-19, qui v. 13). È anche il nostro compito e la nostra gloria ed è l’unica ragione per cui frequentiamo l’Eucaristia: per imparare ad essere degni di testimoniare che «Gesù è il Signore» (Rm 10,9).
Celebrare l’Eucaristia significa «ritornare» sempre alla fonte della teshuvàh/conversione che non è frutto della volontà umana, ma opera delle mani di Dio. È proprio qui l’abbondanza della Parola e del cibo con cui veniamo sommersi dalla misericordia divina, affinché la nostra conversione ogni domenica faccia un passo avanti e si rafforzi nel lento e costante cammino dell’abituarsi a cambiare.
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