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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 4ª DI PASQUA

Mensa della Parola: At 4,8-12; Sal 118/117, 1.8-9; 21-23; 26.28-29; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18

 

La 4a domenica dopo Pasqua è comunemente conosciuta come la domenica del «Buon Pastore» perché vi domina questa figura descritta da Gv nel capitolo 10 del suo vangelo e che la liturgia suddivide nei tre anni liturgici. Il testo greco parla di «Il pastore, quello bello», mentre le traduzioni parlano di «Buon pastore», ponendone l’accento così sulle qualità morali. L’espressione «Il pastore bello», invece, evidenzia un aspetto particolare, quello «estatico» e non solo estetico, che rileva l’attitudine del pastore alla comunicazione, da cui nasce la comprensione e il dialogo. Il pastore non è solo «buono» perché comprensivo (aspetto morale), ma è «bello» perché si lascia «vedere». La conoscenza è «visione estetica» da contemplare e la contemplazione è relazione di attrazione.

La bellezza attrae prima ancora di coinvolgere: prima di qualsiasi parola, c’è la visione perché vedere precede il parlare, come sperimentiamo quotidianamente nella nostra vita: quando incontriamo una persona, prima ancora di esprimere con la parola il saluto di circostanza, noi «vediamo quella persona» e sperimentiamo un sentimento di attrazione o di rifiuto, di disponibilità o di difesa. La prima «parola» che pronunciamo nella nostra esperienza umana è «la vista» che appartiene al linguaggio non verbale.

In questo senso «buono» e «bello» sono sinonimi, ma non con significati identici perché la bontà nasce dalla volontà di adeguarsi, o, come dice San Tommaso, di «acquietarsi» in Dio sommo Bene, sommo Vero, sommo Uno, somma Esistenza. «Il pastore bello» è una dimensione dell’incarnazione del Lògos perché Dio si fa vedere «in mezzo» all’umanità e, provvisoriamente, nasconde la sua bellezza attraente nel volto umano dove noi dobbiamo cercarla, scoprirla, trovarla e ammirarla. Ogni celebrazione, specialmente l’Eucaristia, dove noi possiamo «vedere» la Parola che si fa Pane e Vino, è evento estetico perché deve esprimere l’armonia che unisce la singolare unità dell’umano e del divino che coesistono nella fragilità della visione partecipata e condivisa.

Gesù si presenta con una formula forte di identità, che evoca sempre la maestà di Dio che si rivela sul Sinai a Mosè (Es 3,6): «Io-Sono» (ebr. ’anokì; gr. egō eimì). Usando questa formula «sacra», Gesù si pone sullo stesso piano del Dio della «rivelazione» del Sinai, assimilandosi così alla figura di «Dio-Pastore d’Israele» (Sal 80/79,2). Non è un profeta come Mosè o semplicemente il Messia, egli è il Dio dell’esodo che ora propone una «nuova alleanza» (Ger 31,31; Lc 22,20; 1Cor 11,25; 2Cor 3,6; Eb 8,8.13; 9,15; 12,24). L’espressione di auto-rivelazione «Io-Sono» (egô eimì) nel IV vangelo ricorre 10x in forma assoluta più altre 16x con immagini diverse, per un totale di 26x. Noi sappiamo che nella scienza ebraica dei numeri (ghematrìa) il numero 26 è il valore numerico del Nome Yahwèh. L’autore del vangelo è ebreo e vuole darci una conclusione semplice: Gesù con l’espressione «Io-Sono» s’identifica con il Dio della rivelazione ebraica che è anche il motivo per cui deve morire: «Si è fatto figlio di Dio» (Gv 19,7).

Nota esegetica esplicativa

Una conferma ulteriore dell’interpretazione che Gesù è presentato come Yahwèh, si ha in Gv 18,5-6, nel giardino del Getsemani, quando i soldati del tempio insieme alla coorte vanno per arrestare Gesù. Gesù va loro incontro e chiede: «Chi cercate?». Le guardie del tempio, guidate da Giuda, rispondono «Gesù Nazareno!». Gesù non esita e si auto-presenta: «Io-Sono». L’evangelista annota che «appena disse “Io-Sono”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6), come Davide davanti alla visione dell’angelo del Signore (1Cr 21,16), come i discepoli davanti a Gesù trasfigurato (Mt 17,6), come Tòbi e Tobia davanti all’arcangelo Raffaele (Tb 12,16), come Giuda e i suoi fratelli davanti al tempio distrutto (1Mac 4,40) o come si cade in ginocchio con la faccia a terra davanti al Nome o al Volto di Yahwèh per non morire (Es 3,6; 33,20; Dt 18,16; 1Re 19,13).

«Il pastore bello» viene a spezzare l’impossibilità di «vedere Dio» perché lo rende accessibile, visibile e sperimentabile. Ne sono testimoni i Greci che chiedono a Filippo «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Non chiedono di vedere Yahwèh, ma Gesù che essi desiderano come si desidera Dio. È questo il senso dello squarciamento del velo del tempio «da cima a fondo» (Mc 15,38) che proteggeva Dio e il sommo sacerdote officiante dalla vista del popolo d’Israele: nel tempo dell’alleanza nuova, è abrogata ogni mediazione e Dio è visibile direttamente da Ebrei e Greci, senza differenza alcuna. «Il pastore bello» strappa «il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni» (Is 25,7) per manifestare il volto di Dio nella visione del Figlio: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45). La vera identità della personalità di Gesù non appare a prima vista, ma occorre una certa consuetudine con lui per imparare a conoscerlo e condividerne i pensieri: la logica delle scelte non è mai improntata al tornaconto personale, ma queste sono sempre proiettate fuori di sé verso gli altri. Non si tratta di buonismo morale, ma di dimensione «politica», la sola che può radicare la natura della Democrazia che è principio di libertà e motore di Giustizia: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».

Gesù si auto-«manifesta» come porta, cioè come ingresso, apertura ambivalente a doppio senso, per entrare, ma anche per uscire: «Io-Sono la porta delle pecore» (Gv 10,7) e come pastore (Gv 10,11) anzi, secondo il testo greco, come pastore bello: «Io-Sono il pastore bello». Con gli stessi sentimenti di Mosè quando incontra per la prima volta il Dio dei suoi Padri che gli si rivela come «Io-Sono», togliamoci idealmente i calzari dai piedi della nostra superficialità e adoriamo la divina Dimora che nei poveri segni della Parola, del Pane, del Vino e della Fraternità oggi manifesta a noi la «gloria» del suo Nome.

Esame di coscienza

Gesù è il nostro pastore, il Bel Pastore che ci conosce uno ad uno e chiama per nome per rivolgere a ciascuno un invito particolare. Ad ognuno chiede di collaborare in modo unico ed irripetibile alla realizzazione del progetto di Dio. Chiediamoci se siamo disposti a seguirlo, a lasciarci condurre da lui. Se siamo pronti a perdere la vita per lui. Preghiamo perché tutti noi e ciascuno di noi sappia, con l’aiuto dello Spirito, corrispondere alla propria vocazione con onestà e consapevolezza. Gesù ha donato la sua vita per noi, ma spesso ci smarriamo dietro false guide che deteriorano e deformano il nostro cammino. Sono maestri e strade che non conducono al Signore e al suo ovile, ma ai pascoli del sopruso e dell’egoismo. Sono sentieri che non portano alla gioia del cuore. Chiediamo perdono al Signore della nostra mancanza di amore e della nostra poca fede.

Signore, tu sei il Pastore bello e ti prendi cura del tuo popolo. Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei il riposo dei tuoi figli e delle tue figlie sparsi nel mondo. Christe, elèison!

Signore, tu sei il nuovo Tempio, l’ovile del raduno universale. Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei il Messia di Davide e offri la tua vita per noi. Christe, elèison!

Dio, nostro Padre che ti manifesti a noi nel volto del Signore Gesù che si presenta come con il tuo Nome dell’alleanza, «Io-Sono», liberaci da ogni forma di schiavitù perché possiamo accogliere lo spirito della libertà per costruire un mondo a misura del tuo e del nostro regno. Amen.

Spunti per la riflessione e la preghiera

Gesù ha appena messo in dubbio l’autorità dei farisei (Gv 9,40-41) e ora Gv ne porta la prova con la parabola del pastore bello il quale, al contrario di essi, esercita la propria autorità basandosi su tre criteri:

a. Dare la «sua» vita per le pecore e non nutrirsi della vita delle pecore come fanno i falsi pastori (Ez 34,3.22).

b. Vivere in intima unione con le pecore conoscendole una per una invece che non fare i loro interessi, abbandonandole alla deriva di se stesse o di pericoli esterni (Mt 23,4; Lc 11,46; Sal 23/22,1-5).

c. Preoccuparsi della loro unità (tema dell’ovile) radunando anche quelle smarrite ed erranti (Lc 15,4-5).

In sintesi: vivere, conoscere, unire. Non è altro che il progetto di una vita piena e realizzata che deve essere applicato a noi stessi, prima di pretendere di offrirlo ad altri. Ognuno di noi può essere pastore di sé stesso quando dà alla propria esistenza la dimensione della conoscenza, intesa come esperienza profonda di ciò che si è e di ciò che si sperimenta, realizzando l’unità di sé stessi in tutte le dimensioni del vivere in relazione. In altri termini, tutto ciò è possibile, quando noi viviamo non in modo improvvisato, ma progettato, ponendoci in un atteggiamento di ecumenismo esistenziale: unità tra ciò che si pensa e ciò che si fa, tra ciò che si fa e ciò che si prega, tra ciò che si prega e ciò che si spera, tra ciò che si spera e ciò che si vive. Non possiamo evangelizzare, senza prima evangelizzarci. Corriamo il rischio di subire la vita, non di viverla, di essere banali e non protagonisti. Il capitolo 10 di Gv si divide in tre parti tematico-letterarie, molto precise:

1) Gv 10,1-6: esposizione della parabola della porta e del pastore in opposizione all’impostore, al cattivo pastore;

2) Gv 10,7-21: sviluppo del tema della «porta» e del «pastore bello» (anno B: Gv 10,11-18), diviso, a sua volta, in tre sotto-unità: Gv 10,7-10: ripresa del tema della porta (vv.1.2) e opposizione tra Gesù e quelli che lo hanno preceduto;

Gv 10,11-13: opposizione tra il «pastore bello» e il mercenario.

Gv 10,14-21: presentazione del «pastore bello», della sua opera di unità e della sua relazione con il Padre.

3) Gv 10,22-30: interrogativo sulla personalità di Gesù e sviluppo del tema della fede delle pecore75.

Il vangelo odierno riporta solo Gv 10,11-18, un misto tra la seconda e la terza parte della sotto-unità. Il testo, a sua volta, può essere suddiviso in due piccole strutture, ciascuna con una propria caratteristica:

Gv 10,11-14 ha un andamento concentrico o circolare (al 1° elemento corrisponde l’ultimo, al 2° il penultimo, al 3° il terzultimo, ecc.: qui secondo lo schema A-A’; B-B’ e C-C’).

A  Gv 10,11: Io-Sono il pastore bello. Il bel pastore dà la propria vita per le pecore,

     B  Gv 10,12: il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – ,

         C  vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge,

         C’  e il lupo le rapisce e le disperde;

     B’  Gv 10,13: perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

A’  Gv 10,14: Io-Sono il bel pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.

In questa unità l’espressione «pastore bello» è ripetuta tre volte e riprende un tema biblico conosciuto, perché Dio stesso è il «pastore» d’Israele (Sal 23/22,1; 80/79,2; Is 40,11; Ger 31,9); il titolo di «pastore» è riservato anche ai capi del popolo, specialmente a due grandi figure dell’AT: Mosè (Is 63,11) e Dàvide (Mi 5,3). Alla figura del pastore premuroso si opponel’immagine del mercenario che usa le pecore per spremerle, in altre parole l’obiettivo di ogni potere che non ha come dimensione la ricerca del «bene comune» (Ez 34 e Zc 11,4-9), ma solo lo sfruttamento per un profitto personale o di categoria.

Gv 10,11 si può tradurre con «Il pastore bello dà [offre] la vita in favore/al posto [della vita] delle pecore»; L’espressione «dà/offre la vita in favore/al posto [della vita] delle pecore» in 3a persona ritorna altre due volte subito dopo, in Gv 10,15.17, formulata però in 1a persona singolare: «Io do/offro la vita…». L’evangelista usa un’espressione che nel IV vangelo indica la morte di Gesù (Gv 15,17; Gv 13,37). La fonte di questa espressione si trova in Is 53,10 dove il Servo di Yahwèh offre in espiazione la sua vita: 3x si ha «pastore bello» e 3x egli «dà/offre la vita». Che la bellezza stia nel donare? Gesù stesso, in un suo detto riportato solo dagli Atti degli Apostoli, sembra insegnarlo: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35); la bellezza diventa beatitudine che è la premessa della contemplazione di Dio. Noi possiamo concludere che la vera bellezza/beatitudine sta nel donarsi, che è l’atto proprio dell’amore: chi ama si offre, non pretende né usa né prevarica: «offrirsi» è un dono senza interessi o contropartita: dono a perdere.

In Gv 10,12 si introduce il tema della «dispersione» delle pecore, un tema caro al profeta Zaccaria (Zc 13,7-8) e che Gv riprenderà di nuovo nel discorso di addio (Gv 16,32). Il profeta Zaccaria descrive la dispersione delle pecore come conseguenza della morte violenta del pastore; si salverà solo un terzo del gregge che una volta purificato diventerà il popolo di Dio del tempo escatologico. Quando ci viene a mancare il punto di riferimento e perdiamo la connessione con il principio di stabilità, ci sperimentiamo dispersi, smarriti, vaganti. In Gv 10,14 si descrive un’altra caratteristica del pastore: la duplice conoscenza. Egli conosce le pecore personalmente e questa conoscenza è un prolungamento di quella che egli ha del Padre: noi conosciamo profondamente gli altri nella misura in cui conosciamo Dio che custodisce il segreto dell’altro e lo dona a noi come prolungamento di noi stessi.

Gv 10,15-16 e 17-18 sono paralleli tra loro:

Gv  10,15    A  «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre,

                        B  e do la mia vita per le pecore.

Gv 10,16              B1  E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Gv 10,17     A’  Per questo il Padre mi ama:

                        B’  perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.

Gv 10,18              B1’  Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Nello schema precedente abbiamo una corrispondenza: il tema del Padre e quello della conoscenza/amore («a-a’») e il tema della vita data («b-b’»). Lo schema si prolunga nell’estensione («b1 e b1’») del tema delle altre pecore (b1) e quello della vita ripresa come adesione alla volontà di Dio (b1’). Si hanno così quattro elementi ben delineati: il Padre, la conoscenza che diventa amore, la vita donata per amore come obbedienza al comandamento del Padre (volontà di Dio).

A questi temi bisogna aggiungere quello della missione universale a tutte le nazioni che fa da sfondo al v. 16b1: «diventeranno un solo gregge, un solo pastore». Con queste parole Gv attribuisce a Gesù la missione del Servo di Yahwèh (Is 42,1.6-7; Is 43,8) inviato a radunare le nazioni disperse dopo il peccato di Adamo. Si afferma qui la natura universale del regno di Dio che per statuto è chiamato ad includere, mai ad escludere.

Possiamo delineare l’orizzonte in cui si muove Gv: tutto il capitolo 10 del IV vangelo è una guida alla scoperta della personalità di Gesù: ancora una volta l’autore vuole rispondere alla domanda che percorre ogni pagina del suo vangelo: «Chi è Gesù?». Termini come recinto, porta, ladro, ovile, pastore, pecore sono una metafora che ci parlano di Dio e svelano noi a noi stessi per essere in grado di accogliere la rivelazione di Gesù che usa il linguaggio suggerito dalle immagini di vita comune del suo popolo, popolo prevalentemente di pastori e comunque gente semplice che capisce al volo i simboli della vita che vive. Per capire profondamente però le intenzioni dell’autore del vangelo, è necessario fare un passo indietro e interrogare la letteratura giudaica che formava la cultura e nutriva il pensiero dei contemporanei di Gesù. Ancora una volta, il futuro è sempre dietro di noi.

Non possiamo capire Gv 10 se non rileggiamo il profeta Geremìa 23 che aveva inveito contro i pastori mercenari e contro i falsi profeti e i sacerdoti che si approfittavano del popolo, venendo meno ai loro doveri. Ad essi il profeta della tenerezza aveva contrapposto Dio stesso che sarebbe venuto personalmente a fare il pastore del suo popolo, facendosi aiutare anche dal Messia.

Il Targùm (= traduzione della Bibbia ebraica in Aramaico) che veniva proclamato in sinagoga commenta questo brano identificando gregge con popolo, e pastori con capi. Inoltre il Targùm alla parola «germoglio» davidico del v. 5 dà un’interpretazione messianica così come attribuisce il raduno del popolo nell’unità all’iniziativa di Dio. Solo Dio è il fondamento dell’unità. La stessa tecnica avviene per Ez 34 che sviluppa il tema dell’opposizione tra Dio-pastore/cattivi-pastori. Gv 10 riprende Ez 34.

Riportiamo il testo di Ezechiele 34 e immediatamente dopo il testo del Targùm come veniva proclamato in sinagoga dopo la lettera del profeta:

Ez 34,23       Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore.

Targùm         Susciterò per loro un capo che le pascerà, Davide, mio servo, le pascerà e sarà loro capo

Ez 34,24       Io, il Signore, sarò il loro Dio, e il mio servo Davide sarà principe/capo/condottiero;

Targùm         Io, il Signore, sarò loro Dio e il mio servo Davide sarà re in mezzo a loro: Io, Yahwèh, l’ho deciso per la mia Parola

Ez 34,26       Farò di loro e delle regioni attorno al mio colle/monte) una benedizione: manderò la pioggia a tempo opportuno e sarà pioggia di benedizione.

Targùm         Io li stabilirò attorno al mio Tempio e saranno benedetti e io manderò loro la pioggia di primavera a suo tempo. Saranno piogge di benedizione.

Ez 34, 31      Voi, mie pecore, siete il gregge del mio pascolo e io sono il vostro Dio. Oracolo del Signore Dio.

Targùm         Voi, mio popolo, siete il popolo sul quale il mio Nome è stato invocato, siete la casa d’Israele e io sono il vostro Dio. Oracolo del Signore.

Il Targùm di Ez 34,26 traduce colle con tempio che diventerà così il nuovo ovile del raduno universale, mentre Ez 34,31 il gregge è identificato nel popolo, nella casa d’Israele che instaura un rapporto sponsale con Dio nella santità del Nome (voi mio popolo, io vostro Dio). In Ez 34,24 il nuovo capo di questo popolo universale sarà un re messianico e si dà la ragione di tutto questo: è una decisione di Dio basata sulla Parola, cioè su Dio stesso. Al tempo di Gesù il termine «Memrà/Parola» era uno dei nomi con cui si chiamava Dio al posto di «Yahwèh». È interessante notare l’equiparazione che fa il Targùm tra «colle» e «tempio» che diventa così l’ovile di tutte le nazioni che gravitano attorno ad esso. Ancora una volta il tema dell’universalità esposto in Is 2,1-5 continua anche nel tempo dell’esilio a Babilonia (Ezechiele) ed è ancora vivissimo al tempo di Gesù.

L’ecumenismo e l’unità non sono scelte di tempo storico particolare, ma esprimono un’esigenza permanente del progetto di Dio e della sua alleanza perché l’unità non è mai scontata, dovendosi sempre coniugare con la diversità e il pluralismo. L’unità nasce dal cuore di Dio che è Uno nella molteplicità della Trinità, l’uniformità si accontenta di vestire tutti allo stesso modo pur di avere una parvenza di unanimità, anche senza adesione del cuore. L’unità nasce dalla libertà e rispetta la diversità; l’uniformità è figlia del potere e non tollera alcuna forma di diversità. Per questo unità ed ecumenismo non possono essere strumentali o scelte pastorali, ma la conseguenza logica di un’autentica conversione del cuore a Dio che ne ha in se stesso la ragione profonda. L’Ap (sec. I d.C.) sostituisce la Gerusalemme distrutta con una nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da Dio (Ap 21,2). Il Salmista proclama: «È questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti» (Sal 118/117,20). L’invito del profeta «Spalanca, o Libano, le tue porte» (Zc 11,1), dopo la distruzione del tempio, dai rabbini di Yàbne (leggi Yàvne) era applicato al tempio come aspirazione alla nuova ricostruzione nel tempo del Messia. Alla fine del sec. I, quando viene redatto il IV Vangelo, Gv s’inserisce in questa tradizione interpretativa pluralista e applica sia il tema del pastore che quello del tempio al corpo di Gesù, cioè alla sua umanità (Gv 2,18-22).

Tutti questi riferimenti potrebbero apparire astrusi a molti e sarebbe lecito domandarsi: che cosa vuol dire tutto questo per noi? In altre parole, se Cristo è la porta attraverso cui si entra, se la sua umanità è il nuovo tempio della «nuova alleanza»preannunciata da Ger 31,31 che raduna ogni dispersione, se egli è il pastore bello che si contrappone al pastore falso e ladro che vogliono solo il potere, quale applicazione possiamo fare per noi, nei giorni della nostra quotidianità? Gesù può dire «Io-Sono», cioè è consapevole della sua coscienza e della sua identità; egli percepisce perfettamente la sua personalità e sa distinguersi dal «mercenario»: egli sa «chi è» e sa anche «chi non è». In altre parole egli ha una consapevolezza armonica di sé che si fonda su una relazione affettiva solida e piena, che è la relazione d’amore col Padre: «il Padre mi ama» (Gv 10,17). Nello stesso tempo non mistifica la realtà, fatta di divisioni e tensioni, di corruzione (dei pastori/mercenari) e di morte (necessità di dare la vita). Sapere di essere amati è il segreto della propria identità e della strutturazione della propria personalità: l’àncora che permette di affrontare le difficoltà, le contrarietà, le opposizioni, le fratture, le divisioni e la morte. L’amore è una tensione tra ciò che riusciamo a sperimentare e ciò che desideriamo come realizzazione; esso è la distanza tra il nostro limite e il bisogno d’infinitezza: «ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2).

Abbiamo bisogno di un recinto, di una guida, di una mèta sicura e degli altri che non sono dell’ovile dove siamo noi. Può essere il bisogno di protezione o di sicurezza, che identifichiamo in una persona o in cose che ci riempiono la vita, ma forse non il cuore. Questo bisogno può nascere dall’esperienza del fallimento della paternità/maternità o semplicemente dal fallimento di una relazione di coppia, in un tradimento. Tutti abbiamo bisogno di un ovile di sicurezza, di un riparo, di una sosta, di un rifugio anche temporaneo, dove incontrare un pastore che ci parli della «bellezza» come dimensione della vita e come recupero della bruttezza sperimentata. Il «pastore bello» c’insegna a prenderci cura di noi stessi perché potremmo essere i pastori di altri, ai quali non possiamo offrire lo scarto, ma il meglio della «bellezza» che è in noi. La prima cura e il primo dovere che abbiamo nei confronti degli altri (mariti, mogli, figli, amanti, ecc. ecc.) è essere pastori di noi stessi, consapevoli e non per disperazione. Allo stesso modo, noi abbiamo bisogno degli altri che possono non appartenere al nostro ovile: in questo caso è facile trasformare il bisogno di sicurezza in ostilità verso l’altro e modificare l’ovile da luogo di protezione in recinto di esclusione, secondo il principio che «noi abbiamo la verità, gli altri no».

Alla duplice espressione «Io-Sono il pastore bello» corrisponde il dono della vita ripetuta sei volte: la bellezza si compie e si moltiplica triplicandosi nel «dono». Nessuno può presumere di esercitare un’autorità se non c’è anche il servizio del dono di sé fino alla morte. Il Padre conosce il Figlio e lo ama. Conoscere è amare. In ebraico è il verbo yadàh significa «conoscere» e indica allo stesso tempo l’atto sessuale che così è definito come la conoscenza più profonda che l’esperienza umana possa sperimentare. Conoscere è sperimentarsi, cioè viversi in uno scambio di vita «offerta», donata senza chiedere in cambio null’altro se non la possibilità di riprenderla ancora più ricca e ridonarla ancora in un vortice senza fine.

L’orizzonte di vita del credente che vive nell’ovile/tempio/umanità di Gesù è sempre fuori del recinto: il mondo attende la Parola, il mondo è in attesa della «bellezza». Come possiamo limitarci a rinchiuderci negli angusti confini del nostro giardino? Non siamo noi per noi, ma figlie e figli dello Spirito per andare alla ricerca dei germi di risurrezione che il Creatore ha disseminato in tutta l’umanità. Esistiamo per essere gli operai dell’unità del genere umano, i servi dell’accoglienza, i ministri della fraternità: ho altre pecore.

In un tempo in cui gli ovili delle etnìe e dei nazionalismi sono attraversati dall’esodo delle migrazioni, il grande «segno dei tempi» del secolo XXI, è importante e decisivo non solo stare sulla «porta», ma avere la coscienza di essere «porta» che ha sempre doppia funzione: entrare/uscire. Perché è toccato a noi vivere questo passaggio epocale? Come cristiani abbiamo nulla da dire? Da essere? Da fare? Non possiamo essere «cattolici» di nome o come dice Papa Francesco «da salotto». Mandati a essere «sale della terra» (Mt 5,13), siamo diventati, e ci accontentiamo, erba rinsecchita da falò: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16).

Dovremmo saltare di gioia per aver ricevuto il dono di vivere nel cuore della storia che realizza il sogno di Isaia e percorre il sentiero da lui descritto, come pure dovremmo essere straripanti gioia per essere chiamati a testimoniare l’universalità della fede. Dal secolo VIII a.C. ne avremmo dovuto fare di strada su questa via, a che punto siamo? Noi dovremmo essere gli «esperti» del Dio che si spezza e frantuma per essere mangiato da tutti e incarnato in tutte le culture. Non siamo chiunque, ciascuno di noi è un Nome, cioè qualcuno/a che è in relazione vitale con qualcun altro. È il mistero dell’Eucaristia: ascoltiamo la Parola, diventiamo Pane. L’ascolto non è un semplice «sentire» e il diventare non è un semplice «movimento»: l’ascolto è già trasformazione perché attraverso gli orecchi noi diventiamo ciò che ascoltiamo così come noi diventiamo il Pane che mangiamo.

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