Mensa della Parola: 2Cr 36,14-16.19-23; Sal 137/136,1-2.3.4-5.6; Ef 2,4-10; Gv 2,23-3,21
[Liturgia: 3,14-21]
La 4a domenica di Quaresima è una sosta nel lungo cammino verso la Pasqua, caratterizzato dal digiuno di quaranta giorni. Oggi, il digiuno è ridotto a un gesto simbolico, ma in origine esso era rigido e molto impegnativo, specialmente per coloro, ed erano la maggioranza, che lavoravano i campi. La Chiesa, maternamente preoccupata, in questa domenica faceva una pausa, interrompendo il digiuno per un giorno, obbligando quindi prìncipi, castellani, proprietari terrieri a fare mangiare bene, carne compresa, i propri dipendenti, servi o gleba. Per riflettere questo spirito festoso, la liturgia ha un andamento gioioso, fin dall’antifona di ingresso, tratta dal profeta Isaia: «Rallègrati con Gerusalemme, e voi tutti che l’amate radunatevi. Sfavillate di gioia con essa, voi che eravate nel lutto. Così gioirete e vi sazierete al seno delle sue consolazioni» (Is 66,10-11). È un invito così insistente all’esultanza e alla gioia che la stessa domenica ha preso il nome dalle prime parole dell’antifona in latino: «Dominica Lætáre», quelle che l’angelo Gabriele rivolge a Maria, quando le annuncia che è finito il digiuno dell’attesa e lei è stata scelta come la donna che avrebbe aperto definitivamente la porta della nuova alleanza (Lc 1,26-38, qui v. 28). Il motivo della sospensione del digiuno si somma anche alla gioia di essere ormai vicini alla Pasqua. Durante la Quaresima si facevano pure gli scrutini per l’ammissione dei catecumeni al battesimo durante la Veglia di Pasqua, per cui l’interruzione del digiuno era anche pedagogico perché incitava i candidati a proseguire con maggiore entusiasmo nel loro cammino di formazione.
La liturgia di oggi nella 1a lettura riporta la conclusione del secondo libro delle Cronache (sec. V a.C.) il cui autore anonimo medita sulla più grande sciagura che potesse capitare al popolo di Dio e che nessun israelita avrebbe mai potuto immaginare. Nel 587 a.C. il re di Babilonia Nabucodònosor (634-562 a.C.) assediò e distrusse Gerusalemme, incendiandone il tempio e deportando in regime di schiavitù la parte della popolazione più utile ai lavori pesanti. In Palestina lasciò soltanto vecchi e donne anziane a vivere di stenti e di miseria. Il tempio di Dio fu saccheggiato, i calici e gli utensìli sacri razziati come bottino di guerra per usi profani, i libri santi bruciati: che fosse l’annuncio della fine del mondo? Attonita e incredula, sorse la domanda: come è potuto accadere? L’autore vuole convincere i suoi connazionali che questa sciagura è la conseguenza della non osservanza dello Shabàt e della Toràh. Israele si è allontanato da Dio, respingendolo lontano dalla sua vita, dalla sua etica e dalla sua speranza. L’esilio è lo stato di chi, come Adamo, vuole realizzarsi da solo. Israele è un vero figlio di Adamo ed Eva. Se i progenitori furono scacciati ed esclusi dal giardino di Èden, ora anche l’erede, Israele, è escluso dalla terra promessa e scacciato nel deserto dell’esilio, nella terra di divinità pagane. Per l’autore c’è una stretta e diretta relazione tra la fedeltà a Dio nell’osservanza dell’alleanza e lo svolgimento della vita, attraverso i suoi avvenimenti che ne determinano la storia. Veramente l’umanità è responsabile del proprio destino. Ogni fatto, ogni accadimento non è solo frutto di una circostanza esteriore, ma anche dell’atteggiamento interiore di ciascuno. Noi siamo ciò che crediamo e moriamo come viviamo.
Il Sal 137/136 è il salmo, forse, più struggente di tutto il salterio biblico. Esso fa vedere plasticamente la desolazione dell’esilio che è il luogo della non gioia, delle chitarre appese ai muti salici piangenti: come si possono cantare gli inni del Signore lontani da Gerusalemme? Gli Ebrei recitano il salmo dopo avere pronunciato la benedizione di ringraziamento alla fine del pranzo per ricordarsi che anche con lo stomaco pieno non bisogna mai dimenticare la distruzione del tempio e la lontananza da Gerusalemme.
La 2a lettura è un brano della lettera di Paolo agli Efesini: è, forse, il brano tra i più pessimistici di tutto il NT. La condizione umana porta con sé morte e debolezza. Si sente l’influsso dello stoicismo. Le influenze demoniache gravano sulle scelte dell’umanità che è sottomessa agli spiriti che vagano nell’aria. L’uomo da solo non è in grado di risollevarsi, se non si affida alla potenza di Dio. Paolo descrive il nuovo esilio, quello morale che nasce, cresce e si sviluppa sull’umanità abbandonata a se stessa, perché crede di emanciparsi da Dio, mentre si avvita su se stessa, smarrendosi nella propria umanità senza senso e senza mèta.
Il Vangelo porta uno spiraglio di luce attraverso il segno del «serpente di bronzo» innalzato sopra un’asta che diventa il simbolo giovanneo del Cristo crocifisso che attira tutti a sé. Il «segno» rinvia a Nm 21,4-9, che descrive la ribellione degli Ebrei contro Dio e Mosè in prossimità della terra di Èdom, a sud di Israele, prima di entrare nella terra promessa. Per punirli Dio mandò i serpenti velenosi che fecero morire molti israeliti, mordendoli. Su ordine di Dio, Mosè fabbricò un serpente di bronzo, innalzandolo su un’asta: chiunque, morso dai serpenti, avesse guardato il «segno» innalzato da Mosè, sarebbe guarito. Gv rilegge il fatto antico alla luce degli eventi nuovi, utilizzando il metodo del midràsh che commenta la Scrittura con la Scrittura. Il serpente di bronzo innalzato da Mosè è profezia della croce, cioè dell’innalzamento di Gesù: egli stesso, come emerge dal vangelo odierno, legge questo episodio come figura della propria morte salvifica (Gv 3,14-15). Il brano di oggi, infatti, è il commento dell’evangelista all’incontro tra Gesù e Nicodemo. L’affermazione centrale è questa: il Figlio di Dio è stato mandato non a distruggere il mondo, ma a salvarlo. Il giorno del Messia, che doveva essere un giorno tremendo (dies irae), si trasforma, nella logica di Dio, in giorno della salvezza (dies salutis); e ciascuno è giudice di se stesso attraverso la discriminante della fede: chi crede e chi non crede in Cristo. In fondo la salvezza o la dannazione non sono un giudizio di Dio perché egli assume come suo il giudizio che noi diamo su noi stessi, decidendo, scegliendo e vivendo.
Nicodemo va da Gesù di notte per essere illuminato. Gesù, attraverso il buio della chiusura, lo apre alla comprensione del mondo che lo circonda. Il mondo non è cattivo o malvagio, il mondo è solo un luogo dove la libertà gioca tutta la propria partita nel dinamismo delle relazioni: con Dio, senza Dio, contro Dio, indifferente a Dio, con gli altri, senza gli altri, contro gli altri. Sono le nostre scelte che determinano il nostro esilio o la nostra liberazione. Dio è sempre accanto a noi, ma non prevarica mai. Anche noi dobbiamo imparare da Dio a non prevaricare mai. Ascoltare la Parola di Dio significa entrare in questa logica, cioè apprendere i criteri della vicinanza senza sopraffazione e la certezza che anche quando noi ci allontaniamo da lui, lo ritroviamo sempre vicino a noi, perché Egli non si era mai allontanato. Nemmeno nel tempo dell’esilio. Chiediamo alla Santa Trinità di essere capaci di penetrare questo mistero unico.
Allontanarsi da Dio è facile anche perché lui non impone di restare per forza: il Dio di Gesù Cristo non cerca l’osservanza formale dell’alleanza, egli vuole il cuore della nostra libertà, come un innamorato. Non c’è persona più libera di chi regala la propria libertà. Una libertà che ritroviamo centuplicata perché in Dio vediamo con chiarezza quale deve essere il nostro cammino e il nostro impegno. Nemmeno l’esilio può strapparci dalle braccia della sua paternità/maternità, per cui esaminiamo la nostra coscienza, sapendo che essa riposa già in Dio e ci apre alla luce che illumina la notte come per Nicodemo.
Esame di coscienza,
Signore, eravamo lontani da te col cuore, mentre col corpo frequentavamo il tempio. Kyrie, elèison!
Cristo, sei venuto a raccogliere anche Nicodemo che vaga nel buio della notte. Christe, elèison!
Signore, per nostra infedeltà siamo andati in esilio, ma tu sei voluto venire con noi. Kyrie, elèison!
Cristo, non sei venuto a giudicare il mondo, ma a salvarlo da se stesso e dal maligno. Christe, elèison!
Dio Padre, che si prende cura di Israele anche e specialmente nell’esilio, quando la sofferenza si fa pesante e la lontananza dal tempio si trasforma in angoscia; Dio che rimane fedele anche quando noi siamo infedeli; Dio che lascia sempre uno spiraglio, perché possa entrare anche chi arriva di notte, chi è nel dubbio e chi ha paura; per i meriti di Mosè, il profeta, di Gesù il Messia e Figlio, della Chiesa santa e peccatrice, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti per la riflessione e la preghiera
Il primo grande esilio d’Israele, o «cattività babilonese», che coinvolse oltre 5.000 persone, avvenne in due tappe, a opera del re babilonese Nabucodònosor II (634-562 a.C.). Nella tradizione biblica l’esilio di Babilonia è paragonato a un viaggio dalla luce alle tenebre (Is 9,1; 49,9: Ger 23,12; Sal 107/106, 10-14; ecc.). Esso è lo spartiacque, una svolta nella storia di Israele, perché segna la fine della dinastia davidica, dando inizio cinquant’anni d’instabilità politica e religiosa fino all’anno 538 a.C., anno della fine dell’esilio e del ritorno in patria.
Nota storico-biblica
L’esilio di Babilonia può essere considerato un tempo di giubileo, ma alla rovescia: non più la restituzione della terra ai proprietari originari e un azzeramento di ogni debito, ma la consegna del popolo «eletto» a una terra straniera. È anche la fine definitiva della dinastia della «casa di Davide», che resterà vacante per oltre mezzo millennio, dal 587 al 63 a.C., quando i Romani occuparono la Palestina, tenendola sottomessa fino a disperdere gli Ebrei, proibendo loro fuori dai confini della loro terra (guerra giudaica di Bar-Kokba e guerra finale, imperatore Adriano 132-135 d.C.). Adriano proibisce agli ebrei di entrare nella città di Gerusalemme, ora consacrata a Giove (Aelia capitolina) e a Venere, abominio degli abomini. Inizia in questi anni la diaspora infinita degli ebrei che si disperdono per il mondo e che durerà per 1000 anni, fino al 1948, passando attraverso il fuoco orribile e terribile della Shoàh. Quella che fu il progetto dell’epopea dell’esodo, la «terra promessa», è diventata solo un territorio occupato su cui addirittura Roma impone un re non ebreo, un idumèo: Erode.
L’autore del libro delle Cronache aveva tanto esaltato la teocrazia unita alla dinastia davidica (1Cr 17,10-14; 2Cr 13,4-8) da dimenticarsi anche dell’alleanza del Sinai come fondamento dell’esistenza d’Israele. I successori di Davide e di Salomone avevano svenduto l’ideale dinastico della casa di Davide anche per il cronista, il quale prende atto della storia e dichiara che Dio stesso verrà a guidare il suo popolo (1a lettura: 2Cr 36,23). Da questo momento, tutte le prerogative della casa di Davide passano sul tempio che diventa espressamente la «casa regale» di Dio. Non è più il re che agisce per mandato divino, ma ora è il tempio la grande opera di salvezza che Dio realizza attraverso il decreto di un re pagano. Avviene un passaggio importante: si spiritualizza l’idea stesa di tempio del Signore che da semplice luogo di culto diventa «luogo della Presenza-Shekinàh». La spiritualizzazione del tempio comporta una conseguenza logica: tutte le forme di governo del popolo fin qui sperimentate sono dichiarate provvisorie e decadute. Si rafforza e si potenzia il sacerdozio come casta mediatrice tra Dio e il popolo. Se prima era il potere del re l’unico rappresentante di Dio e lo stesso tempio era alle sue dipendenze, ora ogni potere è dichiarato relativo e ogni tentativo di divinizzarlo diventa una sfida a Dio creatore e una tragedia per il popolo di Dio, sua creatura. Solo il sacerdozio cultuale può stare tra Dio e il popolo, ma all’amaro prezzo della scomparsa della profezia. Con il ritorno dall’esilio, infatti, finisce il tempo dei profeti e comincia quello dell’organizzazione cultuale, quella che gli stessi profeti avevano condannato perché destinata ad essere vuota di vita e di moralità (Am 4, 1-5; 5,22-27; Is 1,10-20).
Il vangelo di Giovanni, nel capitolo terzo, di cui abbiamo letto un brano di commento all’incontro tra Gesù e Nicodemo, si situa all’interno della prospettiva salvifica vista attraverso il binomio «luce-tenebra», non più nel senso dell’esilio materiale, ma nel senso della dinamica interiore dell’anima di ciascuno: la dimensione dell’esilio del cuore. Per poter comprendere il brano di oggi bisogna leggere l’intero brano (Gv 2,23-3,21), perché il testo è scritto in forma parallela e se si spezza non si capisce quello che Gv vuole dire. Il brano, infatti, è strutturato in modo complesso: c’è un’ambientazione durante una Pasqua (Gv 2,23-24) cui segue il dialogo di Gesù con Nicodemo finalizzato all’iniziazione di questi alla fede (Gv 3,1-10); un monologo di Gesù sulla sua auto-rivelazione con il segno del serpente (Gv 3,11-15) e infine una conclusione dell’evangelista sotto forma di riflessione teologica (Gv 3,16-21). I livelli del brano sono tre:
1) La fede e i «segni» (Gv 2,23-3,2)
a) Gv 2,23: Gli abitanti di Gerusalemme credono perché «vedono i segni»;
b) Gv 2, 24: Gesù «conosce» ciò che c’è in ogni uomo;
b’) Gv 3,1-2a: Un uomo (Nicodemo) viene a Gesù;
a’) Gv 3,2b: Nicodemo per credere ha bisogno di «segni».
2) La nascita e lo Spirito (Gv 3,3-10);
a) Gv 3,3: La rinascita dall’alto (ànōthen; Gv 3,7): 1a rivelazione di Gesù;
b) Gv 3,4: Incomprensione dell’uomo Nicodemo (dèuteron – di nuovo);
a’) Gv 3,5-8: Rinascita dalla Spirito (v. 5: pnèuma/spirito): 2a rivelazione di Gesù;
b’) Gv 3,9: Nuova incomprensione di Nicodemo che capisce vento (Gv 3, 8-9: pnèuma/spirito);
c) Gv 3,10: Risposta/rimprovero di Gesù a Nicodemo.
Come sempre Gv gioca con le parole attribuendo loro un duplice significato: l’avverbio ànōthen in greco significa tanto: dall’alto quanto di nuovo. Gesù parla di nascita dall’alto, mentre Nicodemo capisce il senso immediato di nascere di nuovo e infatti risponde con l’avverbio «nuovamente/una seconda volta». Alla nascita dall’alto corrisponde la rinascita dallo Spirito, ma il termine greco pnèuma significa spirito e vento e Nicodemo capisce dal vento: infatti, è disorientato e s’interroga: «come può accadere questo?» (Gv 3,9). Non bisogna mai fermarsi al primo significato e all’apparenza.
3) Incredulità e rivelazione (Gv 3,11-21).
Nicodemo credeva di avere davanti a sé un qualsiasi maestro, un suo collega, invece incontra la luce, nonostante sia notte: egli ora deve scegliere se stare nella notte in cui si muove o se scegliere la luce. I miracoli che Nicodemo aveva visto lo avevano convinto che Dio fosse «con» Gesù, alla stregua di qualsiasi altro profeta dell’AT, ora invece la luce che incontra lo convince che Dio è «in» lui. Gv 3,21 ha un’espressione forte: «chi opera la verità». Noi siamo abituati a conoscere la verità, non a «farla». Che cosa è la verità in Gv? Il termine greco alêtheia ha il significato del termine mystêrion in San Paolo. Indica la profondità del nostro essere là dove si fa la sintesi tra avvenimento e smarrimento nell’imponderabile dell’abisso dell’esistenza, il punto d’incontro tra esperienza umana e presenza divina, tra la libertà e la necessità. Per Gv Alêtheia/Verità è, come per Paolo, «Mistero», non nel senso di evento sconosciuto, avvolto nella nebbia, ma di realtà che giunge anche senza che ce ne accorgiamo. In Paolo, la parola «mistero» è sinonimo di «sacramento» e il mistero paolino è una persona che «viene» incontro: è Dio manifestatosi in Gesù che viene a purificare l’intimo del più profondo di noi stessi. Gv usa la parola «verità» 25 volte e sempre in senso forte. In ebraico il nome di Yahwèh ha il valore numerico di 26. La conclusione è logica: la Verità è Gesù il quale viene a noi mandato dal Padre e lui stesso afferma di essere inferiore al Padre: Gesù è Yahwèh – 1 (= 26 – 1 = 25). Gesù è Dio, ma in quanto uomo è sottomesso a Dio. Comprendiamo anche perché in Gv la «Verità» è connessa al «giudizio», perché sceglierla significa prendere posizione pro o contro la persona di Gesù, uscendo dalla superficialità che le tenebre nascondono. La verità è giudizio perché obbliga ad una scelta e impone una valutazione di ciò che siamo e facciamo. Nessuno può restare indifferente davanti a Dio che viene, e viene nella luce. Qui si situa il compito della Chiesa come «sacramento»: essa dovrebbe svelare Cristo-Verità da incontrare, non come sistema di credenza da conoscere perché c’è il rischio perenne di farne un’ideologia, un pacchetto, una tradizione. Svelare la Verità/Cristo significa aiutare gli uomini e le donne a scendere nel pozzo profondo della propria anima e restare lì ad ascoltare la voce che solo tu puoi udire, la voce di colui che viene a chiamarti per nome perché solo lui sa quello che c’è in ciascuno di noi (Gv 2,24).
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