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  • Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 5ª DI PASQUA

Mensa della Parola: At 9, 26-3; Sal 22/21, 24ab.26b.27.28.30ab.30c-32; 1Gv 3, 18-24; Gv 15, 1-8

 

Introducendo l’Avvento, all’inizio dell’anno liturgico, abbiamo presentato la struttura del lezionario festivo, riformato da Paolo VI in attuazione della riforma liturgia voluta dal concilio Vaticano II. Abbiamo detto che il vangelo di Giovanni è letto prevalentemente nelle domeniche dopo Pasqua perché è il vangelo che «si ostina» a interrogarsi sulla personalità di Gesù prima della sua morte, e anche dopo la risurrezione del Cristo. Nello stesso tempo si leggono come 2a lettura gli «Atti degli Apostoli», che descrivono la continuità tra il Gesù terreno, il Cristo risorto e la chiesa nascente. Gli «Atti» sono il vangelo dei discepoli che rendono visibile il Signore, il quale ora è «invisibile» agli occhi del corpo, perché può «essere visto» solo da quelli della fede: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29).

Oggi siamo giunti alla 5a domenica dopo Pasqua dell’anno B che ci propone un brano dei «discorsi di addio» del capitolo 15 del IV vangelo, mentre domenica scorsa avevamo letto un brano del capitolo 10. Cercheremo comunque di cogliere il filo rosso che unifica tutto il vangelo del discepolo che contempla la personalità di Gesù. Domenica scorsa Gesù si era auto-rivelato come il «pastore bello», non per indulgere a un’estetica narcisistica, ma per spingere ad andare oltre le apparenze e cogliere la «bellezza» di quanto si vede e si sperimenta, che di norma è nascosta nel segreto profondo dell’anima umana. La «bellezza» cristiana è l’esperienza della vita che si fa comunione di ricerca, di cammino, di fini, d’ideali e di fede. Il «pastore bello» è amorevole, è accogliente, è custode delle pecore, trova i pascoli e le sorgenti perché la sua «bellezza» è il riflesso del benessere delle sue pecore che ama con tutte le fibre del suo animo.

In questa domenica Gesù si auto-presenta come vite innestata nel Padre: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e che diventa «la vite» su cui sono innestati i discepoli (Gv 15,8), creando così un circuito di linfa che non si ferma, ma si espande. Ancora una volta troviamo l’espressione pregnante «Io-Sono» che abbiamo presentato domenica scorsa. Il brano si divide chiaramente in due parti: nella prima (Gv 15, 1-4) Gesù si relaziona al Padre che svolge un’opera di purificazione della vigna, mentre nella seconda parte (Gv 15, 5-8) Gesù si relaziona con i suoi discepoli coi quali stabilisce un rapporto di intimità, espresso nel verbo «restare/dimorare» (Gv 15, 5.6.7[2x]; Gv 15, 4 [3x]). Il parallelismo è ancora più profondo e comprende il rapporto del capitolo 15 con il capitolo 13 che si estendono anche nei capitoli 14 e 16.

La 1a lettura ci offre la versione lucana del dramma dell’apostolo Paolo che vive una sistematica emarginazioneall’interno della chiesa primitiva a opera dei giudèo-cristiani, che non accettano l’apertura ai Greci. Essi diffidano della conversione di Paolo e giudicano la sua teologia pericolosa, differente da quella del gruppo di Gerusalemme. Lo stesso piano pastorale di Paolo, che guarda l’universalità dell’«evento Cristo», è contrastato, ripudiato in nome della tradizione identificata con la grettezza di pensiero del gruppo forte del momento. Costoro pensano che tutto debba esaurirsi nell’ambito dell’esclusività del popolo d’Israele in quanto «popolo eletto» che si realizza nei discepoli di Gesù, il Messia.

Se Paolo vivesse oggi, sarebbe considerato un pericoloso progressista, gli sarebbe affibbiata l’etichetta di «comunista» (quando non si hanno argomenti di merito, funziona sempre) con l’accusa, non solo di mangiare i bambini a colazione, ma specialmente di mettere in dubbio la tradizione e le fondamenta della Chiesa. Farebbe la fine della maggior parte dei teologi pensanti come quelli del dopoguerra, accusati addirittura di creare una «nuova teologia» o i teologi latinoamericani della liberazione che mettevano in discussione il monopolio «disincarnato» della teologia aristotelico-tomista e, quindi, non allineati alla «teologia romana». L’apostolo Paolo oggi sarebbe emarginato e forse relegato in qualche angolo insignificante di qualche monastero, salvo poi beatificarlo da morto perché i morti, come è noto, anche se risorti, non dànno mai fastidio.

In un contesto di grave tensione, che lo accompagnerà per tutta la vita, il laico Barnaba di Antiochia di Siria, si fa carico di lui, allontanandolo da Gerusalemme, cioè dalla Chiesa ufficiale, e accompagnandolo fino nella sua città, lontano dagli influssi «curiali». Qui Paolo sosta alcuni anni, riflettendo sulla sua vocazione apostolica e ponendo le basi della sua missione «ad Gentes». Il prezzo che pagherà sarà alto: per tutta la vita dovrà sopportare le spie «cristiane» che lo precederanno in ogni paese e città per screditarlo; egli si dovrà anche giustificare di essere apostolo e dovrà dimostrare di essere un cristiano, oggetto di vocazione e soggetto di diritti.

È nell’ordine delle cose che nella Chiesa, l’autorità, preposta al discernimento, non sappia cogliere quasi mai i segni dei tempi e le caratteristiche delle singole persone «fuori campo». Ciò è dovuto alla sua assuefazione istituzionale che porta la «struttura chiesa» a essere conservativa, conservatrice e diffidente contro qualunque prospettiva di nuovo non sperimentato. La Chiesa è lenta, pesante e spesso perde i grandi e piccoli appuntamenti con la storia perché privilegia l’aspetto istituzionale su quello profetico/carismatico.

Diffida delle personalità pensanti che sfuggono al controllo della sua cooptazione, facendo spazio a personalità fragili, quasi sempre banali, esternamente sottomesse al «sistema», mentre interiormente obbediscono solo ai bisogni immaturi della loro apparenza e gratificazione e alla loro sete di carriera, un vero idolo, davanti al quale sacrificano senza alcun rimorso la coscienza. L’autorità del potere fine a sé stesso ha bisogno di esecutori, non di collaboratori adulti e maturi.

La stessa espressione «cristiani adulti» fa venire l’orticaria alla gerarchia cattolica, che non ha perso il vizio di volere allevare adulti-bambini, proni e pronti a fare da chierichetti ornamentali e ossequienti, semplici pecore in una Chiesa senza diritti e con doveri di esclusiva obbedienza al clero. Gli esecutori facilmente sono indotti a perseguire non il servizio, ma la carriera, che diventa una delle cause dell’ateismo del personale ecclesiastico. Un muro d’incenso e di omertà si frappone fra la gerarchia e la realtà vivente del popolo di Dio. «Saliamo» sul monte dell’Eucaristia, per imparare il metodo di amore di Dio: si fa pane senza nemmeno la pretesa di essere mangiato, si fa bevanda senza nemmeno la certezza che sarà bevuta, si fa Parola fragile senza nemmeno la sicurezza di essere ascoltata. L’Eucaristia è solo una proposta e un progetto di amore aperto al mondo intero. È il modo di Dio, è il metodo dell’amore: si dona a perdere, senza chiedere nulla in cambio, ma solo per abbondanza e sovrabbondanza di amore.

Veniamo a te, Signore, così come siamo: con i nostri limiti e le nostre paure, con i nostri frutti e i nostri fallimenti. A volte siamo tralci vitali e ne siamo coscienti, altre volte ci sentiamo tralci secchi e buoni solo per il fuoco. Oggi siamo qui, ancora una volta, per celebrare la Pasqua con te, la Pasqua della settimana condivisa con l’umanità intera, attraverso il sacramento di quest’Assemblea, che tu curi come un tralcio della tua vigna.

Non siamo soli e non abbiamo paura, se tu sei con noi, perché noi crediamo, noi sappiamo e nello Spirito del Risorto, speriamo. Siamo qui per respirare la tua novità e ricaricarci dell’universalità che sgorga da questo altare, sentendoci parte redenta di tutta l’umanità che tu ami, crei, redimi e consoli. Su tutto il mondo, tua vigna che solo tu puoi purificare, vogliamo invocare il tuo Nome tre volte santo.

Il nostro cuore è gonfio: di gioia e forse di dolore, di bellezza e forse di stanchezza, di speranza e forse di rassegnazione, eppure anche per noi, specialmente per noi, oggi risuona la parola consolatrice di Dio: «qualunque cosa [il cuore] ci rimproveri … Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,20). Nel suo perdono è la fonte della nostra libertà, nella sua misericordia è la sorgente della nostra dignità: riconoscersi peccatori davanti a Dio è «confessare» Lui come nostro Signore e nostro Dio.

Esame di coscienza

Signore, noi siamo i tralci che hanno bisogno di essere potati e purificati. Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei la Vigna su cui il Padre innesta il tralcio di ciascuno di noi. Christe, elèison!

Signore, perdona le nostre colpe contro il comandamento dell’amore. Kyrie, elèison!

Cristo, quando non portiamo frutti di amore e di giustizia, perdona ancora. Christe, elèison!

Signore, quando non riconosciamo lo Spirito come frutto del tuo amore. Kyrie, elèison!

Dio, Signore e Padre, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen!

 

Spunti di riflessione e preghiera

Il tema della vite con cui Gesù s’identifica, è uno dei temi più interessanti proposti dalla Scrittura. La Didachê (dal greco: Insegnamento/ Dottrina), documento cristiano tra i più antichi, nel descrivere la celebrazione eucaristica, invita a prendere il calice del vino e a benedire così: «Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite di Davide tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo servo» (Didachê 9,2). Il riferimento evidente è al vangelo di oggi dove Gesù si identifica con la «vite», usando ancora una volta la formula forte di auto-rivelazione «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1)100. L’immagine della vite o della vigna che personifica Israele è ricorrente nell’AT (Is 5,7; Ger 2,21; 6,9; Ez 17,1-10; 19,10; Os 10,1; Na 2,3; Sal 80/79, 9-17) e anche nella letteratura giudaica. L’apocrifo (= libro non riconosciuto come rivelato) dell’AT, Apocalisse siriaca di Bàruc (fine del sec. I d.C.), scritto in greco e tradotto in siriaco e paleoslavo, presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però, dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla, memore della rovina del patriarca Adamo, chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla con queste parole: «Lèvati, Noè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei [il vino] diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso».

Il libro di Ènoc (sec. II a.C.), del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa, descritta come un’inondazione di vino: «La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino [350 litri, ndr].

Identificandosi con la «vite», Gesù non fa un discorso nuovo, ma usa la letteratura comune del suo tempo forse anche con l’intento di presentarsi come l’erede ufficiale del popolo d’Israele. Dio, infatti, aveva trapiantato dall’Egitto (Sal 80/79,9) il suo popolo, ma questa vigna scelta produsse uva acerba; ora al compimento dei giorni, il Figlio, «vite vera», vuole offrire al Padre il «vino buono» (Gv 2,10) della fedeltà e dell’obbedienza, il vino dell’alleanza nuova (Ger 31,31). Nell’intenzione dell’evangelista, però, Cristo si paragona alla vite anche per un altro motivo, indicato dalle due espressioni verbali «rimanere» e «portare frutto», che soltanto nel brano di oggi ricorrono rispettivamente 7x e 6x.

Con esse Gv esprime l’idea di comunione tra la vite e i tralci, che in qualche modo sono personificati, sottolineando la comunicazione della vita divina che come linfa di vita passa dalla vite ai tralci in un processo di simbiosi vitale e interdipendente. Senza la vite i tralci sono inutili e senza i tralci la vite è sterile. Il tema del «rimanere» indica la natura della stabilità della relazione vite-tralci, mentre quello del «portare frutto» esprime meglio l’idea della prospettiva futura e quindi della missione/ testimonianza. In questa immagine Gesù s’ispira certamente al capitolo 24 del Siràcide (sec. II a.C.), là dove la Sapienza loda se stessa e si auto-rivela come colei che nutre e disseta chi la desidera. La Sapienza è la «vite della vita»: «17Io come vite ho prodotto splendidi germogli e i miei fiori danno frutti di gloria e ricchezza. [18]19Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti, 20perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi vale più del favo di miele. 21Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,17-21).

In Giovanni nulla è mai causale e, infatti, l’immagine della «vite» di vita che produce «splendidi germogli» secondo Siràcide ci riporta al capitolo 6 del vangelo, dove Gesù si auto-rivela come «pane della vita» (Gv 6, 33.35.48.51), prima di presentarsi come «vite vera». Avremmo dunque una precisa e voluta corrispondenza tra Gv 15 e Gv 6, tra il pane e la vite. Due immagini per dire lo stesso concetto: la vita divina è comunicata in Gesù all’umanità nel simbolismo del banchetto (pane e vino). In Siràcide la Sapienza, nutrendo e dissetando di sé stessa, aumenta la fame e la sete di Sapienza; nel tempo dell’alleanza nuova, chi mangia il pane della vita non avrà più fame (Gv 6,35). Il tema eucaristico di Gv 6 è ripreso da Gv 15, ma sviluppato sul tema della vigna/vite/vino. Il testo di oggi (come tutto il capitolo 15 di Gv) dovrebbe essere messo in relazione al capitolo 13 che descrive la lavanda dei piedi, infatti per Gv ha lo stesso valore dell’istituzione dell’Eucaristia riportata dai vangeli Sinottici (Mc, Mt e Lc).

Ci limitiamo a questi pochi accenni, relativi al brano liturgico di oggi, sapendo che il parallelismo è molto più profondo e si estende ai capitoli 13-15 e 14-16 che comprendono i primi due discorsi di addio di Gesù. Queste corrispondenze confermano la fondatezza che Gv voglia esporre il tema eucaristico nel duplice tema del pane/vite, anche perché, in tutti e due i discorsi, Gesù usa la formula cristologica di auto-rivelazione: «Io-Sono il pane» (6,35) e «Io-Sono la vite» (15,1).

Il tema eucaristico è presente anche nel capitolo 15 di Giovanni, ma osservato da un’altra prospettiva. I sinottici raccontano l’Eucaristia come «memoriale storico» di ciò che Gesù ha fatto e che ora viene prolungato nella vita dei discepoli con il comando: «Fate questo in memoria di me». L’autore del IV vangelo, invece, descrive l’Eucaristia come «atteggiamento» di fondo e contenitivo dell’esistenza, perché per Giovanni essa finisce di essere «memoriale storico» per diventare «profezia di alleanza».

Questa dimensione è descritta con l’ostinata ripetizione dei verbi «rimanere» e «portare frutto», che ci obbligano a prendere coscienza del tema di fondo dei discorsi di addio di Gesù: e cioè l’amore come relazione feconda di vita e come nutrimento della vita. Il «pane e il vino» esigono l’azione del mangiare, vivono cioè dentro un processo di «assimilazione» che si realizza in un contesto relazionale autentico e generante. L’amore, infatti, genera sempre chi ama, rendendolo anche fecondo nella generatività. Amare è lasciarsi generare all’amore e accettare di essere sorgente di amore e strumento di amore.

Non basta amare, bisogna anche nutrire l’amore perché sia fecondo e generativo. Amare non è facile se non si fa prima l’esperienza di essere amati o meglio dell’abbandono ad essere amati. Esistono forme di amore che sono altrettante trappole: amore goloso quando si pensa l’amore come proprietà; amore geloso, quando si ama nel dubbio e senza fiducia; amore possessivo, quando si ama in modo padronale; amore servile quando si ama senza dignità; amore egoistico quando si ama solo se stessi, magari attraverso l’altro/a considerandosi un assoluto.

Per uscire da questa prigione è necessario lasciarsi amare dall’amore che libera da ogni condizionamento perché porta frutto e rimane sempre in relazione con gli altri. Chi ama non pone condizioni, ma vuole solo che l’altro sia felice, anche a costo della propria infelicità. Un amore contrattuale fondato sulla reciprocità è solo una forma nobile di prostituzione: un mercato di «tu devi». L’amore è autentico solo se è a perdere.

-       Amare gli altri! Facile a dirsi, ma molto difficile a praticarsi e spesso sono solo vuote parole che servono a fare i gargarismi con frasi evangeliche.

-       Amare gli altri! non significa rinunciare alla propria identità o assumere un atteggiamento dimesso se non addirittura succube; significa semplicemente riconoscere sé stessi come non assoluti, ma come termine necessario all’amore dell’altro, che ha bisogno di noi per compiersi, come noi abbiamo bisogno degli altri per essere e diventare noi stessi.

-       Amare gli altri! significa accettarsi come «relativi», che fanno spazio agli altri altrettanto «relativi», i quali vivono la stessa esperienza.

-       In altre parole: amare gli altri! significa imparare dal comportamento di Dio che proprio gli altri sono la «parte migliore di noi».

Il segreto è tutto qui: se abbiamo la coscienza di essere un tralcio che trae linfa e vita da Qualcuno che è sorgente di amore inesauribile, saremo capaci di amare noi stessi come proposta agli altri e li sapremo riconoscere come parte essenziale della nostra relazione. Tanto gli uni che gli altri tralci della stessa vite; insieme per portare frutto e portarlo abbondante in questo mondo, che abbonda di parole e gesti di amore, ma è povero di vero amore. Per questo abbiamo bisogno dell’Eucaristia, il sacramento-scuola, che ci educa all’amore sull’esempio di Gesù, il quale non esita ad amare fino al dono della vita sua per noi: rimanere in lui e portare frutto è il nostro modo per riconoscerlo e annunciarlo. Lo Spirito Santo ci apra a questo mistero che unisce la terra al cielo, facendo di noi il luogo sponsale di questo incontro d’amore.

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