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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 5ª QUARESIMA

Mensa della Parola: Ger 31,31-34; Sal 51/50,3-4.12-13.14-15; Eb 5,7-9; Gv 12,12-36 [Lezionario: Gv 12,20-33]

 

In questa sosta quaresimale la liturgia ci propone quattro temi, ciascuno per ogni lettura. La 1a lettura, dal profeta Geremia, propone addirittura una «nuova alleanza», espressione blasfema per le orecchie di un pio ebreo. Ciononostante o, forse, proprio per questo, ci troviamo al vertice di tutto l’AT. Con l’avvento di Gesù ne comprendiamo la portata e le conseguenze. Nel cenacolo Gesù celebra la sua ultima Pasqua con la sua famiglia, i discepoli. Egli prende la 3a coppa di vino, la coppa che la tradizione assegna ai tempi messianici, e dice le parole di Geremia applicandole a se stesso: questa è la coppa della nuova alleanza. Le parole del profeta (sec. VII a.C.) acquistano senso alla luce della vita e dei gesti di Gesù. È lo stesso Gesù la luce che illumina l’AT: egli ne è il senso e la chiave interiore per permetterci di leggerne il significato nascosto, il senso pieno (Mt 5,17).

Il salmo 51/50, penitenziale per eccellenza, rivela la misericordia di Dio come processo di vita che rigenera. Il testo ebraico parla infatti di misericordia e tenerezza generante. Il primo termine indica la tenerezza affettiva e affettuosa, il secondo ha un senso più radicale perché richiama l’utero materno che coltiva la vita per la nascita. Il perdono di Dio è dunque al contempo la forza e la tenerezza che tessono la vita di chi ama, per proiettarlo verso la vita piena e autonoma. In questo senso forte, Dio è Padre/Madre, perché egli esercita la giustizia attraverso la tenerezza paterna e la forza della madre che custodisce e genera.

La 2a lettura è tratta dalla lettera agli Ebrei. Si tratta di un’omelia di un sacerdote del tempio divenuto cristiano. Ci garantisce che Gesù è il sommo sacerdote che intercede a nostro favore sempre, anche con lacrime e grida e patimenti. Fa impressione leggere che il Figlio Dio abbia imparato l’obbedienza dalle cose che ha patito, cioè è andato alla scuola della vita da cui ha imparato a conoscere, attraverso i fatti e le persone, il disegno di Dio cui ha aderito con disponibilità. Viene spontaneo dire che chi crede in Dio vive anche la sofferenza e il dolore come una pedagogia, una via di amore e di dono.

Il vangelo infine ci introduce nella seconda parte del IV vangelo (Gv 12-21), il libro dell’«ora» che è l’ora della morte tragica e l’ora della glorificazione e della vita. Questo brano descrive la versione giovannea dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme (Gv 12,12-19) e la sua rivelazione ai pagani/Greci (Gv 12,20-36). Gv colloca gli eventi nell’ultima settimana di vita di Gesù. Qui siamo al 2° giorno. Il IV vangelo iniziava con la descrizione della 1a settimana del Lògos incarnato (Gv 1,29.35.43; 2,1) e ora si conclude con la descrizione puntigliosa dell’ultima settimana: i giorni di Gesù che attraverso la morte ritorna nella «gloria» che aveva come Lògos/Parola (Gv 12,1.12; 13,1; 18,28; 19,31). Filippo e Andrea sono gli stessi discepoli della 1a e dell’ultima settimana, come a garantire un’unità teologica e letteraria.

Il quadro che Gv ci presenta è semplice: Gesù si manifesta due volte (Gv 12,23-28 e 31-32), ma trova incredulità nella folla (Gv 12,29 e 34). Gesù, allora, risponde alzando la posta e ponendo condizioni ancora più profonde imponendo una scelta tra luce e tenebra (Gv 12,35-36). L’incomprensione resta e Gesù si nasconde alla folla (Gv 12,36). La folla è anonima e non è mai luogo d’incontro. L’Eucaristia che ci apprestiamo a celebrare fa di noi una comunità eucaristica, cioè una tensione alla relazione e all’incontro, perché è il sacramento della visione e dell’esperienza. Nel pane, nella Parola, nel vino, nei fratelli e nelle sorelle noi «vediamo», come i Greci, il volto di Dio che Gesù ci ha raccontato (Gv 1,18).

Inseriamo in questa Eucaristia la liturgia penitenziale perché la visione esige la libertà interiore che ci viene dal perdono di Dio e dalla sua misericordia. Nel Vangelo i Greci fanno una richiesta di visione a Filippo: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Gli Ebrei «vedevano» Dio nella Toràh e, attraverso il sommo sacerdote, nel tempio, il luogo della «Dimora/Shekinàh». «Vedere Dio» è l’anelito di ogni religione. Noi possiamo vederlo se entriamo nel tempo della sua «ora» e ne condividiamo le conseguenze: la morte e la gloria. I greci non chiedono di vedere Dio, ma di vedere Gesù. Sono i pagani che svelano così la via per arrivare a Dio, perché essi vogliono entrare nel tempio dell’umanità di Cristo e partecipare al banchetto della «visione». Gesù è il volto di Dio accessibile nel tempo e nella nostra esperienza, ma a condizione che accettiamo di vivere la sua «ora». Chi ama non calcola nulla, ma perde tutto perché tutto ha trovato. Nel sacramento della penitenza noi ritroviamo noi stessi in comunione con Dio, perché è lui che conosce quello che c’è in ciascuno di noi, lo valorizza, lo purifica e lo trasforma. Abbandoniamoci alla tenerezza della materna paternità di Dio.

Con il sacramento della «Confessione», non intendiamo limitarci a un elenco di imperfezioni o inadeguatezze che possono giungere anche ad arrivare a considerarci impuri, ma, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le nostre forze (Dt 6,5; Mc 12,29-31), vogliamo «confessare» che il Signore è «il Signore» della nostra vita, il nostro Dio, creatore e Padre nostro, fondamento della nostra identità e libertà. Riceviamo l’assoluzione che non è la cancellazione dei peccati, ma l’effusione della paternità di Dio su di noi, affinché, a nostra volta, possiamo essere padri e madri di quanti incontriamo nel nostro cammino. Se Dio, infatti, è giusto perché perdona, noi siamo santi solo se lo imitiamo (Lv 19,2).

Spunti per la riflessione e la preghiera

Sul monte Sinai Israele aveva ricevuto la Toràh scritta, scolpita su tavole di pietra: essa poteva essere violata ed è stata violata da Israele che pure l’aveva accolta con entusiasmo. L’autore del Dt 6,6 (anche Dt 11,18; 30,14), nel contesto della grande riforma di Giosìa del 631/632 a.C., aveva sentito l’esigenza di una Toràh più spirituale e intima che consisteva nell’assimilare sempre più la Legge del Sinai. Geremia si colloca in questo filone spirituale, ma fa un passo avanti perché parla di Toràh interiore come alleanza scritta nel cuore (Ger 31,3; anche Eb 8,19; 10,16). Il profeta non pensa ad abolire l’alleanza del Sinai, ma espone il bisogno che l’etica del comportamento non dipenda dall’osservanza, più o meno convinta, di una norma esterna, magari per paura della pena. Egli offre un progresso: la riscoperta della coscienza della Legge, che vive la norma non come costrizione, ma come incontro ad un livello di «io profondo».

Ger 31,33 «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore», infatti, è illuminante e ha solo un significato: l’alleanza di Dio e con Dio è un’attitudine interiore di vita che esprime l’essere profondo di ciascuno come luogo privilegiato dove si annida e si svela la natura intima di Dio. Il quale Dio, infatti, non è fuori di noi o in luoghi circoscritti come le chiese o i luoghi di culto, o i cieli; egli è la Shekinàh, cioè la Dimora, che è Presenza nell’intimo più intimo di ciascuno di noi, come esprimeva Sant’Agostino quando affermava: «Tu [Dio] eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta» (Confessioni, III,6,11, PL 32). Subito dopo il profeta continua: «Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Ger 31,33). Questa espressione, al tempo di Geremia, costituiva la formula sponsaleche sanciva il matrimonio tra un uomo e una donna: Questa è la mia donna e io sarò il suo uomo (Ger 7,23; 11,4; 24,7; 30,22; 31,1; 32,38). Formula che il Dio dell’alleanza adatta alla nuova situazione, perché l’alleanza non è altro che una relazione d’amore, sponsale, feconda, unica, la sola che possa esprimere e sperimentare la «conoscenza» che da essa promana.

Dio conosce il cuore e i reni, cioè i pensieri più intimi e le passioni più radicali (Ger 11,20; 12,3; 17,10; 20,12; Sal 26/25,2) di ciascuno e quindi è sempre «Presente» nel santuario inviolato della coscienza che è il luogo per eccellenza dove possiamo incontrarlo e riconoscerlo. Siamo a una svolta della maturazione religiosa d’Israele, che aveva pensato a una Gerusalemme nuova, anche ad un nuovo tempio oppure ad un re nuovo, ma mai avrebbe potuto immaginare che si potesse arrivare ad un’alleanza «nuova». Questa espressione è usata nel NT a più riprese: Gesù la ricorda nell’ultima cena (1Cor 11,25; 2Cor 3,1-2; Gal 4,21; Eb 8,6-10).

Nel vangelo, l’esigenza dell’incontro a un livello interiore è manifestata dall’anelito della «visione» che i Greci, cioè i pagani, espongono a Filippo (Gv 12,21). Si sente l’eco dell’ardente desiderio di Mosè di vedere la gloria di Dio, cioè il volto suo, e quindi sperimentarne l’intimità: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18). «Vedere Dio» è il progetto di ogni religione e ciascuna offre mezzi e metodi per raggiungere questo scopo. Gv, da parte sua, non parla della richiesta di «vedere Dio» che un Ebreo non avrebbe mai formulato in quanto sa che chiunque veda il volto di Dio muore (Es 3,6; 19,31; 33,20; Lv 16,1-2; Nm 4,2; Is 6,3; Dt 5,24; Gdc 6,22-23). Al contrario, egli apporta una novità: i nuovi credenti provenienti dal paganesimo (cioè non dal Giudaismo) vogliono «vedere Gesù», cioè l’uomo di Nazareth, che per loro equivale a «vedere Dio». Ciò che per i Giudei è inammissibile, anzi è bestemmia, per i Greci è naturale: il Lògos invisibile ed eterno di Gv 1,1 diventa «visione» accessibile a tutti i popoli nell’uomo di Nazareth. Gesù è il nuovo e definitivo tempio della Shekinàh-Presenza (Gv 2,19-21). Ebrei e pagani posti davanti a Gesù sono uguali: i primi possono vedere il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, mentre i pagani/Greci possono vedere il Creatore dell’universo, che assume il volto del Dio di Gesù Cristo.

In Gesù si può vedere Dio e non morire, perché Dio è diventato intimo a ciascuno nella natura umana del Figlio, che ha dato a noi come «nuova alleanza», la quale nulla toglie a quella del Sinai, ma la porta al suo esito naturale. Nel tempio di Gerusalemme il «Santo dei Santi» era separato dal resto del tempio da un doppio velo che impediva la vista della liturgia officiata dal sommo sacerdote una volta l’anno, per l’espiazione dei peccati (Eb 9,1-7); ora la morte di Gesù ha squarciato il velo di separazione da cima in fondo per permettere a tutti di accedere alla visione del Dio invisibile senza più paura (Mc 15,38).

Nel 2° giorno dell’ultima settimana terrena di Gesù, Gv sottolinea due fatti: l’ingresso di Gesù in Gerusalemme tra una folla di Ebrei festanti (Gv 12,12-19), che richiamano la festa di Sukkôt/Capanne, e la manifestazione di Gesù ai pagani (Gv 12,20-36). Ebrei e pagani si ritrovano uniti nell’umanità di Cristo, che elimina così ogni differenza, come afferma Paolo: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Gv descrive dettagliatamente sia la prima settimana di Gesù (Gv 1,29.35.43; 2,1) che l’ultima (Gv 12,1.12; 13,1; 18,28; 19,31), costituendo così un quadro letterario preciso.

Secondo la mentalità ebraica, gli estremi (primo e ultimo) indicano la totalità del contenuto che sta in mezzo: con questo schema Gv descrive «tutta» la vita di Gesù, che è una tensione o, se si vuole, una sintesi tra la prima e l’ultima settimana del Lògos, nella quale la morte in croce rivela e manifesta la Gloria di Dio nell’«ora» della verità, che è la risurrezione dell’uomo Gesù. I discepoli Filippo e Andrea sono i discepoli che dominano nella 1a settimana e anche nell’ultima (Gv 12,21-22). Alle due rivelazioni di Gesù (a Ebrei e pagani) corrispondono due incredulità della folla (Gv 12,29 e 34): la folla che grida «osanna» due giorni dopo griderà «crocifiggilo»).

Gesù si nasconde ai loro occhi (Gv 12,36): nel momento in cui si sottrae alla «visione» dei Giudei, Gesù si manifesta ai pagani. I Greci che non hanno avuto la preparazione della Legge e che non conoscono nulla della storia dei Patriarchi «vogliono vedere», i Giudei, figli della promessa e dell’Alleanza, fra pochi giorni grideranno di crocifiggerlo. È il capovolgimento della situazione (Lc 1,52-53; 6,20-23).

La «Gloria» di Cristo comincia ora perché si manifesta nel fatto che i pagani accedono alla salvezza, che è una vocazione universale e non più «nazionale» come volevano gli Ebrei: è tutto il mondo che assiste alla «visione del Messia» universale (Gv 12,20-23). Gv 12,16, infatti, annota che, vedendo ciò, i discepoli «comprendono». Se l’ora della morte provoca angoscia in Gesù secondo i Sinottici (Mt 26,36-40; Gv 12,27-30), in Gv invece Gesù non è turbato, ma domina il suo tempo e gli avvenimenti con lucida presenza, e il motivo sta in Gv 12,34 che parla di «Figlio dell’uomo [che] deve essere innalzato» nel duplice senso: innalzato sulla croce (morte) e intronizzato nella gloria (risurrezione) (Gv 2,19; 3,13-14; 8,28; Fil 2,9-10; Is 52,13). In questo modo Gv apre uno spiraglio sulla vita oltre la morte di Cristoperché, al di là di quella soglia, egli ci attende e prepara il raduno delle nazioni, predetto Isaia (Is 53,12).

L’autore del IV vangelo, sia per impedire una fuga nell’astratto, sia per radicare la rivelazione e la glorificazione di Gesù nella storia degli uomini e delle donne, insiste in modo ossessivo sulla determinazione temporale: «È giunta l’ora» (Gv 12,23), «ora/adesso» (Gv 12,27 e 31: 2 volte); «quest’ora» (Gv 12,27: 2 volte). Con l’«ora» di Gesù il tempo acquista una nuova dimensione: noi cessiamo di vivere nel provvisorio anonimo ed entriamo nell’eternità di Dio. Il tempo della nostra storia è il calcolo dell’eternità (Gv 4,23; 5,25; 12,27.31; 13,31; 16,5; 17,13). La croce di Cristo diventa così il tacito invito all’umanità a diventare un solo popolo perché gli ultimi tempi sono iniziati e l’umanità è con-vocata davanti alla croce che, da supplizio, diventa il trono della regalità, il trono della Maestà di Dio.

Nota esegetico-linguistica

Quando nel vangelo di Gv si parla di «gloria» non s’intende, come nelle lingue moderne, fama e onore, ma di realtà concreta, di valore nel senso di importanza. In ebraico, infatti, la parola «gloria» è «kabòd» e racchiude in sé il senso di «peso» (Sal 49/48,17-18; 62/61,6-8; Is 6,1-6); l’uomo glorioso è un uomo «pesante», cioè consistente, cioè pieno di valore, cosciente di sé: è un uomo che vale quanto il suo peso. La «gloria» di una persona indica la misura del suo essere e la consistenza della sua personalità: chi vale è pesante. Dio è l’esistente più «pesante» perché il suo essere e la sua vita sono stabili in eterno. L’opposto di «glorioso» è effimero, vacuo, superficiale, vuoto.

Nel NT questo «peso» di Dio si manifesta in Gesù (Eb 1,3; 2Cor 4,6; 1 Cor 2,8; Gv 1,14-18): le opere di Gesù («segni», li chiama Gv) manifestano che egli è veramente un uomo «di peso» e il suo valore di consistenza gli deriva dall’essere sempre in comunione col Padre. La gloria/peso non è una qualità che Gesù ha da sé, ma la riceve sempre dal Padre e a lui la richiede con fiducia (Gv 17,1.4-5). L’ora della morte e della risurrezione diventa così la «sua ora», dove la «gloria» manifesta la «verità» che è Gesù (Gv 10,30). Questa gloria è partecipata agli uomini (Gv 17,10) attraverso la vita sacramentale che sgorga dal suo costato (il sangue e l’acqua di Gv 19,34), che introduce nella comunione con Lui e col Padre.

Ora confessiamo che il Signore è il nostro Dio, l’unico che amiamo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le nostre forze e beni. Chiediamo perdono dei nostri peccati e delle nostre insufficienze, dei nostri fallimenti e dei nostri tradimenti, della volontà di fare il bene, mentre, invece, ci siamo trovati a fare il male. «Confessiamo» che il Signore è il nostro Dio, il nostro creatore e il nostro redentore. Egli compie in noi meraviglie perché ci rigenera nella sua misericordia attraverso il segno dell’acqua. L’esame di coscienza ci richiama alla necessità di «vedere» l’immagine di Dio deposta in noi e che ha bisogno costante di essere messa a fuoco.

 

Benediciamo l’acqua, simbolo del nostro battesimo, la sorgente del nostro diritto di essere cristiani, di partecipare all’Eucaristia per essere immagine di Dio nel tempo della storia.

Parte 1a della Liturgia penitenziale

Benedizione dell’acqua

Lettore: Benediciamo l’acqua simbolo della Parola di Dio e della Profezia, come la sua assenza è simboleggiata dalla siccità. Essa richiama la nostra storia della salvezza, dalle acque del Mar Rosso fino all’acqua del nostro battesimo. Il sacramento della riconciliazione dai Padri della Chiesa era chiamato il secondo battesimo o la «seconda tavola della salvezza». Preghiamo Dio Padre, perché nel sacramento della riconciliazione e del perdono rinasciamo alla nuova vita dall’acqua e dallo Spirito Santo.

Pr: Dio di santità, Padre, Figlio e Spirito: hai creato l’acqua di vita che purifica.

Gloria a te, o Signore!

Tu hai predicato l’annuncio del regno col vangelo della conversione del cuore.

Fin dalle origini del mondo il tuo Spirito si librava sulle acque della creazione.

Nelle acque del diluvio hai prefigurato la morte e la salvezza del Battesimo.

Nell’arca di Noè hai anticipato il fonte battesimale, tavola della nostra salvezza.

Hai liberato Israele dalla schiavitù facendolo attraversare illeso il Mar Rosso.

Hai voluto essere battezzato nell’acqua del Giordano, come povero tra i poveri.

Dalla croce, hai versato dal tuo fianco sangue ed acqua, Spirito e Profezia.

Hai inviato gli Apostoli a battezzare i popoli nel Nome della Santa Trinità.

Hai perdonato la donna Samaritana e hai avuto misericordia per l’adultera.

Sulla croce hai perdonato i tuoi carnefici, coloro che ti toglievano la vita.

Hai dato alla tua Chiesa il potere di rimettere i peccati a chi si converte.

Gloria a te, o Signore!

Il presidente stende la mano sull’acqua

Santifica quest’acqua, o Padre, con la tua potenza perché rinasciamo alla vita. Ti preghiamo, Signore!

Santifica quest’acqua, perché sia il segno della nostra seconda tavola di salvezza. Ti preghiamo, Signore!

Santifica quest’acqua, perché ci rigeneri con la penitenza e l’Eucaristia. Ti preghiamo, Signore!

Per il mistero di quest’acqua santificata dal tuo Spirito, facci rinascere a vita nuova perché purificati per il mistero pasquale del tuo Figlio, possiamo testimoniarlo nella vita e nella morte. Per Cristo nostro Signore. Amen!

Parte 2a della Liturgia penitenziale

Atto penitenziale

Ognuno fa il proprio esame di coscienza, proiettando sul proprio cuore la luce della misericordia di Dio, la misura della sua giustizia, che è la croce del Signore Gesù e la fiducia nello Spirito Santo che guida i nostri passi verso la pienezza del regno.

Signore, Dio della nuova alleanza, tu ci convochi a «confessarti» Signore. Kyrie, elèison!

Cristo, tu sei il nostro Dio e noi siamo il tuo popolo redento dalla tua morte. Christe, elèison!

Signore, abbi pietà di noi secondo la tua misericordia e la tua grande bontà. Kyrie, elèison!

Cristo, hai implorato con forti grida e lacrime la liberazione dalla morte. Christe, elèison!

Signore, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di noi. Kyrie, elèison!

Cristo, tu non sei venuto per giudicarci, ma per attirarci a te, elevato da terra. Christe, elèison!

Preghiamo (colletta) – A

O Padre, che hai ascoltato il grido del tuo Figlio, obbediente fino alla morte di croce, dona a noi, che nelle prove della vita partecipiamo alla sua passione, la fecondità del seme che muore, per essere un giorno accolti come messe buona nella tua casa. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Oppure:

Vieni in nostro aiuto, Padre misericordioso, perché con la tua grazia possiamo camminare sempre in quella carità che spinse tuo Figlio a consegnarsi alla morte per la vita del mondo. Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli, Amen.

Parte 3a della liturgia penitenziale

Assoluzione Generale

Lettore: Dopo la benedizione dell’acqua, memoria del nostro battesimo, dopo la presa di coscienza delle nostre fragilità e incongruenze e l’invocazione del perdono di Dio come forza per camminare sulla via del Vangelo, dopo l’ascolto della Parola di Dio che ci apre la prospettiva di un mondo nuovo, riceviamo l’assoluzione generale, dopo avere invocato il Dio dei nostri padri e delle nostre madri, Dio di alleanza e di consolazione. «Confessarsi» non è fare la lista della spesa e pagare pegno, ma fare una solenne professione di fede ecclesiale che quindi riguarda ognuno di noi e l’intera comunità. L’ekklesìa non è la somma degli individualismi. Al contrario è l’esultanza dell’unità cercata da ciascuno ed espressa con il proprio essere e il proprio agire nella diversità delle singole personalità. In questo senso la «confessione» è la proclamazione che Dio è il Creatore, il Signore della nostra vita e il «Redentore», cioè colui che riscatta e rende liberi. Per questo non possiamo disporre di essa, che è parte integrante del regno di Dio di cui siamo responsabili e profeti. Dentro questa visione di liberazione e di fede, riceviamo l’assoluzione che è l’effusione della paternità di Dio su di noi affinché possiamo essere padri e madri di coloro che incontriamo nel nostro cammino. Dio, infatti, è giusto perché perdona.

Presidente: Manda su di noi, Signore, il tuo Santo Spirito che purifichi i nostri cuori e con la gioia di una vita nuova, loderemo sempre il tuo Nome santo. Per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore.

Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni,vieni, luce dei cuori. Amen.

«O Signore nostro e Dio dei nostri padri e delle nostre madri, regna sull’intero mondo nella tua Gloria e sorgi su tutta la terra nella tua Maestà».

Grande è la tua misericordia, Signore, Dio «benigno e misericordioso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (Gl 2,13).

Tu conservi grazia per mille generazioni, sopporti la colpa, la trasgressione e il peccato (Es 34,6-7).

Nella tua grande clemenza vòlgiti a noi, tuoi figli e figlie, e ascoltaci! Kyrie, elèison! Christe, elèison! Kyrie, elèison!

Ci accostiamo con fiducia al trono della Grazia, il Signore Gesù (Eb 4,16) per i cui meriti riceviamo la tua misericordia e otteniamo il tuo aiuto che ci converta al santo Vangelo.

Tu sei nostro Padre e nostra Madre e a te ritorniamo, Dio dei Padri Abramo, Isacco e Giacobbe

e Signore delle Madri Sarà, Rebecca, Rachele e Lia.

Tu sei Dio, il Padre nostro che è nostra Madre. Kyrie, elèison! Christe, elèison! Kyrie, elèison!

Signore del cielo e della terra, nostro Re fedele.

Convertici e ci convertiremo, facci ritornare e noi ritorneremo (Lam 5,21). Risanaci e saremo risanati (Sal 147/146,3), consolaci perché possiamo lasciarci consolare da chi incontriamo nel nostro cammino e consolare chi cerca consolazione e conforto, o Consolatore di Gerusalemme (Bar 4,30). Amen!

Il presidente stende le mani sull’assemblea e pronuncia la formula di assoluzione collettiva

Assoluzione

Riceviamo il dono di Dio.

DIO, PADRE DI MISERICORDIA, CHE HA RICONCILIATO A SÉ IL MONDO NELLA MORTE E RISURREZIONE DI SUO FIGLIO, E HA EFFUSO LO SPIRITO SANTO PER LA REMISSIONE DEI PECCATI, VI CONCEDA, MEDIANTE IL MINISTERO DELLA CHIESA, IL PERDONO E LA PACE.

IO VI ASSOLVO TUTTI, CIASCUNO E CIASCUNA, DA TUTTI I VOSTRI PECCATI NEL NOME DEL PADRE E DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO. AMEN!

Il presidente asperge con l’acqua benedetta l’assemblea e conclude:

Lodate il Signore perché è buono.

Buono è il Signore, in eterno la sua misericordia. Gioiscono ed esultano i giusti perché il Signore Gesù è venuto per i peccatori. Grandi cose ha fatto il Signore per noi. Amen!

In segno di ringraziamento e anche di penitenza a gloria di Dio che opera meraviglie, durante questa settimana compiremo tre gesti:

Diremo una parola di consolazione.

Compiremo un gesto di accoglienza o di condivisione con chiunque.

Pregheremo come ci suggerisce il nostro cuore per quanti sono lacerati dall’odio e dalla violenza perché riscoprano la medicina del perdono.

A conclusione del camino di Quaresima, ritorniamo alla sorgente del nostro battesimo e rinnoviamo le promesse della nostra fede perché il nostro cammino verso la Risurrezione sia segnato dalla fiaccola della fede che illumina i nostri passi e dalla decisione che vogliamo vivere coerenti con ciò che abbiamo ricevuto e che vorremmo tramandare. Lo facciamo in comunione con i milioni di cristiani che oggi in tutto il mondo rinnovano le promesse battesimali.

Professione di fede

Credete in Dio, Padre e Madre, creatore del cielo e della terra? cantato: Io credo, Signore: Amen.

Credete in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? cantato: Io credo, Signore: Amen.

Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? cantato: Io credo, Signore: Amen.

Questa è la nostra fede.

Questa è la fede della Chiesa.

Questa è la fede nella quale siamo stati battezzati.

Questa è la fede che vogliamo professare, in Cristo Gesù nostro Signore.

Tu, o Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci convochi alla Pasqua sua e della santa Chiesa, ci custodisci nella fede dei Padri e delle Madri per la vita eterna. Amen.

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