Mensa della Parola: Gb 7,1-4.6-7; Sal 147/146, 1-2. 3-4. 5-6; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39
Oggi assistiamo a una delle molteplici violazioni del Sabato, con cui Gesù afferma la propria libertà, ma anche le priorità della vita: davanti ai bisogni concreti delle persone, anche Dio si arresta e sospende ogni sua prerogativa. Prima viene la persona nella sua concretezza, solo dopo viene tutto il resto. Questo comportamento di Gesù sarà codificato da Marco stesso in una precisa legge: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato!» (Mc 2,27). Nella 1a lettura, Giobbe si chiede dove sia la giustizia di Dio, se la sofferenza schiaccia la persona che agisce con rettitudine e osserva la legge di Dio; non trovando una risposta adeguata alla sua angoscia, maledice il giorno della sua nascita e il tempo che è costretto a vivere. A distanza di quasi sei secoli dall’ultima redazione del libro, Gesù risponde a Giobbe con la sua presenza e con il suo gesto «sacrilego»: anche egli rifiuta la religione di comodo e il sistema teologico che imprigiona gli uomini, ma anche Dio perché lo relega in uno «non-spazio» insignificante. Gesù non esita a violare lo Shabàt per stare accanto a tutti i «Giobbe» che sono afflitti e schiacciati tra le tenaglie della sofferenza e della malattia.
Sono trascorsi trenta secoli e più, da quando Giobbe pose la domanda sulla giustizia di Dio e anche noi, ancora oggi, siamo in attesa di trovare una risposta. L’autore di Gen 1-11, quasi suo contemporaneo (sec. V/IV a.C.), tentò di dare un’articolazione «teologica» a quegli interrogativi assillanti, che ancora oggi ci tormentano. Si sviluppa la tecnica, avanza il progresso, la scienza giunge a livelli mai neppure immaginati, ma le domande sono sempre le stesse: perché il dolore? perché la vita e la morte? perché la sofferenza dell’innocente? chi è innocente e chi è malvagio? Giobbe non sa rispondere, ma non accetta le risposte prefabbricate dei suoi amici «religiosi e praticanti» che cercano di consolarlo rifugiandosi nella rassegnazione alla volontà di Dio, perché la sofferenza e il dolore «sono permessi» da Dio. Su questo Dio che dispensa dolori e sofferenze come fossero caramelle, Gesù mette una pietra sopra, seppellendolo.
Chi non sa cosa e come rispondere di fronte alle assurdità dell’esistenza, farfuglia di un «dio» che passa la sua eternità a distribuire malattie e dolori «per mettere alla prova» (Gn 22, il «sacrificio di Isacco»). Questo Dio sadico e violento è morto e sepolto per sempre sulla croce di Gesù, venuto a «farci l’esegesi» di Dio, insegnandoci che è Padre (Gv 1,18) e non carnefice torturatore. Questo è il nucleo centrale del vangelo. Nessun padre, per quanto cattivo o perverso, è contento di fare soffrire i suoi figli (Lc 11,11-13). Concetti come «sacrificio, espiazione, riparazione, sangue, vittima sacrificale, ecc.» fanno parte di questa mentalità che è estranea al Vangelo che è Gesù, lo sposo «della nuova ed eterna alleanza».
Gesù, «uscito dalla sinagoga», va incontro alla donna preda della febbre e la «sollevò» (Mc 1,29.31). Il testo usa il verbo «[mi] alzo/risorgo/[mi] sollevo», lo stesso termine usato per descrivere la risurrezione, compresa quella di Gesù (Mc 4,38; 12,26; Gv 5,21; At 3,15; 2Cor 1,9…). Mc mette in evidenza «un passaggio»: dalla sinagoga alla casa privata: il vero «luogo» del culto vitale, dove l’uomo e la donna sono protagonisti della ragione di Dio
Questo è il senso dell’espressione «il tempo è compiuto» (Mc 1,14) con cui Gesù inizia l’annuncio del Vangelo. È il tempo della liberazione, il tempo della prossimità di Dio all’umanità oppressa da ogni forma di febbre. È cominciato, infatti, il tempo della tenerezza di Dio che viene personalmente a cercare gli uomini e le donne per farli risorgere dalla loro condizione di sofferenza. Il dolore non viene da Dio, che, al contrario, libera dalla sofferenza che è una conseguenza e una condizione del nostro essere viventi «temporali» e «temporanei». Spesso siamo anche causa volontaria delle malattie e dei malanni che affliggono l’umanità. Con il nostro stile di vita stiamo alimentando la distruzione della terra, dell’umanità e dell’ambiente, l’inquinamento che produciamo si ritorce contro di noi. Scaricare la responsabilità su Dio ci permette di continuare impuniti in una via di autodistruzione, di cui pare non ci rendiamo conto né noi né chi governa, visto che naviga a vista senza una visione d’insieme che abbracci anche il futuro. Gesù ha un metodo efficace: accompagnato dalla sua solitudine (cioè dalla capacità di stare con se stesso), si ritira in un luogo silenzioso e là si mette in intimità con Dio, imitando il patriarca del popolo, Abramo. Per andare, infatti, al luogo di Dio, per salire in alto, dove avrebbe dovuto sacrificare il figlio Isacco, «Abramo si alzò al mattino presto» (Gen 22,3) perché l’ora più buia è sempre quella che precede l’aurora. Anche Gesù «al mattino si alzò quando ancora era buio» (Mc 1,35) non per sacrificare qualcosa, ma per pregare, cioè per dare senso alla propria vita e alle sue scelte, verificando la sua volontà sulla conformità di quella del Padre. In ambedue i casi si ha un atteggiamento di «obbedienza» fiduciosa: l’uno e l’altro, il Patriarca e la sua stirpe-Gesù (Gal 3,16), vivono il rapporto con Dio nell’abbandono totale di sé alla sua volontà. Pregare, per Gesù, è assumere su di sé l’atteggiamento di disponibilità totale del patriarca Abramo alla volontà di Dio e quindi di fare sua tutta la storia della salvezza che da quell’atto discende.
Gesù prega per collocare la sua vicenda terrena dentro il grande contesto della fede e della infedeltà del suo popolo. Compiendo lo stesso gesto di Abramo, Gesù ci insegna come deve essere il metodo della nostra preghiera: piantata nel cuore stesso di Dio che si rivela fedele alla sua promessa: «Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà, mai permetterà che il giusto vacilli» (Sal 55/54,23). La preghiera è dunque la coscienza di vivere la vita come sacrificio di lode «per la sua gloria immensa». In un tempo dove il chiasso e il chiacchiericcio hanno preso il sopravvento sulle coscienze, è necessario riscoprire e assaporare il silenzio e la Parola. Ascoltare il silenzio è il primo passo verso la guarigione da ogni febbre di egoismo e di superficialità. Gesù non si lascia catturare dal successo: «Tutti ti cercano!» (Mc 1,37), dove nel «tutti» sentiamo l’entusiasmo del redattore che partecipa emotivamente al racconto, esagerando gli eventi. La preghiera indica la strada che deve percorrere: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,38). Come Simone e i suoi colleghi, anche noi ci mettiamo «sulle sue tracce» (Mc 1,36) per lasciarci guarire da ogni sorta di febbre, per lasciarci risuscitare da qualunque situazione oppressiva, per seguirlo nella preghiera e per andare nel mondo a «raccontare» quello che oggi sperimentiamo per la forza dello Spirito Santo che invochiamo all’inizio della nostra Eucaristia.
Esame di coscienza
Siamo abitati anche noi dalle angosce di Giobbe e domande spesso senza risposta popolano il nostro cuore. Nonostante «tutti» cercassero Gesù, solo alcuni hanno sperimentato la liberazione da ogni dipendenza da qualsiasi male li affliggesse. Essi sono un «segno» e parlano a noi in cerca di liberazione che vogliamo chiedere e supplicare. Da quale febbre e da quali malattie e demòni siamo afflitti? «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). È l’invito del Signore che ancora prima di essere condannato alla croce, viene a farsi nostro cireneo e vuol prendere confidenza con la croce che lo catturerà. Non abbiamo paura di offrirgli tutto ciò che riteniamo scorie e rifiuti, non abbiamo pudori davanti a colui che con i nostri rifiuti è capace di costruire il regno di Dio: non è venuto infatti per i giusti, ma per i peccatori come noi (Mc 2,17).
Signore, abbiamo anteposto la formalità del culto alle esigenze della carità, perdonaci. Kyrie, elèison! Cristo, che vai incontro alla donna con la febbre, perdona ogni nostra chiusura. Christe, elèison!
Signore, per tutte le volte che abbiamo ritenuto inutile pregare stando davanti a te. Kyrie, elèison!
Cristo, per ogni volta che abbiamo lasciato prevalere in noi la disperazione. Christe, elèison!
Signore, per quando, malati, abbiamo avuto la presunzione di guarirci da soli. Kyrie, elèison!
Cristo, che hai lasciato l’ovile al sicuro per venire a cercare noi, smarriti e delusi. Christe, elèison!
Dio di tenerezza, a te è caro il peccatore che si converte, noi ti preghiamo: per i meriti di Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe con Lia e Rachele, nostri santi Padri e Madri, per i meriti della santa Madre, e degli Apostoli, ma soprattutto per i meriti del tuo Figlio che hai inviato a noi, pecore perdute d’Israele, ascolta e perdona, abbia misericordia di noi, ci guidi alla vita eterna dove con i santi e le sante di ogni tempo e con tutti coloro che ha liberato da febbri e spiriti immondi, possiamo contemplarlo in eterno nella pace della Gerusalemme celeste. Per Cristo nostro Signore. Amen!
Spunti per la riflessione e preghiera
La conversione non è indolore. Essa comporta una ferita perché esige dei tagli, a volte anche dolorosi, che coinvolgono non i comportamenti che sono sempre conseguenze, ma il pensiero, cioè il modo di vedere e vivere la realtà. La conversione, infatti, è un atto d’intelletto (metànoia) che dirige le scelte del cuore e della volontà. Nella 3a domenica abbiamo appreso che la missione apostolica non consiste nel fare morire gli uomini, come fanno i pescatori, ma nell’aiutarli a prendere coscienza della ferita che il vangelo porta con sé (Lc 5,10) e aprirli ad una prospettiva di vita piena. La Parola di Dio, quando arriva a destinazione, da una parte o dall’altra, si fa sentire perché le sue lame sono ambedue affilate. Quando la Parola giunge a destinazione e s’insedia nel cuore di carne di chi l’accoglie, essa opera sempre un intervento chirurgico: fa appello alla coscienza, suggerisce il metodo, propone lo scopo e indirizza all’obiettivo. Il vangelo della domenica di oggi, ci presenta Gesù in sinagoga, dove si è nutrito della Parola di Dio e forse ha commentato anche lui la 2a lettura perché laico, com’era costume al suo tempo. Nutrito di Dio, Gesù non si chiude nel suo guscio, ma si riversa sull’umanità affitta e schiacciata da molte malattie e demòni (Mc 1,34). Dio non può essere separato dall’uomo. Dal momento dell’incarnazione del Lògos, il destino di Dio è incrociato inseparabilmente con quello di ciascun uomo e ciascuna donna.
Chi dice che compito della Chiesa sia «formare le coscienze» senza nessun’altra forma di coinvolgimento, forse non legge il vangelo che invece ci testimonia come Gesù esca dalla sinagoga ed entri in una casa privata dove la febbre costringe una persona a letto; egli s’immischia, si butta, si fa avanti, non si sottrae, si fa carico della situazione e la risolve. La Chiesa è sacramento e segno di Lògos incarnato nella condizione umana e, se vuole essere di Cristo, non può non essere immerso nel mondo senza assumere su di sé quell’immondezza che sporca l’umanità. La chiesa esiste per il mondo cui è mandata, ma senza assumerne lo spirito indemoniato che la rende strumento di oppressione o di parte: «Non siete del mondo» pur essendo «nel» mondo (Gv 15,19; Gv 17,11.15-18).
La donna, prima a essere liberata dalla «febbre» è una persona che, al tempo di Gesù, apparteneva a una categoria emarginata. Gesù prende per mano una donna malata, sollevandola (Mc 1,31), cioè facendo vivere a lei, in anticipo, quello che anche lui avrebbe vissuto dopo la sua morte: la rende risorta. In altre parole, la donna risorta dalla febbre, diventa un simbolo, un «sacramento» di Gesù che sarà schiacciato dalla febbre della morte, ma da cui «si risolleverà». Qui, Gesù non si domanda se toccare la donna lo rende impuro, ma assume su di sé tutta la condizione umana femminile. La conseguenza di questa risurrezione anticipata è il servizio: «la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli» (Mc 1,31). Ognuno di noi ha una dimensione comunitaria o se si vuole sociale: esistiamo per risorgere e servire, ma a volte una «febbre» c’impedisce di essere chi vogliamo e possiamo essere. Febbre del denaro, del successo, della carriera, dell’autosufficienza; febbre della religiosità asfittica ed esteriore; febbre dell’eccesso di attivismo a scapito della profondità. Ognuno di noi ha da fare i conti con una febbre particolare che occorre individuare attraverso il confronto nella vita comunitaria per non correre invano (Gal 2,2).
La guarigione, qualsiasi guarigione, nel vangelo, non è mai fine a se stessa, ma ha sempre un traguardo: quello di spendere ciò che si è ottenuto per gli altri. Non siamo risuscitati perché simpatici o per privilegio, ma per dedicarci più agevolmente agli altri, a chi ne ha bisogno e per rendere visibile il volto solidale della Chiesa che è «comunità/assemblea/popolo. Qui si può anche inserire la riflessione sui «carismi» che non sono doni per sé, ma sono in funzione del servizio evangelico (1Cor 14,1-19). Dio non fa preferenze di persone ma, se chiama qualcuno, lo chiama sempre per un fine comunitario, per uno scopo di servizio (Eb 5,1; Gc 2,1-13). È evidente che la guarigione della donna va oltre il fatto per assumere un valore simbolico: è una parabola per noi. La donna è incapace di vivere la sua vita perché ritenuta essere inferiore dalla cultura dominante, emarginata dal potere maschile, relegata in regime di schiavitù che la rende disponibile ai bisogni dell’uomo: esiste per essere schiava dell’uomo ed è equiparata alle cose perché è proprietà dell’uomo. Ai tempi di Gesù la donna esisteva solo come funzione: sessuale, materna, garante dei figli e della casa, servile. Non era persona e, infatti, non poteva testimoniare in tribunale; addirittura il suo valore di risarcimento legale, in caso di danno, doveva essere dimezzato rispetto all’uomo, mentre i tempi della purificazione, in caso di parto, erano raddoppiati (Lv 19,20; Es 21,22; Lv 12,3-5). La vera febbre della donna è l’essere donna.
La novità del Vangelo che è Gesù, Cristo, Figlio di Dio è racchiusa tutta nell’espressione «il tempo è compiuto»; è giunto il tempo di Dio che coincide con quello della donna perché Dio non tollera più che la donna sia prigioniera della febbre della femminilità asservita e il primo intervento che Gesù opera nel suo ingresso nella predicazione è la liberazione di una donna dalla prigione della febbre maschile. È questa «la pienezza del tempo» (Gal 4,4); essa arriva quando l’Uomo-Dio non esita a sporcarsi, toccando una donna: egli «prendendola per mano la sollevò» (Mc 1,31). In queste parole c’è tutta l’attenzione e la considerazione che durante la sua vita Gesù ebbe per le donne. È inaudito: di sabato, una donna, malata e quindi impura … e lui la tocca, intreccia le sue mani con quelle della donna e la «risuscitò». Giustamente Paolo può dire a tutta la Chiesa e all’umanità intera la novità cristiana: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,18). Nulla può più essere come prima: chi era schiava per legge e per dovere, «si mise a servirli» per amore. Solo la donna è capace di rispondere all’amore con l’amore, con disinteresse; risorta dalla schiavitù vive nel servizio. Liberata dalla febbre, si consuma nel perdersi dietro agli altri. Avendo ricevuto, dona: «Gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date» (Mt 10,8).
Gesù è assediato da malati e oppressi: essi sentono che è arrivata «la pienezza del tempo», il loro tempo, e vogliono risorgere. Emarginati, esclusi dalla vita civile e religiosa, ora hanno coscienza di essere la parte migliore di quel mondo che Gesù è venuto a cercare e a salvare (Gv 12,46-47). Li riceve uno per uno, li guarisce dalle loro paure e angosce, dai loro condizionamenti, dalla disperazione. Gesù spalanca le porte della speranza e del futuro ad una umanità depressa e derelitta. I farisei, che pure erano dalla parte del popolo, ritenevano che il «popolino» non potesse salvarsi perché incapace di osservare tutti i «613» precetti imposti dalla tradizione religiosa giudaica. Le donne a loro volta, proprio perché ritenute inferiori, erano dispensate dall’osservare i 365 precetti negativi, avendo solo l’obbligo di osservare i 248 positivi. Gesù porta una ventata definitiva di libertà. E oggi nella Chiesa? Il giorno in cui la ventata di libertà e di liberazione portata da Gesù e gridata da Paolo riceverà pienezza di cittadinanza ecclesiale, quel giorno sarà un giorno evangelico e un’altra febbre sarà guarita e una nuova diaconìa avrà inizio a servizio del regno di Dio.
Per rimanere nella sua interiore condizione di libertà, egli si alza «al mattino, quando ancora è buio, e là prega» (Mc 1,35). Pregare! Parola piena di evocazione, parola difficile che spesso non sappiamo riempire, perché parola scomoda di cui non conosciamo il senso. Pregare! Che cosa significa? San Paolo afferma che noi non sappiamo pregare/chiedere (Rm 8,26), e ha ragione, perché la preghiera non è un’attività, ma uno «stato» interiore di comunione/intimità tra Gesù e suo Padre, tra noi, Gesù e il «Padre nostro». Non è un processo psicologico emotivo, anche se questi aspetti sono presenti, ma è una dinamica di relazione tra due persone che si conoscono, si stimano, si accolgono, si amano. Spesso confondiamo la preghiera con la recita di formule più o meno complesse che esprimono solamente il nostro bisogno psicologico di «sentirci» protetti e al sicuro, col rischio che si possa confondere la preghiera con il parlare con se stessi. Occorre «ascoltare il silenzio» e per farlo è necessario «fare silenzio» dentro e attorno. Gesù va nel «deserto», luogo isolato, ma non assente dal mondo, luogo dove la dimensione della vita scorre non sulle onde agitate, ma sugli alisei leggeri, dove il tempo ritma l’eterno e l’eternità scandisce l’essenziale dell’esistenza, purificandola dalle scorie del superfluo o dei superflui. In queste condizioni, la preghiera diventa la misura dell’essere, nell’aspetto del desiderio e dell’agire, del progettare e del realizzare, la verifica della vicinanza con Dio che si trova solo se c’è il clima adatto dell’ascolto nel silenzio che diventa attenzione assoluta all’altro/Altro. A questo livello non occorrono parole, perché basta «esserci».
Se uno prega veramente entra in intimità d’amore con il Signore e quando finisce di pregare non è più lo stesso perché passa dalla preghiera d’intimità alla vita di preghiera: egli prega vivendo, come prima viveva pregando; la vita diventa preghiera e la preghiera è vita. Nello stesso momento in cui si dice «La Messa è finita», realmente, noi intendiamo che «inizia l’Eucaristia della testimonianza», cioè si entra nella dinamica della vita ordinaria che è l’altare dove celebriamo la lode, il pane e il vino delle nostre scelte, azioni e parole. Finisce la Messa del rito e inizia l’Eucaristia della vita nella liturgia della testimonianza che è il martirio quotidiano (Sal 54/53,8; 116/115,17; Ger 17,26; Eb 13,15). La preghiera apre a prospettive nuove: invita ad andare sempre «oltre», ad altri villaggi, ad altri bisogni, ad altre incarnazioni, ad altri rischi di novità. La preghiera allarga l’orizzonte della vita ristretta per adeguarlo all’immensità della visione di Dio. Pregare è lasciarsi scegliere per tre obiettivi: «stare con lui», «essere mandati a predicare» e «avere il potere di scacciare i demòni» (Mc 3,13). Stare con lui. Significa avere consuetudine di frequentazione diuturna e di vita. Essere mandati esprime la coscienza della responsabilità che sentiamo del mondo e, infine,scacciare demòni vuol dire condividere con gli uomini e le donne di buona volontà le lotte della vita contro la fame, la sete e la povertà, la disoccupazione, la mancanza di casa e di dignità, che costringono la maggioranza dell’umanità a vivere prigioniera della febbre dell’ingiustizia, schiava di un sistema economico e umano ingiusto che vive delle differenze e delle disparità e si nutre del sangue dei deboli. Pregare è imparare a essere il «sacramento» della Dimora/Presenza di Dio nel mondo per cominciare a costruire il regno della libertà secondo il Vangelo che è il cuore di Cristo.
L’Eucaristia è la preghiera corale di tutta la Chiesa che realmente ci rende partecipi e uniti a tutte le Eucaristie che si celebrano nel mondo intero di cui noi siamo un frammento, un segno e anche una speranza e una promessa proiettate sul mondo e sul futuro. Non celebriamo l’Eucaristia per soddisfare un precetto che tranquillizzi il nostro dovere religioso, perché questo si chiama prostituzione di comportamenti religiosi, ma viviamo l’Eucaristia per annunciare, proclamare, spandere e condividere con tutta l’umanità la Benedizione del Padre che è Gesù il Signore, il «Vangelo» che abbiamo ricevuto. Il mondo si salverà da se stesso, se sapremo trasformare la nostra vita in preghiera e la nostra preghiera in vita. Con l’aiuto dello Spirito Santo, sull’esempio di Gesù e con la grazia del Padre di tenerezza.
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