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Immagine del redattoredon Luigi

DOMENICA 6ª DI PASQUA

Mensa della Parola: At 10,25-26.34-35.44-48; Sal 98/97, 1-3ab; 3cd-4. 1Gv 4,7-10. Gv 15,9-17

 

Oggi, la 6a domenica del ciclo pasquale chiude il tempo liturgico «dopo Pasqua» –B. La liturgia prosegue la lettura del capitolo 15 di Gv. Il brano di odierno è collegato a quello di domenica scorsa sia dal verbo «io dimoro», sia dall’espressione «portare frutto». Anche il brano odierno è un estratto del 2° discorso di addio di Gesù durante l’ultima cena e si compone di due unità: Gv 15,9-11 espone il tema del rimanere nel suo amore che è il contenuto del suo comandamento e Gv 15,12-17 espone il suo comandamento che è l’amore.

Domenica scorsa (Gv 15,1-8) abbiamo appreso che il vignaiolo è il Padre, oggi invece che il Figlio è la rivelazione dell’amore del Padre e se includessimo nella lettura anche Gv 15,8 e la prolungassimo fino a Gv 15,27 ascolteremmo la promessa completa dell’invio del Paraclito attraverso il Figlio. In altre parole la dimensione che il capitolo 15 di Giovanni ci vuole svelare è una dimensione trinitaria: il Padre (dom. 5a-B ), il Figlio (dom. 6a-B) e lo Spirito (Gv 15,18-27) che si leggono in parte nel sabato della 5a settimana dopo Pasqua [Gv 15,18-21] e in parte il lunedì della 6a settimana dopo Pasqua [Gv 15,26-27]).

Anche questo brano, come quello di domenica scorsa, deve essere messo in relazione con il capitolo 13 dove Gesù lava i piedi ai discepoli e li prepara all’«ora suprema». Per Gv la lavanda corrisponde all’istituzione dell’Eucaristia dei sinottici, segno che pone il servizio a livello di sacramento. Le corrispondenze riguardano Gv 15,1-8 (vangelo di domenica scorsa) e Gv 15,9-17 (vangelo odierno) in rapporto a Gv 13-16 (i discorsi di addio della cena), ma qui ci limitiamo solo al brano interessato.

Gesù durante la sua vita aveva sintetizzato l’osservanza della Toràh, che la tradizione aveva codificato in 613 precetti, nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Mt 22,36-40). Ora ne offre la testimonianza con la sua vita e lo dichiara fondamento essenziale dell’esistenza di quanti crederanno in lui. Credere non è difficile: basta abituarsi a lasciarsi amare da Dio che ci insegna come amare gli altri. Per imparare questa strada che spesso ci appare difficile, è sufficiente spostare l’attenzione da se stessi e metterla sulla relazione con gli altri come fondamento della propria realizzazione: non c’è amore più grande che regalarsi agli altri. Quando il regalo sarà del tutto consumato, troveremo Dio come un premio, senza nemmeno avere fatto la fatica di averlo cercato, perché se c’è un posto dove abita Dio è proprio là dove ognuno di noi ha collocato se stesso per amore e ha trovato gli altri, i poveri e gli esclusi, come sacramento e regalo di Dio. Se abbiamo problemi di fede, non preoccupiamoci di Dio, ma occupiamoci dei poveri abbandonati da tutti e Dio si manifesterà in tutto lo splendore della sua maestà.

Il capitolo 15 di Gv, di cui annunciamo un brano, ha una struttura trinitaria che è la spina dorsale della nostra fede e della nostra vita (e vuole dire struttura di relazione). Nessuna azione nella Chiesa può iniziare senza riferimento alla Trinità: tutta la nostra vita è segnata dalla Presenza della santa Trinità. L’Eucaristia è la Shekinàh/Dimora trinitaria in mezzo a noi come la Dimora lo era nel deserto per gli Ebrei. Consapevoli di avere in noi il sigillo trinitario, proiettiamoci sull’umanità intera che vogliamo assumere con noi.

Esame di coscienza

Ogni Eucaristia inizia con la richiesta di perdono e l’invocazione della misericordia di Dio su di noi: poiché abbiamo coscienza dell’orgoglio di Adamo nel giardino di Èden, noi vogliamo compiere un gesto opposto a quello del patriarca, il quale presumeva di diventare dio di se stesso, finendo per rovinare sé e la sua discendenza. Noi abbiamo un solo Dio e Padre e un solo Signore (1Cor 8,6) dal quale riceviamo consistenza e fondamento. Riconoscersi peccatori è avere il senso delle proporzioni tra noi e Dio; è sapere di essere nati per amare, mentre scopriamo di perdere tempo spesso senza amore. Domandiamoci dunque quale posto occupa nella nostra vita di tutti i giorni il comandamento dell’amore che ci rivela discepoli di Gesù Cristo.

Signore, che ci hai dato il comandamento nuovo dell’amore, perdona il nostro egoismo. Kyrie, eléison!

Cristo, amore crocifisso che offri ancora la tua vita per noi, perdona la nostra avarizia. Christe, èleison!

Signore che hai svelato a Pietro l’universalità della fede, perdona le nostre chiusure. Kyrie, eléison!

Cristo, che ci hai scelti tuoi amici, rendici la gioia di essere il segno della tua amicizia. Christe, èleison!

Dio del cielo e della terra abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e per i meriti del Signore Gesù, che ha dato la sua vita per noi, ci conduca alla vita eterna. Amen!

Spunti di riflessione e preghiera

Il contesto del vangelo è l’ultima cena, durante la quale Gesù fa tre discorsi che abbiamo individuato nell’introduzione al vangelo di domenica scorsa. Siamo ancora nel 2° discorso e il brano di oggi serve da collegamento di passaggio tra l’allegoria della vite e dei tralci (Gv 15,1-8), come espressione di intimità vitale (linfatica), e la dichiarazione sull’amicizia, che è la relazione; tale relazione esistenziale è talmente intima e profonda che per essa si può dare anche la vita (Gv 15,14-17). Il tema centrale è conseguente a quello di domenica scorsa: la comunione che intercorre tra Gesù e i suoi discepoli, ora diventati suoi amici, è sempre a rischio. Come preservare quest’unità affettiva? L’insistenza con cui l’autore insiste sul tema dell’unità/comunione, anche nelle lettere giovannee, è la spia di una realtà drammatica della comunità che vive divisioni e frantumazioni profonde.

Il brano può essere diviso chiaramente in due parti, ciascuna con lo stesso andamento circolare o a chiasma e se si seguono le lettere leggendole in corrispondenza simmetrica (A con A’ e poi B con B’, ecc.), si noterà la relazione tra di esse e specialmente la ricchezza del brano:

Parte prima: Gv 15,9-11

A           9 Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi.

              B     Rimanete nel mio amore.

                      C         10 Se osserverete i miei comandamenti,

              B’    rimarrete nel mio amore,

A’       come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11 Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Il punto di partenza e di arrivo di Gesù è uno: l’amore del Padre entro il quale egli vive e a questo amore ha risposto vivendo il comandamento del Padre (A-A’). Gesù però non si è chiuso in questo amore protettivo e gratificante, egli ha amato i suoi discepoli, cioè ha aperto l’amore del Padre alla partecipazione e condivisione con gli altri. Quando l’amore è vero e profondo non si ha paura di perderlo, ma scoprendolo traboccante, si ha bisogno di regalarlo ad altri.

Da qui l’invito insistente, ripetuto due volte ai suoi, di «rimanere nel suo amore» (B-B’). Non si può restare nell’amore di qualcuno senza un obiettivo chiaro e conosciuto, che diventa così il centro focale dell’intero processo d’amore: osservare il comandamento di chi ci ama per primo (C). Questo comandamento non è una legge o una condizione: è mettere l’altro al primo posto, al secondo, al terzo… all’ultimo posto. In altre parole chi ama vive per la persona amata e attraverso la persona amata. Chi ama non ha più una vita propria, ma una vita mediata, una vita obbligata che passa per la vita dell’altro: «se osserverete i miei comandamenti» (v. 10). Gesù parla di comandamenti al plurale, ma noi sappiamo che il comandamento è uno solo con due facce: amare Dio e in Dio il prossimo, cioè chiunque oltre noi stessi.

Seconda parte: Gv 15,12-17

A        12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi.

           B          13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (= scelta d’amore).

                                   C         14 Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.

           B’        16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda (= amore scelto).

A’       17 Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.

Nella seconda parte si riprende la prima nel tema del comandamento (A-A’), ma con uno sviluppo ulteriore che si consuma in una scelta di amore come dare la vita per gli amici, i quali non sono tali perché si incontrano per strada, ma perché si scelgono come «misura» del proprio amore. L’amicizia è la forma di amore più alta e più pura, molto più alta anche del matrimonio perché in questo c’è un certo interesse, mentre l’amicizia è amore di pura scelta, gratuità assoluta, senza alcun interesse che l’amicizia stessa.

Ecco perché stanno insieme B (dare la vita per gli amici di Gv 15,13) e B’ (non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi di Gv 15,16). L’amicizia è l’amore allo stato di pura scelta, quella dimensione per cui anche dare la vita è secondario in rapporto alla forza della scelta: ti scelgo per te sperando di essere degno di te e all’altezza di te perché tu sei il senso e la dimensione più profonda e più autentica di me. Il centro, l’obiettivo di questo nuovo processo di vita scelta e donata è l’amicizia (C), che esprime il passaggio decisivo: da discepoli/servi l’amore gratuito li trasforma in «amici», perché l’amicizia porta con sé una trasformazione, cambia la natura, e diventa una garanzia per accreditarsi presso il Padre: «Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda» (Gv 15,16).

Nota esegetico-etimologica

Nella Bibbia, il «nome» indica la persona, la sua natura profonda, ed è anche uno dei molteplici «Nomi» di Dio che gli Ebrei usano in sostituzione del nome proprio Yahwèh. In Gen 2 si ha la prova efficace di questa portata: «19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. 20 Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse… 23 Allora l’uomo disse: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà uoma, perché dall’uomo è stata tolta”» (Gen 2,19-20.23). Dare il «nome» a qualcuno, animale o cosa, nella cultura semitica significa avere potere di vita o di morte. Per questo il «Nome» di Dio non può essere conosciuto né pronunciato.

La parola «nome-shèm» deriva dal verbo ebraico «shùm/shìm–mettere/fare» per indicare la corrispondenza tra la parola e la realtà. Quanto all’etimologia, le lingue neolatine lo derivano dal latino «nòmen» che a sua volta risale al greco «Ò-noma» che discende dal sanscrito «nâman» che diventa «g’nâman» per indicare «nominato/famoso». Avere un «nome» significa essere conosciuto [da altri] e quindi avere fama, in quanto individuato.

Nell’amicizia la relazione affettiva ha valore perché esiste, non per quello che si può ricevere o dare all’amico: si ama perché si ama e un amico non esita a dare la vita per l’amico senza chiedere in cambio nulla. Diversa la relazione coniugale, che non è la forma di amore disinteressato, ma esprime un «interesse reciproco»: più i due crescono e più possono maturare nella gratuità fino a raggiungere il livello di amicizia. La vita ha senso perché è il banco di prova e di crescita in quanto in esso ci educhiamo, passando da un egoismo all’altro fino ad arrivare alla logica dell’amore donato senza riserve e senza aspettative, cioè senza chiedere nulla in cambio se non la felicità e il benessere dell’altro.

Ovunque, infatti, c’è un amore «interessato», anche se fosse un interesse nobilissimo, c’è sempre una connotazione di «prostituzione», un dare e avere, un mercato di domanda e offerta. Nel regime di fede, si partecipa all’Eucaristia non per compiere un dovere e assolvere un precetto, che è la forma di prostituzione religiosa, la più abietta, ma per imparare dal comportamento di Gesù, Pane che si spezza senza chiedere nulla in cambio se non di essere consumato «tutto», ad essere «amanti a perdere» amando per amore. In questo senso, veramente, «fuori dell’amore non c’è salvezza».

L’amore è un’attività liberante che trasforma lo schiavo in amico e l’amicizia in gioia (Gv 15,11) perché in essa non c’è alcuna frustrazione: l’amore, infatti, non ha aspettative, se vive di gratuità e quindi non può avere delusioni, ma al contrario trasforma tutte le sfumature di relazione in gioia piena e coinvolgente, senza escludere nessuno: «perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Quando si parla di amore in termini di diritti o di dovere o di reciprocità siamo già fuori da questa dimensione, siamo già vittime di una qualche forma di schiavitù, più vicini alla relazione di prostituzione che non all’amore liberante.

L’amore nasce e si sviluppa solo in un regime di libertà, che contiene in sé una dimensione sacrificale, che non può essere imposta, ma può essere scelta: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Il sacrificio d’amore, che solo le mamme, i papà (un po’ meno) e gli innamorati sanno vivere senza complessi, è lo spazio che libera maggiormente l’amore e l’amicizia perché ci identifica con la natura stessa di Dio che per amore si fa schiavo d’amore (Fil 2,6-8). Se l’amore gratuito è la natura di Dio, per questo diventa il segno distintivo dei figli di Dio (comandamento), attraverso il quale si rende visibile Dio al mondo e a quanti incontriamo. Nessuno ha mai visto Dio, ma tutti possono vederlo e contemplarlo attraverso la nostra vita di testimonianza. Essere nel mondo significa, per i credenti, espandere il comandamento dell’amore che diventa di volta in volta misericordia, accoglienza, soccorso, sostegno, condivisione e collaborazione con tutte le persone di buona volontà, senza distinzione di lingua e nazione. Partecipare all’Eucaristia non è un dovere o un obbligo, ma l’esigenza vitale di nutrirsi della Parola e del Pane perché anche noi, alla scuola del sacramento dell’amore, finita la celebrazione del rito, possiamo ritornare alla vita celebrata e vissuta facendo anche noi come il Signore Gesù: Fate questo in memoria di me!

Liturgia di comunione

[Gesù ha insegnato il «Padre nostro» nella sua lingua materna, parlata da Maria e Giuseppe, la lingua aramaica. La Chiesa primitiva di Paolo e, subito dopo la Chiesa missionaria, l’ha tradotto in greco, e in questa lingua si pregava anche a Roma. Non dobbiamo dimenticare mai che Gesù è ebreo per sempre e noi siamo spiritualmente semiti, così come la Chiesa apostolica è nata in oriente e si è immediatamente aperta alla lingua e alle culture diverse dal giudaismo. Proviamo a pregare il Padre anche nella nostra lingua materna: il Friulano]

Pari nestri che tu ses tai cîi, ch’al sedi santificât il to non, ch’al vegni il to ream, ch’e sedi fate la tô volontât, come in cîl cussì in tiare.

Danus vuê il pan che nus covente, parinus jù i nestris debits, come che ancje nô ur ài parìn jù ai nestris debitôrs; e no sta bandonânus te tentazion, ma liberinus dal mâl.

Ci facciamo voce di tutta l’umanità, consapevoli che ogni volta che preghiamo il Padre qualificandolo come «nostro», impegniamo la nostra fraternità alla accoglienza cosciente e attiva di tutti, senza escludere alcuno in ragione della lingua, razza, religione, cultura e provenienza. Nessuno può invocare Dio come «Padre nostro» se nutre sentimenti razzisti o se definisce qualcuno con l’insulto di «extracomunitario» perché nella Casa del Padre tutti sono «comunitari», cioè figli allo stesso modo, con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La preghiera del «Padre nostro» è l’antidoto contro ogni forma di razzismo, di pregiudizio e di paura, diversamente ci escludiamo da soli dalla universale paternità di Dio. Questo è il grande impegno di civiltà: Dio è Padre di tutti e tutti sono tra loro fratelli e sorelle, senza distinzione di razza, sesso, religione e cultura.

Da san Gregorio Magno, Omelia XXVII sui Vangeli

Essendo le sacre Scritture piene di comandamenti del Signore, perché afferma che l’unico comandamento è la carità: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri”. Non è forse vero che ogni comandamento riguarda unicamente l’amore e che tutti i comandamenti non ne costituiscono che uno solo, dal momento che tutto ciò che viene comandato trova il suo fondamento nella sola carità? Infatti, come i numerosi rami di un albero provengono da una sola radice, così le numerose virtù derivano dalla sola carità. E il ramo di una buona opera non è verdeggiante se non rimane unito alla radice della carità. I comandamenti del Signore sono quindi molti e uno solo, molti per la diversità delle opere, uno solo nella radice dell’amore. E come si debba praticare questo amore, lo lascia intendere lui stesso, quando in diversi passi della sua Scrittura comanda di amare gli amici in lui e i nemici per amor suo. Possiede quindi veramente la carità colui che ama il suo amico in Dio e il suo nemico per amore di Dio.

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