Mensa della Parola: Lv 13,1-2.45-46; Sal 32/31,1-2.5.11; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45
La liturgia di oggi ci propone nella 1a lettura un brano del libro del Levitico, uno dei meno conosciuti della Bibbia, ma che, al tempo di Gesù, i bambini imparavano a memoria per la sua importanza sui riti, le feste, il culto e la purità rituale. Esso ci permette di fare una breve introduzione sulla Bibbia ebraica e greca. Il brano del Levitico, riportato oggi dalla liturgia, non ha una importanza specifica, ma è scelto solo perché nel vangelo odierno si parla di un lebbroso. Si tratta quindi di una connessione esterna, ma anche tematica.
Al tempo di Gesù, e anche prima di lui, qualsiasi malattia della pelle era considerata lebbra, marchio infamante di esclusione dalla vita, perché poneva in uno stato di grave impurità, rendendo inadatti alla vita cultuale e sociale. La malattia era considerata un castigo di Dio a motivo di qualche peccato: in questo modo i sacerdoti del dopo esilio (sec. V a.C.) se ne servivano per gestire e controllare l’ordine morale e sociale. Il lebbroso doveva essere segregato, costretto a vivere ai margini dall’abitato. Chiunque lo avvicinava si contaminava gravemente, diventando inabile al culto anche lui. A questo scopo egli portava un campanelloche avvertisse a distanza quanti potessero avvicinarsi inconsapevolmente. Inoltre, alla vista di qualcuno nelle vicinanze, doveva gridare per metterlo in guardia: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 13,45).
È in questo contesto legislativo sui lebbrosi, vigente al suo tempo, che Gesù si muove, consapevole di quello che fa e, ancora una volta, svelando la sua libertà interiore di fronte alla religione e ai suoi dettami. Per Gesù la religione non è mai stata decisiva: era importante se esprimeva la vita e aiutava a vivere da persone libere; diventava un impedimento se invece schiacciava la persona con i suoi precetti ossessivi. Egli sa ciò che vuole: «E diceva loro: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato”» (Mc 2,27-28).
Nota storico-letteraria
I primi cinque libri della Bibbia ebraica formano la Toràh – Insegnamento. Secondo la tradizione rabbinica, codificata per iscritto nel sec. II-III d.C.; essa si divide in due parti:
la Toràh scritta (ebraico: Toràh she-bi-ktàv - letteralmente Insegnamento che è scritto): ed è la Bibbia scritta.
la Toràh orale (ebraico: Toràh she-be-halpèh - letteralmente Insegnamento che sta sul labbro): è la Tradizione orale che non è contenuta in quella scritta, ma della quale è il prolungamento e lo sviluppo.
Secondo l’insegnamento rabbinico, cioè dei custodi della «Tradizione orale», sul monte Sinai Dio consegnò a Mosè tutta la Toràh, sia quella scritta sulle tavole di pietra, che corrisponde al nostro Pentatèuco, sia quella orale che Mosè imparò a memoria e tramandò al suo successore, Giosuè, il quale a sua volta, la consegnò ai Giudici e questi, come in una catena, di generazione in generazione, la trasmisero ai posteri.
Questa tradizione orale, dal sec. II al sec. VI d.C., fu messa per iscritto dando origine alla Mishnàh – Ripetizione; tutto quello che rimase fuori, ma fu scoperto dopo la formazione della Mishnàh, venne raccolto nella Ghemaràh – Completamento. La Mishnàh e la Ghemaràh insieme formano il Talmùd – Istruzione/Insegnamento, cui deve aggiungersi la Tosephtàh – Aggiunta/Supplemento, che riporta altri commenti dei saggi successivi rimasti fuori dalle raccolte precedenti. Si legge nel primo libro della Mishnàh, nel trattato «Pirqè Abot – Massime dei Padri»:
«Mosè ricevette la Toràh sul Sinai e la trasmise a Giosuè; Giosuè la trasmise agli Anziani (i Giudici); Gli Anziani ai Profeti; e i Profeti la trasmisero ai membri della Grande Assemblea».
In sinagoga la lettura di tutta la Toràh scritta (Pentatèuco) avviene nell’arco di un anno in modo analogo al sistema cattolico che legge tutta la Scrittura in tre anni. Siccome l’anno lungo, composto da 13 mesi lunari, comprende 54 Shabàt – Sabato, la Toràh scritta è divisa in 54 parashòth(porzione/pericope/brano). Negli anni corti, composti da 12 mesi lunari, in alcuni sabati si leggono due parashòth. Ogni parashàh prende il nome, come i rotoli della Toràh, dalle prime parole con cui iniziano.
Nei sec. III-I a.C. la Bibbia ebraica è stata tradotta in greco ad Alessandria di Egitto. In questo primo passaggio da una lingua ad un’altra, gli autori chiamano l’intera raccolta e i singoli libri non al modo ebraico con le prime parole del testo, ma sintetizzando il loro contenuto. Così, tutta la raccolta dei cinque libri che compongono la Toràh ebraica viene tradotta col termine «Pentateuco», composto da «pènte – cinque» e «teûchos – custodia/rotolo» e che significa quindi Cinque custodie/rotoli. I singoli libri in greco si chiamano:
1. Genesi (Gen), perché tratta della Genesi/Origini/Nascita dell’universo, dell’umanità e di Israele;
2. Esodo (Es) perché narra dell’Uscita dall’Egitto;
3. Levitico (Lv) perché contiene le leggi di purificazione per il servizio divino nella tenda e nel tempio;
4. Numeri (Nm) perché inizia con il censimento degli Israeliti che uscirono dall’Egitto;
5. Deuteronomio (Dt), nome greco che significa letteralmente Seconda Legge perché contiene il rotolo ritrovato nel tempio durante la grande riforma del re Giosìa (640-609 a.C.; riforma 621/622 a.C.), detta appunto riforma deuteronomista.
Tutta questa introduzione preliminare per collocare il libro del Levitico di cui la 1a lettura riporta un brano. Come abbiamo visto, il Levitico, (in ebraico: Waykrà – E chiamò) è il 3° nell’ordine del Pentateuco. Esso interrompe la narrazione storica per diventare una trattazione riservata ai sacerdoti di Israele che appartenevano alla tribù di Levi, con le prescrizioni che regolano il culto, il codice di santità e le norme di purità.
La 1a lettura riporta un brano del Levitico e appartiene al gruppo di norme sulla purità; qui si tratta della purità che riguarda la malattia di lebbra (Lv 13-14) da non intendersi come la intendiamo oggi alla luce della medicina moderna.
La 2a lettura continua la 1a lettera ai Corinzi, scritta da Paolo intorno al 53/54 mentre si trova a Efeso dove lo raggiunse un’ambasceria da Corinto per esporgli la situazione drammatica di divisione in cui versava la sua chiesa prediletta. Paolo, esercitando un magistero di autorità rilevante, con questa lettera risponde ai problemi esposti, tra i quali vi è anche la questione della celebrazione dell’Eucaristia. Il brano di oggi riguarda questo aspetto. I Corinzi non mettono in dubbio l’Eucaristia come sacramento (1Cor 10,16), ma fanno difficoltà a connetterlo con la vita: vivono «scollati», separando il rito dalla vita; la storia dalla celebrazione rituale.
Non basta celebrare l’Eucaristia, bisogna vederne anche le ripercussioni nella vita. Se l’Eucaristia fosse solo un atto di culto, anche un ateo potrebbe celebrare. Lo specifico del cristianesimo è la relazione indissolubile tra l’espressione della fede nel rito e la manifestazione testimoniale nella vita ordinaria. Il rito senza la vita è un guscio vuoto, la vita senza la celebrazione comunitaria è senza significato. Se però l’Eucaristia ha una ripercussione sulla vita, è necessaria la fede perché nella vita non si può fingere: «non date motivo di scandalo né ai giudei, né ai greci, né alla chiesa di Dio» (1Cor 10,33). Solo il credente Paolo può proporre se stesso come modello: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 11,1).
Il vangelo avvia a soluzione il tema della 1a lettura perché con l’arrivo di Gesù saltano tutti gli schemi: la società, la religione, le regole, i condizionamenti. La fama di uomo di Dio che guarisce spinge un lebbroso a spezzare la legge della segregazione: è lui che viene a Gesù e lo supplica (Mc 1,40). Egli dovrebbe stare lontano perché immondo e invece si avvicina. Gesù non gli ordina di obbedire a norme ingiuste, ma «è scosso nelle viscere» (Mc 1,41) e, cosa ancora più trasgressiva, lo tocca, diventando anche lui, per legge, «immondo». In questa situazione acquistano un senso chiaro le parole di Gesù dette altrove: vino nuovo in otri nuovi (Mc 2,22): il sabato, cioè le regole, le teologie, le morali non possono essere principi astratti, ma strumenti di liberazioneper la persona perché possa, finalmente libera, incontrare il suo Signore, come abbiamo detto all’inizio, citando il nuovo principio interpretativo di Gesù: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Osservazione rituale
Una sola condizione pone Gesù: fare «legalizzare» la guarigione e quindi il rientro nella comunità umana. Una guarigione, infatti, poteva essere dichiarata ufficialmente solo dal sacerdote che fungeva da notaio per riammettere il guarito nella vita sociale e religiosa. Per questo miracolo non vi sono indicazioni di tempo e di luogo: potrebbe essere accaduto ovunque e con chiunque. Non c’è più la folla, ma solo un incontro personale, forse a causa proprio della lebbra che potrebbe avere indotto la folla a scappare. Gesù è solo con il lebbroso come resterà solo come la donna adultera (Gv 8, 9). I momenti decisivi della vita non possono essere condivisi con la folla, ma devono essere vissuti nella più profonda solitudine, che è la profondità della propria coscienza e la capacità di abitare gli abissi del proprio «io» senza paura e senza angoscia.
Esame di coscienza
Nella tradizione biblica la lebbra è sinonimo di peccato che lacera la pelle dell’anima fino a renderla irriconoscibile. Prendendo coscienza che «per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5), invochiamo lo Spirito Santo perché ci abiliti ad avvicinarci a Gesù fino a farlo commuovere, affinché anche noi possiamo tornare nel mondo e commuoverci davanti ai fratelli e alle sorelle dolenti che incontriamo sul nostro cammino. Per celebrare l’Eucaristia bisogna essere disposti a lasciarsi sconvolgere. Nulla è scontato. Nulla è prevedibile perché noi ci accingiamo a entrare nel cuore stesso di Dio, là dove tempo ed eternità s’identificano e si mescolano. Se veniamo per pagare il pedaggio o per fare un favore a Dio o per comprare la sua protezione, siamo veramente gretti di spirito. Siamo qui per prendere coscienza di tutte le ingiustizie che impediscono alle persone la loro dignità di figli. Siamo qui per travolgere le barriere di ogni tipo: sociali, religiose, etniche, culturali, ideologiche e lasciarci scuotere nelle viscere come Gesù (Mc 1,41) per diventare così imitatori non dell’apostolo Paolo, ma di Cristo stesso (1Cor 11,1). Qualunque sia la nostra condizione, il giudizio che diamo di noi stessi, la fragilità che sperimentiamo, la paura che teniamo nascosta dentro di noi, abbiamo fiducia nel Signore che viene per donarci il suo perdono e renderci trasparenti davanti al suo volto. Mettiamo il nostro affanno sul Signore perché solo lui può sostenerci con la sua misericordia liberatrice (Sal 55/54, 23).
Signore, che sei venuto a chiamare i peccatori e non i giusti alla mensa del regno. Kyrie, elèison.
Cristo, che ti scuoti nelle viscere con la medicina della misericordia verso tutti. Christe, elèison.
Signore, non c’è lebbra che tu non possa mondare e sanare, ascolta e perdona. Kyrie, elèison.
Cristo, che ci guarisci per restituirci la dignità di figli di Dio liberi di amare. Christe, elèison.
Dio santo, che ha annunciato il vangelo di liberazione anche ai lebbrosi, dichiarando così che Dio è il Padre dei piccoli e degli esclusi, per i meriti di Gesù Cristo che non esita a diventare impuro per abbracciare un figlio di Dio, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
Spunti di riflessione e preghiera
Sul racconto della guarigione del lebbroso c’è accordo tra i Sinottici (Mc 1,40-45; Mt 8,2-4 e Lc 5,12-26): appartiene all’attività iniziale del giovane rabbi, si svolge in Galilea, perché immediatamente dopo in Mc 2,1 Gesù «entrò di nuovo a Cafarnao». Lc colloca il fatto addirittura all’interno di una città (Lc 5,12), cosa poco probabile, dato il divieto ai lebbrosi di avvicinarsi ai centri abitati. I lebbrosi, infatti, dovevano portare un campanello legato al piede e se vedevano qualcuno sulla loro strada, dovevano gridare: «Impuro, impuro» (1a lettura, Lv 13,45). È il segno che Lc ha perso il contesto storico degli avvenimenti, perché riporta questo miracolo solo per lo stupore che ha suscitato negli astanti (Lc 5,15).
Mt, invece, molto più attento alla sensibilità giudaica, pone la guarigione del lebbroso fuori della città di Cafarnao, potremmo dire alla porta della città, perché Mt 8,5 puntualizza che solo dopo la guarigione, Gesù entrò in Cafarnao. Mt riporta immediatamente dopo anche un miracolo fatto a un pagano, il centurione romano, di cui guarisce il servo (Mt 8,1-13) e la guarigione di una donna, la suocera di Pietro (Mt 8,14-15). In Mt abbiamo quasi una trilogia di miracoli: un ebreo, un pagano, una donna, cioè tre categorie di disprezzati ed esclusi dalla comunità del popolo eletto.
Nella preghiera del mattino ancora oggi gli Ebrei maschi pregano così: «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, Re dell’universo che hai dato al gallo l’intelligenza di distinguere il giorno dalla notte … Benedetto sei tu, Signore … che non mi hai creato idolatra/pagano … che non mi hai fatto nascere schiavo … che non mi hai creato donna».
La donna, invece, ringrazia Dio come gli uomini per non essere stata creata idolatra/pagana e schiava, ma alla 3a invocazione prega così: «Benedetto sei tu, Signore, nostro Dio, Re dell’universo, che mi hai creata secondo la tua volontà». Per Mt, dunque, Gesù viene a cambiare anche i contenuti della preghiera. Succede anche oggi, quando qualcuno prega Dio per fare morire qualcun altro, per invocare la vendetta o per uccidere in nome di Dio… è segno che anche l’immagine di Dio, la preghiera e la religione di riferimento sono entrate in un abisso di dissoluzione che solo gli uomini sono capaci di predisporre.
Mc 1,41 ci dice che Gesù fu «mosso a compassione», usando il verbo greco che significa «viscere/grembo/ interiore» e deriva dall’ebraico «grembo/utero» con evidente riferimento alla gestazione materna cioè alla parte vitale più interiore della donna, ad indicare un moto generativo, un processo vitale. Non è solo «compassione» nel senso moderno del termine (avere compassione = provare pena) ma impregnarsi dell’altro con una profonda condivisione interiore fino a farlo proprio, nel senso etimologico del termine: «patire con …/insieme», avere lo stesso sentimento e quindi farsi carico della vita e dei pesi dell’altro. Chi può farsi carico gratuitamente e solo per amore dell’iniquità degli altri? Isaia aveva attribuito questo compito di compassione al Servo di Yahwèh e San Paolo lo aveva esteso a tutti i cristiani: «4 Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5 Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dá salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6 Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7 Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. 8 Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo» (Is 53,4-8).
«Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2).
Il sentimento profondo della compassione porta Gesù a «toccare» il lebbroso (Mc 1,41), dove il gesto corporeo esprime la profondità del sentimento spirituale. Luca, che è l’evangelista più attento ai sentimenti interiori di Cristo, in questo caso, non ne fa cenno, mentre usa lo stesso termine per il sentimento del padre verso il figlio minore dissipatore (figlio prodigo: Lc 15,20). Gesù non fa appello alla fede del lebbroso, come invece farà in seguito: si direbbe che è lo stesso Gesù a essere sorpreso dalla guarigione di cui sembra avere una certa paura. Impone il silenzio all’uomo con veemenza perché dice il testo: «e avendoselo scosso» (Mc 1,43) quasi prendendolo per le spalle e scuotendolo con forza per imprimergli l’obbligo del silenzio. Non c’è nulla da fare: più impone il silenzio più i fatti gridano da soli. Come poteva mantenersi segreta la «rivoluzione» che Gesù ha portato, destabilizzando sistemi, ordini sociali, schemi religiosi, strutture di convenienza? Se non parlasse il lebbroso, parlerebbero le pietre (Lc 19,40). Gesù intende guarire l’uomo giacché uomo prima ancora che individuo, religioso o pagano, giudeo o greco: attraverso il suo amore «fisico» egli intende comunicare il sentimento di Dio, che si sente scosso nelle viscere, come una donna partoriente, nei riguardi del suo popolo. Non esiste salvezza spirituale senza guarigione del corpo perché ciò che si salva è la persona nella sua interezza.
Nota filosofico-biblica
Secondo l’antropologia ebraica, l’anima non esiste come entità separata dal corpo: il concetto di separazione e quindi di unione tra spirito e corpo proviene dalla filosofia greca, specialmente da Platone che, mediato dal filosofo ebreo Filone d’Alessandria (circa 30 a.C. - 50 d.C.) prima, e da San Agostino (345-430) dopo, approda al cristianesimo dove raggiunge il vertice della sintesi con Tommaso d’Aquino (1221-1274).
Per il mondo semitico la persona è un tutt’uno armonico perché il corpo è l’estensione dell’anima che così diventa visibile, mentre l’anima è la spiritualizzazione del corpo che diventa così «tempio dello Spirito» di Dio (1Cor 16,19): il corpo è l’anima palpabile e l’anima è il corpo spirituale. Per questo motivo, la mentalità del tempo ritiene la malattia del corpo come espressione di un disordine morale, quindi, guarendo il corpo, Gesù dichiara l’inizio di una nuova era che sarebbe stata contrassegnata dalla «com-passione» di Dio fino al giorno in cui questa presa in carico non raggiungerà il vertice sulla croce, quando Dio stesso proverà sulla sua carne tutta la sconfitta dell’umanità fino al fiele della morte (Mt 27,34).
Il messaggio dell’evangelista è: Gesù viene a dirci che Dio è interessato alla totalità della persona umana che guarisce nell’essere intimo e profondo, stabilendo relazioni di sentimenti unici. Egli mette in moto un processo generativo: non solo si fa carico, ma rigenera l’altro ammettendolo al suo livello e sollevandolo dallo stato di emarginazione dove il «sistema» lo aveva inchiodato. Noi possiamo sperimentarlo nella nostra vita: quando viviamo sentimenti veri di relazioni vitali, noi sperimentiamo un processo di nascita che trasmigra dall’uno all’altro. Quando non ci mettiamo in gioco, ma svolgiamo ruoli, assumiamo atteggiamenti che possono solo essere esteriori e sperimentiamo il vuoto, la delusione, il fallimento, lo smacco.
La preghiera, la vita, l’amicizia, la relazione di coppia, il lavoro, la professione, la solitudine o sono ambiti esistenziali vissuti in pienezza di relazione generante o sono nulla. O sono scelte di «com-passione» o sono atteggiamenti vacui che provocano vuoti e sensi di abbandono. Ciò vale anche per il rapporto che abbiamo con noi stessi: se ci accettiamo con gratitudine, sapremo essere fecondi, anche se siamo soli; se invece non abbiamo compassione di noi e ci riteniamo inetti, inutili, insignificanti e senza senso, non solo pecchiamo contro lo Spirito Santo di cui siamo stati costituiti tempio vivo (1Cor 16,19), ma vanifichiamo la nostra stessa fatica di vivere e la consolazione che quanti incontriamo possono avere da noi. Il peccato grave è pensare di valere nulla perché disprezziamo l’immagine e la somiglianza di Dio in noi, chiamati nel mondo a testimoniare la sua tenerezza e la sua misericordia. Non c’è peccato, impurità o abisso che non possa essere accolto da Dio e trasformato in terra fertile per il regno. Se saremo capaci di inginocchiarci davanti a lui e gridargli dal profondo del nostro cuore (Sal 129/130, 1): «Se vuoi, puoi purificarmi» (Mc 1,40), avremo anche la forza gioiosa di andare per le strade del nostro mondo non solo per dire, ma a vivere ciò che viviamo, a essere il segno visibile della compassione e della tenerezza di Dio. Stenderemo la mano e toccando gli altri compiremo anche i miracoli dell’amore e della fede: «Lo voglio, sii purificato» (Mc 1,41).
È interessante notare che l’evangelista non usa il verbo della guarigione «io guarisco/ristabilisco», ma quello della purificazione «io purifico/rendo pulito», segno che non si tratta di un banale miracolo di guarigione, ma di qualcosa di più grande: restituire un individuo alla sua dignità di persona sociale, nuovamente membro di quella comunità che lo aveva escluso da qualsiasi rapporto civile e religioso.
Questo è il miracolo: restituire «integrità» davanti a chi la nega. Lui stesso ci ha promesso che avremmo anche potuto spostare le montagne, a condizione di mettere in gioco tutti noi stessi (Mt 17,20-21; 21,20-21).
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