Eucaristia: Is 50, 4-7; Sal 22/21,8-9.17-18a.19-20.23-24; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,1-47
Iniziamo la settimana più importante dell’anno, rendendo grazie a Dio che ce ne dà l’occasione e la grazia. La nostra vita, il nostro cuore, i nostri affetti, i vostri figli, le nostre famiglie, i nostri dolori, le nostre gioie, le nostre ansie, i nostri amori, i nostri fallimenti, le nostre malattie, le nostre speranze e anche le nostre paure… tutto oggi è deposto su questo altare che è il nostro villaggio di Bètfage, sulla via di Betània, oltre il monte degli Ulivi, da cui noi partiamo con il Signore Gesù verso Gerusalemme, la città del destino di Dio e del destino dell’umanità perché solo lì possiamo fare esperienza del Risorto ed essere nel mondo donne e uomini di risurrezione e di dedizione. Entriamo, dunque, nel cuore di Dio con il suo aiuto.
Con la Domenica delle Palme inizia la Grande Settimana, che i Padri della Chiesa chiamavano, al modo ebraico, la Settimana delle Settimane ovvero la Settimana per eccellenza. Il punto focale di questa settimana è la notte di veglia del Sabato Santo, perché prendiamo coscienza di essere figli «della madre di tutte le sante veglie» come genialmente la chiamò Sant’Agostino2. È la Settimana della memoria, celebrata nella liturgia perché senza di essa, vertice e fondamento di tutta la liturgia e della vita cristiana, i riti dell’anno liturgico sono sale insipido (Mt 5,13), riti vuoti di una religiosità morta.
Una settimana è solo un pugno di giorni in cui facciamo memoria di quella Prima Settimana in cui tutto «fu consumato», che ha fatto del tempo un’eternità sperimentata e dell’eternità un tempo senza fine. Noi riviviamo oggi i giorni della passione, della morte e della risurrezione del Signore Gesù perché egli si fa nostro contemporaneo e compagno di viaggio, Maestro e cireneo. Oggi, ieri, domani.
I giorni del Triduo Santo, Giovedì, Venerdì e Sabato, sono considerati dalla Liturgia un solo giorno, perché celebriamo un unico evento che chiamiamo «mistero pasquale», espressione sintetica, divenuta una formula catechetica tecnica di fede per descrivere cinque momenti della vita del Signore: la Passione, la Morte, la Risurrezione, l’Ascensione di Gesù e la Pentecoste4. Ognuno di questi momenti rivela un aspetto della vita del Risorto senza esaurirne il contenuto.
Un triduo è uno spazio di tempo per darci l’opportunità di assimilare gli eventi che la liturgia celebra non come atto simbolico, ma come espressione viva e vitale della nostra esistenza. Un solo giorno che inizia il Giovedì Santo con la Cena del Signore5, si estende per tutto il Venerdì Santo per raggiungere il culmine nella veglia pasquale del Sabato Santo, quando facciamo «memoriale» dell’esodo del Sinai e dell’esodo di Gesù, atti fondativi del popolo d’Israele e della Chiesa. Gesù morto e risorto è il nuovo Mosè che rinnova nel suo corpo l’antica alleanza nella prospettiva del Regno di Dio, il nuovo orizzonte dell’unica salvezza di Dio. Attoniti e increduli, nel pomeriggio della Domenica di Pasqua ci ritroviamo in compagnia dei discepoli di Èmmaus: «Resta con noi Signore!» (Lc 24, 29) e «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Il «triduo santo», che si acquieta naturalmente nel giorno di Pasqua, ha ancora bisogno di un supplemento di tempo e di spazio, fino alla 1a domenica dopo Pasqua, «Dominica in Albis – Domenica delle Vesti bianche», come una decantazione, perché è impossibile esaurire tutti i contenuti del mistero pasquale in un solo momento, in un solo tempo. Per tutta l’ottava pasquale, infatti, la liturgia ripete lo stesso ritornello come se fosse il timbro identificativo dell’intero arco temporale, dell’unico giorno: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore». La settimana seguente la Pasqua è segnata dalla bianca veste battesimale indossata dai catecumeni nella santa notte della Veglia. Dismettendola, otto giorni dopo, non si dismette la Pasqua, né la storia vissuta, ma si assume il vestito feriale per profetizzare ogni giorno che tutta la vita e tutto ciò che la compone è respiro pasquale, annuncio di vita, profezia del regno. Entriamo, dunque, nel santuario della Settimana Santa, celebrando il mistero dell’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme.
Nella liturgia si leggono le tre versioni sinottiche del racconto: secondo Matteo (anno A), secondo Marco o Giovanni (anno B), secondo Luca (anno C).
Benediciamo l’ulivo e le palme, simboli visibili dell’accoglienza che il popolo d’Israele fece a Gesù. L’ingresso festoso di Gesù a Gerusalemme avvenne durante la festa ebraica di Sukkôt, cioè delle Capanne, una festa della durata di otto giorni, durante i quali gli Ebrei andavano fuori dell’abitato per vivere in capanne di paglia provvisorie a ricordo dell’esperienza del deserto vissuta dai loro padri dopo l’uscita dall’Egitto9. Al tempo di Gesù in questa festa, caratterizzata da un clima di profonda gioia, si recidevano rami di alberi sia per costruire le capanne sia per fare festa. In essa la liturgia prevedeva il rito dell’intronizzazione del Messia che sfociava nell’ultimo giorno, detto non a caso «La Gioia della Toràh». Accogliendo Gesù, come ci dice il vangelo, il popolo semplice riconobbe in lui il Messia atteso.
Idealmente uniti al popolo cristiano dei primi secoli, andando col cuore sul monte degli Olivi, ascolteremo anche noi la proclamazione del vangelo (Mc 14,1-15,1-47) che narra la passione e la morte del Signore, centro e cuore della vita della Chiesa. Iniziare la Settimana delle Settimane con l’intenzione di giungere alla Veglia di Pasqua, significa entrare nella logica della povertà estrema di Dio che si abbandona nelle mani della violenza degli uomini di potere per svuotare dall’interno il sopruso dei potenti e l’illusione che con la violenza possano governare il mondo. Il racconto della Passione, cuore del Vangelo, nel mettere a nudo l’impotenza di Dio ne svela la sua infecondità. Dio diventa sterile perché tutto lo spazio della sua divinità è occupato dal male del mondo, dalla violenza che domina uomini e donne e dal gemito della terra che è depredata della sua stessa esistenza.
Nel racconto della Passione, noi siamo contemporanei di Cristo che manifesta il volto di Dio legato al mistero del limite umano e, anche se volesse, non può più fare miracoli perché se ne facesse uno soltanto non sarebbe più un Dio incarnato nella fatica e nella fragilità, nel limite e nella contraddizione della vita di ciascuno e della Storia. Da oggi Dio è condannato e anche noi con lui: se vogliamo incontrarci dobbiamo, possiamo farlo nel cuore degli eventi e delle persone che custodiscono il segreto dell’identità di Dio.
Oggi, ascoltando il racconto della Passione, scopriamo anche noi la necessità di fare una scelta di campo: o stiamo dalla parte del Giusto, accusato, condannato e crocifisso o stiamo dalla parte dei malfattori oppressori che uccidono sempre «per il bene del popolo». Sì, ora lo sappiamo, il mondo non si divide più in credenti e non credenti, ma in oppressori ed oppressi, in schiavi e padroni, in giusti e ingiusti. È tempo di decisione perché è giunto il tempo, anzi il «kairòs – occasione favorevole/tempo propizio» della conversione.
Da oggi non abbiamo più alibi per la nostra religione di convenienza: o ci convertiamo alla fede o siamo colpevoli di corruzione del mondo in nome di una religione senza Cristo e senza Dio. Entriamo nel «santo dei santi» del vangelo, segnandoci nel segno della Trinità che nella Passione di Cristo agisce e suscita sentimenti di vita e di verità.
I vangeli sinottici (Mc Mt e Lc) che riportano il racconto dell’ingresso a Gerusalemme a dorso di un asino, simbolo del lavoro nei campi e opposto al cavallo simbolo di guerra, descrivono il fatto dal punto di vista della rispettiva comunità e quindi troviamo differenze in ciascuno. Tutti, però, sono concordi nel mettere in evidenza che è Gesù a muovere eventi e situazioni, a dirigere la sua vita e la sua passione: tutti gli ruotano attorno come pianeti intorno al sole. Gli uomini di potere, religiosi e statali, si affannano attorno a lui, ma egli resta il centro di ogni movimento e ogni fatto. È lui che dirige la storia della salvezza che passa attraverso la sua vita, la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione. Non si lascia trascinare dagli eventi né si abbandona alla rassegnazione.
Idealmente uniti ai cristiani dei primi secoli, andando col cuore sul monte degli Ulivi, ascoltiamo anche noi la proclamazione del vangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Matteo scrive per la comunità di cristiani provenienti dal Giudaismo. Prima di ascoltare il vangelo, però, raccogliamoci in silenzio e preghiamo insieme con tutta la Chiesa universale, benedicendo le palme e gli ulivi, che simboleggiano la festa con cui il popolo accolse Gesù durante la festa di Sûkkot o delle Capanne, inneggiando a lui che riconosceva Messia, inviato da Yahwèh per essere intronizzato come re e porre così fine all’attesa d’Israele.
Commento al vangelo A-B-C dell’ingresso in Gerusalemme
Il racconto dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme è riportato da tutti e tre gli evangelisti sinottici, ripartiti nei tre anni liturgici (A – Mt 21,1-11; B – Mc 11,1-10 [oppure Gv 12,12-16]; C – Lc 19,28-40). Tutti e tre hanno come base il profeta Zaccaria: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9). Il profeta non fa menzione del villaggio di partenza che rivela due opposti: la città santa, Gerusalemme, e l’oscuro villaggio di Bètfage, distanti poco più di due chilometri, l’una dall’altro, sul versante est del Monte degli Ulivi verso Betania. Gerusalemme è il luogo della religione ufficiale, ma anche il luogo del «tradimento» perché in essa si commettono i maggiori soprusi, concordati sottobanco tra il potere politico e quello religioso. Nella tradizione evangelica «i villaggi», dove Gesù si reca e si ferma spesso, durante la sua peregrinazione, sono i luoghi del fondamentalismo religioso, dove si vive di tradizioni e non si accettano facilmente le novità, specialmente se mettono in discussione gli usi e i costumi ancestrali, che risalgono fino a Mosè. In altre parole, nei villaggi, Gesù non ha un gran seguito, perché è guardato con sospetto.
Nel villaggio di Bètfage, i due sono discepoli incaricati da Gesù di trovare «un’asina, legata, e con essa un puledro» (Mt 21,2; Mc 11,2; Lc 19,30). Gli autori, con questo riferimento all’asina e al suo puledro, affermano che Gesù sa quello che fa, perché conosce la Scrittura, nella quale leggiamo come Giacobbe sul letto di morte benedisse i suoi dodici figli. Arrivato il turno di Giuda, colui dal quale prende nome la regione dove si trova sia il tempio sia il villaggio di Bètfage, disse queste parole:
«Non sarà tolto lo scettro del comando di Giuda, né il bastone dai suoi piedi, finché non verrà colui al quale esso appartiene. Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto» (Gn 49,10-11).
Presentandosi come colui che «scioglie» l’asina, Gesù si dichiara il vero figlio di Giacobbe, colui al quale la benedizione del patriarca era diretta. Qui sta il senso del brano: Gesù di Nazareth è il vero discendente di Giacobbe, il Messia che viene per essere intronizzato come tale nella festa di Sukkòt, come il rituale prevedeva. A eventuali obiezioni, i discepoli devono rispondere con parole che sembrano un codice di riconoscimento: «Il Signore ne ha bisogno» (Mt 21,3; Mc 11,3; Lc 19,34). Mai nei vangeli Gesù si attribuisce il titolo di Messia che la comunità gli riconosce «dopo la risurrezione». Nei tre vangeli gli evangelisti, che scrivono tra 30/40 e 100 anni dopo la morte di Gesù, utilizzano un titolo post-pasquale, corrente nelle comunità delle origini, per dare rilievo al gesto di Gesù che scioglie l’asina. Egli è il vero Messia, colui che è atteso da tutto Israele.
Oltre a Giacobbe, che rappresenta la Toràh, i Sinottici citano il profeta Zaccaria, per cui ci troviamo di fronte a due testimonid’eccezione e autorevoli: la Toràh/la Legge e i Profeti, come nella trasfigurazione con la presenza di Mosè ed Elia (Mt 21,5; Mc 9,4; Lc 9,28) attestano che Gesù è il Messia. Per la chiesa di Matteo, Gesù è «il Signore» e il Messia e nella sua persona si compie il senso delle profezie sia della Legge che dei Profeti. Matteo, infatti, modifica il testo. Il profeta invita «la figlia di Sion», sinonimo usato in poesia per Gerusalemme, a «esultare» per accogliere il suo Messia. L’evangelista invece, con «Dite alla figlia», si limita ad annunciare che il Messia è «già» arrivato e bisogna riconoscerlo. C’è anche un altro elemento in questa chiave. Per il profeta il re di Sion/ Gerusalemme che viene è «giusto» cioè un pio ebreo che osserva scrupolosamente la Legge ed è anche «vittorioso».
Il testo ebraico ha il verbo «yashà’» nella forma passiva che significa «portare salvezza/essere salvato», ma anche «essere vincitore/vendicarsi». Matteo elimina questi due termini perché Gesù non è giusto secondo i parametri della religione o del culto e nemmeno è vittorioso su eventuali nemici, o vuole vendetta contro qualcuno. Gesù viene ad instaurare il «regno di Dio» che è un modo nuovo di relazionarsi tra le persone, privilegiando le priorità della convivenza pacifica (asina/puledro) e ponendo attenzione ai «poveri». Egli, infatti, è «mite» che nel testo ebraico è un richiamo esplicito ai poveri della storia che tengono le fila della salvezza del mondo perché fedeli a Dio, al suo vangelo e al Messia pacifico.
Stare seduto su un’asina è esattamente il contrario di stare in sella ad un cavallo: questi era un’arma letale di guerra, quello uno strumento di lavoro che collabora a sfamare i poveri che si nutrono della terra. Qui abbiamo un’opposizione netta tra la violenza del «re vincitore» e la pacificazione del Messia come lo intende Gesù, perché egli «è mite e umile di cuore» (Mt 11,29).
Nel racconto troviamo due tradizioni riguardanti l’uso dei mantelli che sono posti sull’asina e sul puledro come basto e distesi per terra allo scopo di permettere a Gesù, seduto sull’asina, di passarvi sopra. Nella simbologia biblica, il mantello rappresenta la «persona» (2Re 2,13) per cui porre il mantello sull’asina significa aderire totalmente al nuovo progetto di Gesù, riconoscendolo come Messia secondo uno stile diverso da quello di Davide. Stendere i mantelli per terra, invece, era l’usanza che si praticava durante la presa di possesso del regno da parte di un nuovo re, il quale, passando sopra i mantelli, affermava la sua autorità su tutti i suoi sudditi che, distesi in terra (i mantelli) ne riconoscevano la regalità. Qui sta il dramma: la folla vuole essere «schiava», nulla importa della novità di Gesù o del Messia come è inteso da Gesù stesso; essa si sdraia sotto il piede dell’autorità e ne accetta il peso e anche la condanna. Il testo afferma che la folla era «numerosissima» (Mt 21,8) al superlativo per dire che il sentimento e la volontà di schiavitù è universale e diffuso. Questa folla riserva a Gesù lo stesso entusiasmo che avrebbe riservato al re vittorioso, seduto su un superbo cavallo. Per la folla «cavallo» e «asina» sono la stessa cosa, perché non distingue le funzioni e non cerca significati «altri/diversi» da quelli in cui è nata e forse morirà.
Il comportamento della folla è descritto in modo magistrale da Matteo, quasi a volerci mettere in guardia, perché noi che leggiamo oggi non cadiamo nello stesso errore di valutazione, discernimento e di vita. Gesù è quasi prigioniero della folla che «lo precedeva» e di «quella che lo seguiva»; Gesù è in mezzo, come fra qualche giorno starà esattamente «in mezzo» ai due ladroni (Gv 19,18). La folla, che ha circondato Gesù, gli impedisce di proseguire per il suo progetto di vita, perché la folla, tutte le folle, non hanno progetti né speranze, esse vogliono solo un tozzo di pane per oggi, accontentandosi di sbarcare il lunario senza vita e senza passioni.
Gridando «Osanna al figlio di Davide!» (Mt 21,9), la folla finalmente si manifesta per quella che è: vuole un Messia come Davide, cioè forte, potente e vittorioso, non cercano il «Figlio di Dio» che viene su un’asina; la folla vuole un Messia «visibile» e operativo, uno che vada per le spicce e dimostri di saper esercitare il potere su Sion e sul popolo d’Israele. «Osanna» in ebraico significa: «Salva, ti prego!», ma la salvezza che si aspettano è quella della potenza e della magnificenza, rappresentata da Davide, il modello dei re per Israele, non corrispondente però all’ideale di Messia del Figlio di Dio. Non passerà, infatti, molto che la stessa folla griderà con lo stesso entusiasmo: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!» perché «non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,6.15).
Il fatto che tagliassero rami degli alberi è la prova che ci troviamo nella festa di «Sukkòt - Capanne», nella quale si innalzava un trono, in attesa che il Messia lo occupasse. Gesù viene con un’idea nuova e differente di Messia. Non porta vittorie, non porta potere, e men che meno lo esercita, egli porta la vita e una nuova prospettiva di vita.
L’evangelista conclude la sua narrazione con un’annotazione importante. L’ingresso di Gesù in Gerusalemme provoca in «tutta» la città un «sisma/terremoto». La città tutta «fu terremotata/fu scossa dalle fondamenta», ma inutilmente perché la folla, che non vuole aprire gli occhi, si domanda ancora «Chi è costui?» e la risposta non è tra le migliori perché si ferma alle pure apparenze: «è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea» (Mt 21,10-11). Inizia qui la «passione», nel senso di dramma, di Gesù, perché finché non c’è presa di coscienza della propria identità, non può esserci incontro con il Figlio di Dio, nemmeno se viene un terremoto. Occorre uscire fuori da qualsiasi «folla» che c’impedisce di «vedere» e conoscere, per riprendere quell’autonomia dello spirito che ci permetta di gustare la libertà del cuore per essere liberi d’incontrare il Signore e riconoscerlo sul dorso di un’asina perché viene a inaugurare un regno di pace che esige la nostra partecipazione e la nostra responsabilità.
Nota biblica
La lettura della «Passione» costituiva il nucleo centrale del vangelo sia orale sia scritto. Lentamente attorno a esso si sono formate e successivamente aggiunte le altre parti: le cose che Gesù ha detto e ha fatto prima della sua morte e quelle dopo la sua morte e ascensione. Delle prime fanno parte i racconti di miracoli, le parabole e altri insegnamenti, delle seconde la vita della chiesa dopo Pentecoste e specialmente l’azione dello Spirito Santo dal tempo degli Apostoli fino a noi oggi. Ascoltiamo con attenzione, con gli orecchi del cuore, questo racconto che per noi ha la stessa importanza dell’Eucaristia. È il racconto del dramma di Dio che viene a incrociare quello dell’uomo. Siamo immersi nel mistero dell’infamia e dell’imprevedibilità: il mistero della morte di Dio che, come il pellicano, accoglie la morte perché i figli vivano. Noi siamo parte viva di questo racconto e dobbiamo scegliere, mentre lo ascoltiamo, dove collocarci e dove stare: con gli spettatori? con gli apostoli paurosi che fuggono? con i carnefici? con le donne che guardano da lontano? Oppure vogliamo stare con Gesù all’ombra della Croce per raccogliere il suo sangue e conservarlo per le generazioni future?
* I neobattezzati nella veglia del Grande Sabato, per tutta la settimana portavano la veste bianca come simbolo del loro nuovo stato e, finito il catecumenato, entravano nella sperimentazione liturgica che con un termine tecnico si chiama «Mistagogìa». Deriva dal verbo greco “myéō-imparo/sono allenato”, con particolare riferimento alla condizione ambientale: imparare nel silenzio, ovvero allenarsi ai misteri. È una specie d’iniziazione di passaggio: dallo stato di catecumenato a quello di credenti. “I misteri di Dio sono tenuti nascosti non perché siano negati all’intelligenza di chi vuole conoscerli, ma perché siano rivelati solo a coloro che li ricercano” (SANT’AGOSTINO, Sermo 60/A, 1; PLS 2, 472). Famose sono le catechesi mistagogiche di SANT’AMBROGIO di Milano (sec. IV), di CIRILLO DI GERUSALEMME (sec. IV), di TEODORO DI MOPSUÈSTIA (sec. IV-V) e di GIOVANNI CRISÒSTOMO (sec. IV-V), nelle quali gli autori spiegano sia la dottrina che il rito dei sacramenti dell’iniziazione cristiana e le conseguenze di vita che ne derivano.
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