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Immagine del redattoredon Luigi

MARIA MADRE DI DIO

Mensa della Parola: Nm 6,22-27; Sal 66/67,2-3. 5. 6-8; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

 

Nel 1969 Paolo VI dedicò il 1° giorno dell’anno civile a «Maria Santissima Madre di Dio». Dare, infatti, una connotazione marcatamente mariana al giorno dedicato alla «circoncisione» di Gesù non fu indolore perché ricevette le critiche di chi affermava la preminenza cristologica della liturgia che con fatica emergeva da una prassi consolidata di eccessive festività mariane distribuite in molte domeniche dell’anno, a scapito del «mistero pasquale» che nella domenica, «pasqua della settimana», trova la sua appropriata collocazione, come aveva per altro stabilito il concilio.

In questo giorno si celebra il Figlio di Dio nato dalla figlia di Sìon che lo offre al mondo: il Figlio di Maria, circonciso nell’alleanza della Pace (Nm 25,12; 1Mac 8,20.22), il nuovo «nome» della salvezza messianica: il nome «Gesù», in ebraico «Yoshuàh» o in forma più ampia «Yeoshuàh» – alla lettera «Giosuè/Gesù» – significa «Dio è [mia] salvezza». Nel sec. VIII a.C., una trentina d’anni dopo Isaia, un altro profeta, Michèa, sviluppandone il pensiero, aveva parlato misteriosamente di una nascita illustre e salvifica «quando partorirà colei che deve partorire… Egli stesso sarà la pace» (Mi 5,2.4). C’è dunque un pensiero che attraversa il tempo, supera lo spazio e si sedimenta nell’attesa dei popoli. Il Messia viene «Principe della Pace» (Is 9,5) e porta non una serenità esteriore, ma la Pace essenziale, «quella sua» che sta a fondamento della giustizia e della fede testimoniata: «Pace lascio a voi, pace, quella mia, dono a voi. Non come la dona il mondo, io la dono a voi» (Gv 14,27)82. Si tratta non di un sentimento, ma dello «Shalòm» ebraico in tutta la sua pienezza di somma dei beni messianici. Si potrebbe dire che Pace-Eirênē-Shalòm, termine che è la sintesi di tutti i doni messianici, è il Nome stesso di Dio, come lo è della città santa, «Gerusalemme – Yeru-shallà-im», la sede del trono della Shekinàh.

Come credenti, sappiamo bene che la pace non è un dato acquisito in modo definitivo; essa è «un lascito», un testamento che bisogna attuare e custodire, secondo le disposizioni del testatore, un impegno da accogliere e costruire lungo la vita. La pace non è un istinto naturale perché la natura è orientata alla sopraffazione e alla violenza; al contrario, la pace è un comandamento di alleanza, donato e ricevuto, da accogliere, che bisogna seminare e coltivare per il mondo presente e quello futuro. La pace è una costruzione in un cantiere sempre aperto.

Le Beatitudini di Gesù si chiudono con la settima: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9) e che si potrebbe esprimere con «beati i poeti della pace», cioè non solo quelli che agiscono ordinariamente, ma gli inventori delle strategie di pace, coloro che costruiscono e vivono la loro vita strutturata attorno e dentro la dimensione della Pace che, nel contesto del regno di Dio, significa tessere senza mai stancarsi relazioni di Pace. Il verbo «creare», infatti, è un verbo divino perché è usato per l’azione creativa di Dio che, per estensione, diviene anche e coerentemente «invento/immagino/sogno/ tento/progetto», dando l’idea di un cantiere edile più che di una prassi ascetica. Non a caso «i poeti della pace» saranno riconosciuti dagli altri e, infatti, «saranno chiamati figli di Dio», nel senso che sono convocati a una missione profetica (saranno chiamati), perché generati da Dio (figli), avendone la stessa natura. Per la mentalità corrente pace è il contrario di guerra; per la Scrittura questo senso è limitante perché la pace è «uno stato permanente» che esprime la natura di Dio nella vita dei figli di Dio, coinvolgendone la mentalità, la predisposizione, l’anelito del cuore e l’impegno della volontà a «con-creare» con lui l’uomo nuovo, piantato nel santuario di Pace, che è l’umanità del Figlio di Dio, riconosciuto e accolto «Principe di Pace», Pace incarnata egli stesso.

Nota storica

Nel 1968, Paolo VI istituì «La Giornata Mondiale della Pace», da celebrarsi ogni anno al 1° gennaio con tema particolare di riflessione, diverso per ogni anno. Fu un’intuizione che si legava al momento storico, segnato dalla contestazione giovanile, dall’agitazione del mondo del lavoro con scioperi selvaggi, dagli attentati che cominciavano a dilagare su tutto il territorio, sfociati nel terrorismo e nella «strategia della tensione» con l’obiettivo di destabilizzare tutto il sistema istituzionale e sociale. Il papa pensò così di coinvolgere il mondo intero a riflettere sulla china pericolosa che si apriva, per tornare alla politica della razionalità e del pensiero. Oggi bisognerebbe avere il coraggio di chiudere fatti ed eventi vuoti che non dicono più niente, aprendosi ai «segni dei tempi» portatori di nuove esigenze.

Il Capodanno è l’ottava di Natale in cui si celebra la presentazione di Gesù al tempio per il rito della circoncisione, con cui ufficialmente ogni Israelita maschio, ieri come oggi, è inserito per sempre e vitalmente nel popolo d’Israele, attraverso il gesto del taglio del prepuzio del pene che in ebraico è detto «patto/alleanza della circoncisione». Durante il rito il bambino riceveva ufficialmente il nome che avrebbe portato per tutta la sua esistenza. Per gli Ebrei il nome non è un’etichetta, ma l’espressione della natura personale di chi lo porta. Per Gesù fu lo stesso messaggero di Dio, Gabriele, il custode dei segreti di Dio, a indicare il suo nome: «Ieòshua-Giosuè/Iòshua/Gesù», che significa «Dio salva», e descrive la natura e la missione della sua vita (Lc 1,31; 2,21). Questa festa è anche un punto d’incontro con le chiese d’oriente che celebrano con venerazione la Theotòkos/Madre di Dio.

Il titolo Madre di Dio dato a Maria non è presente nella Bibbia. Quasi del tutto assente nei vangeli sinottici, Maria nel vangelo di Gv ha una funzione teologica ed è indicata sempre come «madre di Gesù» (Gv 2,1.3; 6,42; 19,25.26); Paolo non ne parla affatto. La prima attribuzione di questo titolo è di natura popolare, tra il sec. I e il sec. II d.C., quando, dopo la sua morte e quella degli apostoli, si consolidò l’organizzazione della liturgia della Chiesa attorno alle figure significative della storia precedente. Nei primi tre secoli Maria è una figura discreta, quasi inesistente. Con le discussioni e le guerre teologiche e cristologiche che si diffondono in un contesto storico mutato, dovuto al fatto che il Cristianesimo diventa «religione di Stato» era inevitabile che anche la figura di Maria entrasse nell’agone diventando una discriminante di primo piano, come si verificherà nei primi concili che daranno la prima sistematizzazione ecclesiastica in forma dogmatica.

Il concilio di Efeso e la Theotòkos

L’imperatore Teodosio II (401-450), l’11 ottobre 430, convocò il 3° concilio ecumenico che si riunì nella chiesa di San Giovanni, in Asia Minore (attuale Turchia), a Efeso e si svolse dal 22 giugno al 22 luglio del 431. Papa di Roma era Celestino I (422-432) e patriarca di Costantinopoli Nestòrio (381-451). Costui negava la divinità di Gesù e quindi anche la maternità divina di Maria. A Nestòrio si oppose Cirillo di Alessandria (370-444), che rifletteva la teologia del papa di Roma. Gesù è il Figlio di Dio ed è nato da Maria. Il concilio di Efeso rifiutò l’eresia di Nestòrio e approvò il testo di Cirillo, ribadendo la dottrina del concilio di Nicèa (325) che aveva affermato l’esistenza nella persona di Gesù delle due nature, divina e umana, dichiarando di conseguenza Maria di Nazareth «Theotòkos-Madre di Dio». In memoria della dichiarazione di Efeso del 431, Papa Sisto III (432-440) l’anno successivo, il 432, fece edificare una basilica sull’Esquilino dedicata a Maria, Madre di Dio e conosciuta come Santa Maria Maggiore. Essa fu la prima delle chiese erette in occidente e dedicate alla Vergine. In questa chiesa il 1° gennaio di ogni anno si cominciò a celebrare una festa del Natale di Maria che fu la prima festa mariana nella liturgia romana.

L’ottava di Natale coincide anche con l’inizio dell’anno civile che così inizia col genere femminile, sotto la compagnia della Donna di Nazareth, la quale per grazia fu scelta Madre di Gesù e Sorella nostra. Con l’ingresso del Verbo nel mondo il giudizio di Dio è già dato: «che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato» (Gv 6,39). Per gli Ebrei il capodanno è il giorno del giudizio che è sospeso per i «meriti della legatura (Aqedàh) di Isacco. Il capodanno cristiano si apre all’insegna della maternità che offre al mondo «Colui che viene, Benedetto nel nome del Signore» (Sal 118/117,26; Mt 21,9; 23,39, ecc.).

Esame di coscienza

Iniziamo dunque il nuovo anno, ponendolo e ponendoci sotto lo scudo della benedizione di Dio perché come Maria di Nazareth possiamo essere capaci di generare relazioni trinitarie ovunque siamo chiamati a vivere: «Tutti hanno peccato e sono privi della Gloria di Dio» (Rm 3,23). All’inizio del nuovo anno civile invochiamo la Gloria e la Maestà di Dio: regnino sempre su di noi e ogni nostra scelta, ogni nostro pensiero, attività, relazione, respiro, impegno, sofferenza, gioia … tutto sia vissuto, condiviso e amato «per la sua gloria immensa». Che ciascuna e ciascuno di noi in questo anno nuovo viva una vita piena come gloria del Dio vivente (Sal 8,3-5). Chiedendo perdono dei nostri peccati e delle nostre insufficienze, vogliamo «confessare» e riconoscere il Signore come nostro Dio, Creatore e Redentore, alla cui volontà, che cerchiamo con serena coscienza, vogliamo adeguarci e scegliere come fondamento della nostra libertà. L’amore di Dio è l’effusione della sua paternità su di noi affinché possiamo essere padri e madri di coloro che incontriamo. Chiediamo perdono delle nostre insufficienze, dei nostri fallimenti e dei nostri tradimenti, della volontà di fare il bene, mentre invece ci siamo trovati a fare il male. «Confessiamo» che il Signore è il nostro Dio, il nostro Creatore e il nostro Redentore.

Signore, Dio eterno e creatore del tempo, tu ci convochi a darti «Gloria». Kyrie, elèison!

Cristo, ti sei fatto schiavo della Legge per liberarci da ogni schiavitù. Christe, elèison!

Signore, ti sei manifestato ai pastori, esclusi dal tempio perché impuri. Kyrie, elèison!

Cristo, Figlio del Dio vivente, nato da donna, nato sotto la legge. Christe, elèison!

Signore, Figlio della Santa Vergine Madre e figlio del popolo d’Israele. Kyrie, elèison!

Manda su di noi, Signore, il tuo Santo Spirito, che purifichi con la penitenza i nostri cuori e ci trasformi in sacrificio a te gradito; nella gioia di una vita nuova loderemo sempre il tuo Nome santo e misericordioso. Per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore, morto e risorto per noi. Amen!

Spunti per la riflessione e preghiera

Quattro sono i temi importanti di oggi: la benedizione, la circoncisione dell’ottavo giorno, la pace e la donna nel segno della maternità che offre al mondo il Figlio il cui nome è «Principe della Pace» (Is 9,5). Ci limitiamo a fare una sintesi armonica dei quattro temi che centriamo attorno al concetto di «benedizione», molto importante dal punto di vista biblico e forse una scoperta per molti di noi.

La liturgia giudàico-cristiana si conclude sempre con la «benedizione», così come ogni preghiera giudaica si apre sempre con una benedizione a Dio, il «Benedetto» per eccellenza: «Benedetto [sei] tu, Signore…». L’inizio del nuovo anno è posto sotto il segno della benedizione. Allo stesso modo, all’alba della creazione, il primo atto di Dio sulla prima coppia umana appena creata, è la parola di una benedizione: «Dio li benedisse e disse loro: “siate fecondi…”» (Gn 1,28). In queste parole «creative» sono associate benedizione e fecondità: «li benedisse… siate fecondi». È spontaneo chiedersene il motivo che stimola un’altra domanda: che cosa significa «benedire/benedizione». Vogliamo tentare di recuperare una dimensione biblica senza pretendere di esaurire tutta la complessità di significato che questi termini hanno. Ecco il significato di benedire/ benedizione. In ebraico il verbo bārak significa dotare di forza vitale e il sostantivo berākā – forza salutare, vitale. In sintesi: benedire significa trasmettere la propria capacità generativa a un altro rendendolo fecondo. L’azione del benedire è unica, si può dare cioè una sola volta nella vita e non può più essere revocata.

Quando l’Ebreo benedice Dio usa sempre il participio passato passivo “benedetto” perché in Dio la benedizione è uno «stato» permanente della sua persona, mai un augurio: «Sia benedetto!» che indica un compiersi nel tempo. Dio è Benedetto. Sempre. Lui è la benedizione. Quando Dio benedice l’uomo gli trasmette la sua potenza vitale, la sua capacità generativa per renderlo partecipe della sua paternità generante. «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi…”» (Gn 1,28) dove il nesso tra benedire ed essere fecondi, cioè generare è esplicito. Se a questo aggiungiamo che in Gn 1,27 «Creò Dio Àdam a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina lo/li creò», la connessione è definitiva.

Quando l’uomo benedice trasmette tutta la sua energia di vita a colui che è benedetto. Dopo il fratricidio di Abele per mano di Caino (Gn 4,10), dice il testo ebraico: «la voce dei sangui (al plurale) di tuo fratello urlano vendetta a me dal suolo». I sangui! cioè tutte le generazioni future contenute nel grembo di Abele e stroncate da Caino urlano a Dio perché fu-turo e presente sono legati in vita e in morte.

Benedire l’anno nel suo principio temporale esprime la volontà di estirpare ogni intenzione di violenza e di sangue dai rapporti sociali perché benedire significa in questo contesto non solo assenza di guerra (prosperità), ma anche Pace (benessere). Partecipare alla «benedizione» del primo dell’anno vuol dire impegnarsi ad essere uomini e donne costruttori di pace, impegnati a generare la fecondità generativa della vita di cui la donna è l’archètipo originario perché tesse la vita come relazione d’amore. Nessuno, uomo o donna, che fomentino, giustifichino o si rassegnino alla guerra, qualsiasi guerra, può partecipare alla benedizione né può riceverla né può darla. Chi pensa con categorie di guerra è semplicemente sterile, frustrato, inerte e inutile.

In Gn 27 Giacobbe, complice la madre, carpisce con inganno la benedizione al fratello maggiore, Esaù. Il quale Esau, appena se ne rende conto, corre dal padre e implora per sé la benedizione, ma il padre Isacco non può fare nulla perché benedicendo il figlio minore, che per questo resterà benedetto per sempre (Gn 27,33), si è svuotato definitivamente di tutta la sua capacità generativa. Esau supplica il padre piangendo: «non hai conservato per me una benedizione?» (Gn 27,36); «hai dunque una sola benedizione?» (Gn 27,38). Isacco non può più benedire Esau perché ha trasmesso a Giacobbe tutto il suo seme promessa/premessa del futuro. La benedizione/fecondità patriarcale guida la storia della salvezza verso il futuro e viaggia attraverso il figlio minore e non il maggiore. Giacobbe deve scappare dall’ira del fratello Esau, che si sente defraudato; ma prima di partire il padre Isacco lo saluta con queste parole: «Ti benedica Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi» (Gn 28,3). Esse sono l’eco delle parole di Dio creatore: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi…”» (Gn 1,28).

La benedizione come atto che trasmette la vita e la capacità di generarla in ogni relazione umana, comprende due elementi: il gesto dell’imposizione della mano o delle mani e una parola che accompagna e spiega il gesto. Il gesto senza la parola è solo mimica, la parola senza il gesto è solo suono evanescente. È la stessa dinamica della creazione: «Dio disse… e così fu». Parola e fatto: Dabàr/Lògos. La Parola è il senso dell’avvenimento che a sua volta è incarnazione della Parola. Gli avvenimenti della storia personale, di coppia, di famiglia, di comunità e di popolo sono «le parole» con cui Dio parla agli uomini e alle donne di tutti i tempi, mentre la Scrittura ne è il codice cifrato per comprenderne senso e portata, in forza del principio che «Dio parla agendo e agisce parlando». Benedire vuol dire essere in comunione di vita con colui/coloro che ricevono la benedizione; in senso spirituale significa generare colui/coloro che si benedice/benedicono. Altrimenti: chi benedice è responsabile della vita di colui/coloro che benedice. Il nostro tempo è segnato da una sciagura: le parole sono separate dagli avvenimenti e spesso le parole si rincorrono a vuoto approdando a nulla. Si rischia di perdere la parte migliore della vita, se non si riscopre il nesso amoroso e generante tra parola ed evento della vita: è il senso della benedizione dell’esistenza, quell’evento di vita e di amore che ci genera gli uni agli altri per renderci fecondi gli uni per gli altri. La frattura diventa cataclisma, quando sono le guide (genitori, insegnanti, formatori, governanti, deputati, superiori, parroci, vescovi…) a smarrire il raccordo tra parola ed evento, generando incertezza nei loro governati: i sangui degli eventi taciuti urlano a Dio la responsabilità di chi per opportunismo o convenienza non raccorda evento e parola.

Alla benedizione si ricollega anche la circoncisione al «giorno ottavo», perché consiste nell’incisione del prepuzio del pene maschile come segno di appartenenza al «regno di sacerdoti, una nazione santa» che è il popolo d’Israele (Es 19,6). In questo giorno, «otto giorni dopo» si dava anche il nome al neonato, il nome che ne avrebbe espresso la profonda natura per sempre perché il nome non è un’etichetta di distinzione, ma il segno fragile dell’anima interiore. Nel vangelo di Lc, il numero «otto» segna la vita di Gesù: all’ottavo giorno è circonciso (Lc 2,21) e riceve il «nome che è sopra ogni altro nome» (Fil 2,9), cioè Gesù/Iēsoûs/Yehoshuà’; «otto giorni dopo» si trasfigura sul monte (Lc 9,28) e infine risorge (Lc 24,1, dove si usa l’espressione liturgica «nel primo giorno dei sabbati» che è formula per indicare il giorno ottavo). In tutta la tradizione giudaica e patristica il giorno ottavo è descritto come il giorno del Messia.

La festa ebraica di Sukkôt-Capanne durava sette giorni, ma era prolungata di un giorno per completarla con l’ottava assemblea solenne, che aveva una forte connotazione messianica (Zac 14,16), perché si compivano due sacrifici: uno per la remissione dei peccati del popolo e nel secondo si sacrificavano settanta buoi, uno per ogni popolo esistente sulla terra in espiazione per la loro salvezza. È l’espiazione universale di cui s’investirà Gesù sulla croce. Tutto ciò che riguarda Gesù, il Messia, è sempre connesso con il «n. 8» in un rapporto non occasionale, ma salvifico e teologico. Come il 666 è il numero dell’imperfezione assoluta (3 volte 6), così l’888 è il massimo della perfezione perfetta.

Il Midràsh Cantico Rabbà riporta l’elenco dei dieci cantici che segnano la storia della salvezza: «Dieci cantici sono stati detti in questo mondo... Il primo cantico lo disse Àdam… L’ottavo cantico lo disse Davide, re d’Israele, per tutti i prodigi che aveva fatto per lui il Signore; egli aprì la sua bocca e disse il cantico, come sta scritto: «E Davide in profezia cantò la lode davanti al Signore (2 Sam 22,1)». Davide re e pastore immagine, tipo e padre del Messia pastore e redentore, conclude l’ottavo cantico profetizzando il Messia, sua discendenza regale. Nella Bibbia in 2Sam 22,51 l’ottavo cantico si conclude con un riferimento esplicito al Messia: «Al suo cristo/unto, a Davide e alla sua discendenza per sempre». Davide nel Sal 12/11,1 canta al Messia sull’ottava corda dello strumento musicale che accoglie il suo discendente nel volto di quel Bimbo circonciso «quando furono compiuti gli otto giorni» perché assume la missione del Messia salvatore e pastore d’Israele che guida nel mondo futuro, nel mondo dei redenti. È la conclusione della storia. È il ritorno all’Èden dell’«in principio».

Iniziando l’anno civile, entriamo, dunque, nella benedizione di Dio, diventando noi stessi un nome che porta benedizione e fecondità nel segno della Madre che ci insegna come essere fecondi sempre della Parola che si trasforma in rito e del rito che diventa vita, lungo le strade della nostra esistenza, in ogni incontro sperimentato come testimoni risorti di quel Dio-Bambino che oggi diventa benedizione sparsa su noi e davanti al quale noi pronunciamo, benedicendo, il nostro «Amen!» in attesa del nostro giorno ottavo quando entreremo con il Messia nel «regno preparato per noi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34).

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