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Immagine del redattoredon Luigi

PASQUA DI RISURREZIONE

Mensa della Parola: At 10,34.37-43; Sal 118/117,1-2.16-17.22-23; Col 3,1-4; Gv 20,1-9;

 

Da questa notte del «memoriale», appena conclusa, cominciamo a ritmare anche il tempo; infatti, partendo da essa, iniziamo a contare sette giorni fino alla prossima domenica, in cui faremo «memoria» di questa «notte di veglia» e poi altri sette giorni fino alla successiva domenica e così via, di sette giorni in sette giorni, segniamo il tempo della storia con il «memoriale» della Pasqua, formando le tappe verso il regno finale, quando Cristo ritornerà (Lc 21,27; 1Cor 15,28; 2Tim 4,1). In questo modo la domenica diventa «la Pasqua della settimana». Senza la Veglia pasquale noi non potremmo celebrare la Messa della domenica perché somiglieremmo a chi vuole costruire una casa senza un terreno dove poggiare le fondamenta. Di per sé oggi, giorno di Pasqua, non si dovrebbero celebrare Messe perché dovrebbe trionfare solo la Veglia della notte della memoria del più grande memoriale dell’Esodo degli Ebrei e dell’esodo di Gesù, il fondamento del nostro battesimo che costituisce il nostro passaggio del Mar Rosso, secondo il «midràsh» paolino nella lettera ai Corinzi (1Cor 10,1-2; Rm 6,4).

È importante sottolineare che la Messa del giorno, rigorosamente parlando, non è la Messa di Pasqua, ma un prolungamento, quasi una cassa di risonanza del «mistero pasquale» che abbiamo celebrato questa notte. Davanti a noi vi sono gli stessi segni: domina su tutto il «Cero pasquale», simbolo di Cristo «Luce delle Genti», che non tramonta mai; il fonte battesimale dell’acqua, che simboleggia il Mar Rosso e la gratuità dell’intervento di Dio, ma anche, secondo la tradizione biblica, lo Spirito Santo che presiede la risurrezione di Gesù e il nostro battesimo/Esodo.

Dall’esodo alla tomba vuota è un solo cammino: l’esodo è la premessa della Pasqua del Signore. Tutto cominciò in Egitto con un intervento diretto e immediato di Dio che fece la sua scelta radicale, schierandosi dalla parte dei deboli e dei piccoli contro il sopruso dei potenti arroganti, incarnati dal faraone. Nessun uomo o donna può più essere schiavo o schiava sulla terra perché sul monte Sinai la Toràh, «= Insegnamento/Legge» e quindi il Diritto e la coscienza di essere popolo sono stati consegnati definitivamente nel «deserto», un luogo senza proprietari che solo Dio può dichiarare come proprio. Da questo momento ogni individuo ha riconosciuto il diritto alla felicità e alla libertà senza condizionamenti.

A conclusione di un lungo cammino che impiega oltre duemila anni, con la morte di Gesù si annuncia un’èra nuova, perché la morte cede per sempre il passo alla vita. Nel momento in cui siamo liberati dal potere arrogante e assoluto che è la morte, Gesù scompare dalla vista e si sottrae all’esperienza fisica. È il paradosso della Pasqua! Egli è il Lògos incarnato, cioè sperimentabile, visibile, ascoltabile, ma resta il Dio invisibile e sfuggente: una Presenza assente o una Assenza presente (1Gv 1,1-4). Vive in mezzo a noi, muore come noi, ma il suo corpo non c’è più, mentre i teli che lo ricoprivano restano lì al loro posto ad avvolgere il vuoto lasciato dal corpo (Gv 20,5-7). Il Dio cristiano è un Dio presente e, contemporaneamente, assente. È assente perché nessuno può contenerlo e tanto meno possederlo, nessuno può venderlo o comprarlo, sfugge a ogni calcolo e possesso. È presente perché si lascia intravedere nei segni che ne testimoniano la «Presenza»: i teli, le donne e gli uomini che lo hanno visto, le parole che ha detto, i gesti che ha compiuto, la speranza che ha lasciato, specialmente ai poveri e ai derelitti che ha dichiarato «Beati» per il Padre suo. Oggi, dopo la Pasqua, noi possiamo vederlo nei simboli del Pane e del Vino, nella fraternità, e ascoltarlo nella Parola che risuona non più nel deserto (Mc 1,3), ma nella coscienza personale e nell’Assemblea celebrante.

Esame di coscienza

Oggi è «domenica», che è la formula abbreviata dell’espressione latina «Dies dominica», letteralmente «Giorno del Signore», cioè «giorno del Signore risorto». Da oggi, come ci ha comandato Gesù nella cena pasquale, iniziamo a fare «memoria» di lui. L’Eucaristia è solo questo: rinnovare nel tempo «la memoria» del Signore risorto. Per questo la «domenica» deve essere il giorno più importante per il credente perché ognuno di noi diventa la «tenda del convegno/dimora/Shekinàh» dove Dio viene ad abitare. Durante l’esodo nel deserto, Dio abitava in una tenda posta fuori dall’accampamento d’Israele; oggi, con la risurrezione, la santa Trinità abita nel cuore e nella vita di ciascuno, diventando il nostro cuore e la nostra linfa. Animati dallo Spirito del Risorto invochiamo il Signore.

In pace ti preghiamo, Signore, per l’umanità vittima di guerre. Kyrie elèison.

Soccorrici con misericordia e custodiscici, o Dio, con la tua grazia. Christe elèison.

Signore risorto perdona e convertici. Kyrie, elèison!

Cristo risorto, perdona le nostre infedeltà e liberaci da noi stessi. Christe, elèison!

Cristo Signore, aumenta la nostra gioia e alimenta la nostra speranza. Kyrie, elèison!

Il Cristo risorto, Agnello pasquale che prende su di sé il peccato di tutta l’umanità, ci purifichi da ogni male e per i meriti della santa croce, della tomba vuota e della Chiesa e di tutti coloro che nel mondo subiscono violenza anche in nome di Dio, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.

Spunti di riflessione e preghiera

I Vangeli sono una sintetica catechesi sul cammino che fanno gli apostoli per giungere alla comprensione della risurrezione. Nel vangelo della sera di Pasqua, il vangelo del racconto dei discepoli di Emmaus, si vede subito che la struttura è una catechesi sulla celebrazione dell’Eucaristia e come tale dobbiamo considerarlo, senza andare oltre l’obiettivo dell’autore. La delusione e la titubanza dei discepoli approdano alla certezza che Gesù è risorto, alla fine di un cammino di catechesi, che potremmo definire «pedagogico», cioè una misura che riguarda tutti i discepoli di tutti i tempi. In quanto cristiani, noi non crediamo in Gesù, ma sulla parola degli apostoli i quali attestano che Gesù è risorto. La nostra fede non è immediata e diretta, quasi fosse un affare privato tra noi e Dio, ma è mediata dalla fede e dalla testimonianza degli apostoli. Nel credo noi asseriamo: «Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica». Tecnicamente non crediamo in Gesù Cristo, che non abbiamo né visto né conosciuto, noi crediamo negli apostoli, che sono stati i testimoni oculari della persona e della vita di Gesù. La loro fede è fondamento della nostra perché ci appare credibile; allo stesso modo, ci sembrano accettabili le cose che dicono e predicano perché la loro intenzione è farci conoscere Gesù, lo stesso con cui loro hanno mangiato, vissuto e che hanno toccato e visto. Concludiamo che gli apostoli sono persone degne di fede (1Tm 1,15; 1Tm 3,1). Più andiamo avanti e scopriamo il cuore del vangelo, più ci accorgiamo che essi non sono invasati né soffrono di allucinazioni di massa, al contrario li troviamo immensamente umani: entusiasti, deboli, vigliacchi, traditori; un’ordinaria umanità che si è però innamorata di una Persona. In questo la nostra fede è «apostolica».

L’apostolicità della Chiesa è la Grande Tradizione entro la quale nasciamo, viviamo e vogliamo morire, non quella malferma in salute dei fondamentalisti i quali sono convinti, contro ogni logica, che la Chiesa viva solo nel passato, che comincia e finisce nel concilio di Trento e nel Vaticano I. I vangeli di oggi ci insegnano invece a guardare con lo sguardo dello Spirito e a non usare Dio come pretesto per imporre i propri limiti e le proprie insensatezze. La nostra fede è apostolica, ma l’apostolicità si compie nella storia degli uomini e s’incarna in ogni tempo, assumendo la comunicazione, le forme, le parole, e i costumi tipici di ogni tempo e di ogni cultura. Pasqua è «cattolica», cioè universale, e senza preferenze per qualcuno o esclusione di alcuno (Sir 35,15; At 10,34; Rm 2,11; Ef 6,9). Se a Natale Gesù s’incarna nella nostra natura umana e nella nostra storia, a Pasqua siamo noi che c’incarniamo nella natura e nella storia di Dio, perché ne assumiamo la vita – che è il Risorto – come progetto, come compito e comandamento. Riguardo al vangelo di Giovanni (20,1-9) rileviamo quanto segue:

Gv 20,1: Maria di Màgdala e il dubbio.

Gv non dice per quale motivo Maria va al sepolcro, ma in compenso ci dice due cose contraddittorie: «si recò al sepolcro di mattino» e «quando era ancora buio». Considerando il testo greco, «mattino» indica l’albeggiare e quindi c’è luce. Ciò però contraddice l’affermazione seguente «quando era ancora buio». La contraddizione si rileva anche dal fatto che «vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro». In Gv nulla è causale e quindi queste osservazioni non sono fatte a caso, ma devono avere un senso che bisogna scoprire, scendendo nel pozzo profondo del significato di ogni singola parola. Con il termine «mattino» l’autore si riferisce all’evento nuovo, che è paragonato all’inizio di un «nuovo giorno»: la risurrezione di Gesù dà inizio alla nuova creazione, come il mattino dà origine alla nuova giornata luminosa. Al contrario la condizione di «quando era ancora buio» sta a significare che «il principio» della nuova creazione non è ancora ricevuto dall’umanità, qui rappresentata dallo stato di Maddalena che è ancora in cerca di «un morto» perché incapace di uscire da una logica di morte e nonostante sia mattino va a cercare un cadavere: «si recò al sepolcro». Quando poi lo scopre vuoto, si ostina a voler sapere «dove lo hanno posto». Maria Maddalena non è ancora entrata nel mistero del Risorto e quindi non partecipa della luce che albeggia, ma resta nel mondo che è sopraffatto dalle tenebre.

Per Giovanni la Pasqua e la Pentecoste coincidono, perché «l’ora» del Risorto è contemporaneamente quella della morte e quella della Vita che egli dà per sempre nel momento stesso in cui muore: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). Gesù è come Yahwèh che creando Adamo «soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Gen 2,7). Gesù ri-crea l’umanità della nuova alleanza, rappresentata da una donna, la Madre, e da un uomo, il discepolo, la nuova coppia di Adamo ed Eva che ricevono il suo Spirito. Nel giorno di Shabbàt in cui Gesù muore, cessando da ogni lavoro, segue il giorno definitivo che l’autore descrive come «il primo giorno della settimana» (Gv 20,1). Inizia un nuovo tempo, una nuova èra, una dimensione ‘altra’ segnalata dal «mattino» che reca il vangelo della risurrezione. Questo nuovo tempo, però, è ancora nella storia e quindi non è completo, ma in cammino con tutte le contraddizioni della storia stessa e dell’etica umana: è il segno simboleggiato in quel «quando era ancora buio». Si usa il termine «tenebra», che in Giovanni indica tutto ciò che è contrario alla luce della verità della vita (Gv 1,5; 3,19; 6,17; 12,35). Nel sepolcro di Cristo, ancora una volta, si contrappongono la luce e le tenebre, la vita e la morte con cui era iniziato il prologo, creando così un’inclusione tematica nell’intero Vangelo.

Vi è qui un’allusione chiara alla sposa del Cantico dei Cantici: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (Ct 3,1). Maria di Magdala è il simbolo della comunità-sposa che è orfana dello sposo e non sa dove andare, perché priva dell’amore che è il fondamento della vita. Maria è senza «l’amato dell’anima sua», è arida e schiacciata dalla morte, lo cerca nella notte, ma non lo trova perché non è in grado di vedere «il mattino»: va al sepolcro per compiere il lamento rituale che si deve fare entro tre giorni perché per lei Gesù è morto: non va a cercare Gesù, ma a trovare il cadavere di Gesù.

Gv 20,2: Maria non sa dove hanno portato il cadavere di Gesù.

Maria suona l’allarme e va prima da Pietro e poi dall’altro discepolo a portare l’annuncio che Gesù è veramente morto: anche il suo corpo è scomparso e nulla è rimasto di lui. La corsa di Maria è il segno della disperazione: non solo la morte, ma le è negata anche la consolazione del pianto rituale. Lo stesso processo avverrà con i discepoli di Emmaus che sono rassegnati e, infatti, se ne tornano alla loro vita ordinaria, dopo avere sognato il Regno di Dio. La corsa di Maria prima dall’uno e poi dall’altro discepolo è il segno della dispersione che Gesù stesso aveva prefigurato: «vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo» (Gv 16,32). Abbiamo anche un altro indizio importante in questo versetto: Maria «corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava» (Gv 20,2).

Tutte le volte che Pietro e questo discepolo compaiono insieme, Giovanni mette in primo piano sempre l’altro discepolo su Pietro (Gv 13,23-25; 18,15-16). Qui avviene l’inverso, perché Simon Pietro è citato per primo, come vedremo subito. Riguardo all’altro discepolo, il testo greco usa il verbo «philèō» che propriamente è il verbo dell’amicizia: «io sono amico/amo», che si potrebbe e forse dovrebbe piuttosto tradurre: «dall’altro discepolo, quello [di cui] Gesù era amico». Anche di Lazzaro si dice che era «amico di Gesù» (Gv 11,3.11). L’amicizia è la condizione ordinaria del discepolo, infatti l’amico è disposto a «dare la vita» (Gv 15,13-15); quindi si è discepoli se si fa esperienza dell’amicizia di Gesù e si è disposti a dare la vita con e per lui, cioè a sperimentare l’amore senza calcolo, fino alla fine (Gc13,23).

Tre fatti sono rilevati, e rilevanti: la citazione del sepolcro, la pietra del sepolcro e la presenza dell’amico; questi aspetti non possono non richiamare la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,31.38.39.41), dove troviamo gli stessi tre richiami. Maria non dice che la «pietra è tolta», ma che «hanno portato via il Signore», dando così un’ulteriore interpretazione di morte al fatto di trovare la tomba aperta: il termine «Signore» è certamente post-pasquale e quindi indica una coscienza della persona di Gesù risorto ed è anche indice che i vangeli sono scritti alla luce della Pasqua. Per Maria «il Signore» è in balìa di chiunque: un “Signore” impotente. L’autore mette in bocca a Maria il verbo al plurale: «Non sappiamo dove l’hanno posto!», che bene esprime la dispersione e il disorientamento dell’intera comunità schiacciata dalle tenebre della propria convinzione che la morte abbia avuto il sopravvento.

Gv 20,3-4: I due discepoli al sepolcro.

Nei primi 11 versetti di Gv 20 per ben 9 volte si cita il sepolcro (Gv 20,1[2v.].2.3.4.6.8.11[2v.]. L’idea è chiara: ciò che domina tutto è la morte e questa schiaccia la comunità dei credenti. Pietro e il discepolo, di fronte alla notizia di Maria, corrono al sepolcro, cioè vanno a constatare la morte, eppure sanno che è posto in «un giardino/orto» (Gv 19,41) che è simbolo di vita. I due corrono insieme, segno che ambedue hanno Gesù come riferimento della loro vita, nonostante siano distrutti dalla morte ma, mentre corrono insieme, accade qualcosa di nuovo: l’altro discepolo corre più veloce, mentre Pietro resta indietro. Diverse interpretazioni si possono dare di questo fatto. Pietro, che qui viene chiamato solo con il soprannome e non come di solito con il doppio nome «Simon Pietro», rappresenta l’istituzione che non solo è più lenta fino a rischiare di rallentare il cammino della comunità, ma più rassegnata dell’altro alla morte. Perché affrettarsi se è morto e per giunta l’hanno rapito? Ora è veramente tutto finito: è il fallimento totale.

L’altro discepolo, invece, corre più veloce perché in lui c’è l’ansia dell’amico che, anche con il solo desiderio, vorrebbe svegliare l’amico morto, come Gesù fece con Lazzaro (Gv 9,35-36). Chi ha sperimentato l’amore corre più veloce: solo gli innamorati sanno correre veloci anche contro vento, anche contro ogni logica. L’altro discepolo ha il cuore che arde e non può aspettare i tempi della struttura e dell’istituzione. Non si ama a comando, si ama e basta, quando il cuore brucia e non si acquieta. Pietro non sa ancora vedere che la morte è il dono della vita, mentre l’altro discepolo, l’amico, quello che Gesù amava, comincia a capire che la morte è solo l’inizio della vita.

È l’esperienza della Chiesa e di ogni comunità, che per natura tendono a livellare tutti allo stesso piano, allo stesso comportamento, allo stesso obiettivo, allo stesso passo. Spesso le comunità e la Chiesa-Istituzione sono strumenti di morte e non di vita perché uccidono la parte migliore dell’ardore e dell’amore passionale dei figli per imporre loro la mediocrità del banale.

Gv 20,5.7: «Vide i teli ancora là… e il sudario avvolto in un luogo a parte».

Grande discussione su questi oscuri versetti. Che cosa significa che «i teli [erano] posati là» (Gv 20,6)? Erano, infatti, dove dovevano essere. In Gv però nulla è casuale e bisogna essere attenti. Il riferimento ai teli che stanno al loro posto, può significare una cosa sola: essi avvolgono il vuoto, ma non si afflosciano.

Al contrario il sudario che era posto sul capo (non volto) era piegato a parte. Il riferimento immediato è al racconto di Lazzaro, dove Gesù ordina di spostare la pietra, di levargli i teli che lo avvolgevano con il sudario che copriva il suo viso e di renderlo libero (Gv 11,39.44). Qui invece la pietra è già rotolata, i teli non avvolgono Gesù, ma sono al loro posto, cioè sono là come se lo avvolgessero, mentre il sudario invece è piegato da parte. Il sudario è il simbolo stesso della morte e Giovanni tiene a dire che «il sudario che era stato sul suo capo [non sul volto], non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20,7).

Giovanni usa il termine il «lenzuolo/telo». Questo termine è usato due volte dal profeta Osea per indicare la «veste di lino» della sposa che si prostituisce e che Osea, per ordine di Dio, deve ricondurre all’interno dell’alleanza nuziale (Os 2,7.11). Il contesto dunque che Giovanni descrive è quello nuziale, perché Gesù è avvolto nella veste nuziale profumata dell’alleanza e deposto nel sepolcro nuovo, di pietra, cioè incontaminato (Gv 19,40). Le nozze dell’Agnello (Ap 19,7) sono pronte e la morte non ha potere sull’amore.

Il sudario, simbolo della morte, è lontano dal loculo dove era deposto Gesù; esso ora si trova «avvolto in un luogo a parte», come se qualcuno lo avesse tolto dal viso di Gesù e piegato con cura, deponendolo in disparte. È necessario domandarsi cosa sia questo «luogo». Al tempo di Gesù, presso gli Ebrei, era uso comune con l’espressione «Il Luogo» indicare sia la persona di Dio in sostituzione del santo tetragramma, Yahwèh, che non si pronuncia mai per rispetto, sia il tempio di Gerusalemme che è il «Luogo» materiale dove sta la Shekinàh/Dimora». Di conseguenza «il sudario avvolto in un luogo a parte» (Gv 20,7) non può avere altra spiegazione se non che la morte si sia spostata dal sepolcro di Cristo e si sia trasferita nel tempio. In Gv 2,19 Gesù aveva profetizzato: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», da cui emerge con chiarezza il rapporto tra tempio e corpo, morte e vita. Il tempio cessa di essere il «Luogo» della Shekinàh/Presenza e resta solo avviluppato nella morte: la sua funzione è finita. È finita per sempre. I custodi del tempio lo avevano trasformato in «un mercato» (Gv 2,16), estromettendo così la «Gloria di Dio» che vi risiedeva.

Gesù è il custode della «Gloria del Padre» (cf Gv 17,1.4-5), ma uccidendolo si decreta la distruzione totale di ciò che il tempio significava e che adesso non significa più. Vi è una contrapposizione forte tra «i teli posati là» e il «sudario in un luogo a parte». I teli sono il simbolo della veste nuziale, che resta dove è Gesù, il sudario invece si trasferisce sull’istituzione religiosa e l’avvolge nelle spire della morte. Paradossalmente, la morte di Gesù diventa la morte della religione ufficiale che non sa cogliere la novità dell’evento, ma si ripiega su sé stessa per sopravvivere nella morte dei riti.

L’evangelista ci dice che «l’altro discepolo», guardando dall’ingresso, vede come un letto nuziale, simbolo della nuova alleanza feconda di vita, mentre il sudario, che si scopre solo dopo essere entrati, è il segno che Gesù fa parte di un’altra dimensione e ha iniziato la nuova storia del regno di Dio, lasciando la morte in eredità all’istituzione religiosa. Al modo orientale semitico, l’evangelista ci annuncia la novità dell’«ora»: la fine del tempio come espressione della religione ufficiale e la nascita di una nuova umanità che appartiene già al Regno che deve ancora venire.

Gv 20,6.8: «Giunse anche Simon Pietro… entrò anche l’altro discepolo».

Il discepolo che corre veloce arriva per primo al sepolcro spinto dall’amore dell’amicizia, ma non entra, si limita a constatare che il suo cuore non s’ingannava e aspetta Simon Pietro. Si può correre in avanti, si può arrivare primi, ma la constatazione deve avvenire nelle debite forme: è il compito dell’autorità confermare nella fede, rafforzarla e garantirla. È compito del discepolo correre con entusiasmo anche per percorsi non abituali, arrivare primo, ma poi deve fermarsi per essere sicuro di non «correre o aver corso invano» (Gal 2,2). Il problema si pone quando chi ha autorità nella Chiesa si arroga il diritto non solo di convalidare, ma anche di impedire al discepolo più ardimentoso e generoso di arrivare prima, impedendo a chiunque di correre o almeno di andare più veloce. L’istituzione di per sé è «conservatrice», lenta, e impedita dalla prudenza eccessiva che spesso, di norma, uccide la profezia.

L’altro discepolo «vide e credette» (Gv 20,8). Il secondo verbo, «credette», ha valore «ingressivo», cioè di qualcosa che comincia perché accade un fatto nuovo, per cui si dovrebbe tradurre con «vide e cominciò a credere»: la fede comincia dall’esperienza della visione («vide») che è sostenuta da una relazione di amicizia e di amore, cioè da una relazione affettiva («il discepolo che Gesù amava»). A Marta Gesù aveva detto: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?» (Gv 11,40). Ora qui il discepolo, che è amico di Gesù, vede e comincia a credere, cioè inizia a contemplare la Gloria di Dio, «quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5).

Gv 20,9: «Non avevano ancora compreso la Scrittura».

Questo versetto è la conferma che la nostra interpretazione è giusta, anche perché la stessa cosa si ripete con i discepoli di Emmaus: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!» (Lc 24,25). La chiave di lettura è la comprensione di Gesù, della sua e della nostra storia di salvezza: sono le Scritture, senza le quali il cuore diventa tardo e di conseguenza la fede scade in religiosità di maniera. La conoscenza della Scrittura è condizione previa per qualsiasi cammino di fede. Il cristianesimo non è una dottrina, o una morale, o un ideale di vita: esso è solo una Persona che si fa conoscere, amare e vivere: lo si può fare solo attraverso la conoscenza di quello che lui ha detto e fatto, perché «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo». Il giorno di Pasqua ci dà il messaggio evangelico secondo il quale tutti possiamo risorgere se siamo in grado di leggere i segni non già del sepolcro, ma della storia; è questa il nuovo tempio laico dove Dio incontra l’umanità per celebrare un incontro d’amore e di vita: un incontro tra innamorati. In questo contesto la Chiesa deve prendere coscienza di essere un mero «strumento» e non un fine, per cui deve aver cura di non proporre sé stessa, bensì di guidare all’incontro con il Signore. Diversamente sarà anche una struttura scintillante e perfetta, ma sarà pure una prigione di schiavitù e non un sacramento di salvezza, un segno della bellezza di Dio.

 

Rinnovo delle promesse battesimali (sostituisce il Credo)

Rinnoviamo le promesse della nostra fede. Quando siamo stati battezzati eravamo troppo piccoli per avere coscienza della nostra scelta cristiana. Altri hanno deciso per noi: papà e mamma ci hanno trasmesso la fede che a loro volta avevano ricevuto. Ora che siamo adulti e responsabili, spetta a noi alimentarla e renderla adulta e consapevole. Oggi possiamo farlo, ringraziando i nostri genitori per il dono che ci hanno fatto e condividendola con tutti i credenti sparsi ai quattro punti cardinali della terra.

Crediamo in Dio, Padre e Madre, creatore del cielo e della terra? Crediamo.

Crediamo in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria vergine, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre? Crediamo.

Crediamo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? Crediamo.

Questa è la nostra fede. Questa è la fede nella quale siamo stati battezzati. Questa è la nostra fede che ci gloriamo di professare nella e con la nostra vita. Tu, o Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci convochi alla Pasqua sua e della santa Chiesa, ci custodisci nella fede dei Padri e delle Madri per la vita eterna. Amen.

 

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