Mensa della Parola: Gen 15,1-6; 21,1-3; Sal 105/104,1b-2.3-4.5-6. 8-9; Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40 (lett. breve Lc 2,22.39-40)
La domenica dopo Natale è sempre dedicata alla riflessione sulla famiglia di Nazareth che custodisce tre progetti di vita connessi tra loro. La 1a lettura ci riporta all’alleanza di Abramo nel segno della discendenza che nella sconsolata esistenza del vecchio patriarca assumerà il volto e il nome di Isacco, il figlio insperato, l’unico figlio che la natura non poteva garantire, ma che Abramo riceve dalla Parola di Dio in una notte stellata (Gen 15,5; 17,16.19). Abramo e Sara sanno bene che, proprio perché l’hanno concepito e dato alla luce, «quel» figlio non è il «loro» figlio, ma solo il figlio della promessa, cioè della Parola. È la prima volta che nella Bibbia si prende coscienza che la paternità/maternità sono naturali solo «accidentalmente» e che ogni figlio è «figlio dell’alleanza» e quindi figlio adottivo, dato in affido per un certo tempo, passato il quale bisogna restituirlo, cresciuto in età, grazia e sapienza (Lc 2,40).
Nella 2a lettura, l’autore, un anonimo sacerdote giudeo divenuto cristiano, verso la fine sec. I, insegna a leggere il presente innestato nel passato dei patriarchi, ma lanciato verso il futuro. In Esodo, Dio si manifesta come «Io-Sono chi sono stato» (Es 3,14) perché il futuro è sempre dietro di noi. I padri non sono un ricordo di ieri che non c’è più, ma un metodo che insegna come affrontare la vita di fronte alle incognite del futuro. I patriarchi non sono mai stati fermi; essi hanno guardato davanti a loro, intraprendendo vie nuove alla ricerca di una prospettiva e di una speranza che era incognita, ma anche stimolo per non rassegnarsi.
Il vangelo narra il racconto della presentazione al tempio e la duplice profezia di Simeone e Anna. Ora saliamo in pellegrinaggio ideale a Gerusalemme, entriamo nel Sancta Sanctorum della Parola di Dio e riceviamo il Pane della conoscenza che genera in noi la volontà di vivere relazioni costruttive di vita fondate sulla fede nel Cristo risorto. La festa di oggi ha il senso di indirizzarci alla comprensione sempre più profonda del mistero dell’incarnazione. Gesù non fu un bambino prodigio, ma un figlio normale in una normale famiglia. Gesù è uomo veramente. In questa dimensione la presenza di Dio diventa molto umana e vicina alle nostre esperienze. Sapendo che Gesù è nato e cresciuto in una famiglia ordinaria di popolo, possiamo bene immaginarci momenti di vita intimi, forti, tesi, banali, ovvi, densi di sentimenti e anche pesanti. Tutto ciò rende Gesù più accessibile alla nostra esperienza e alla nostra fede. Possiamo anche vederlo e sperimentarlo come Figlio di Dio che guarisce le ferite, rinnovandoci dall’intimo di noi stessi (Lc 5,23), facendoci prendere coscienza che peccato è pretendere di porre in atto le realizzazioni della nostra vita, indipendentemente dal suo comandamento dell’amore.
Esame di coscienza
Signore, Dio-Bambino che sei nato in una famiglia di migranti per necessità. Kyrie, elèison!
Cristo, che ancor prima di nascere fosti ricercato dalla polizia di Erode. Christe, elèison!
Signore, che ci chiedi di instaurare relazioni per la crescita e l’armonia. Kyrie, elèison!
Signore, che sei stato profugo, extracomunitario in cerca di sopravvivenza. Christe, elèison!
Dio nostro che ha preparato una famiglia ad accogliere il Verbo della vita, per i meriti delle sante famiglie di cui la Scrittura tesse le lodi, per i meriti di tutte le oscure famiglie che nella rettitudine e povertà hanno tessuto e ancora tessono la vita del mondo, per i meriti delle famiglie credenti che in quanto tali sono perseguitate nel mondo, per i meriti dei nostri genitori che hanno dato a noi ciò che hanno potuto e come hanno saputo, per i meriti della Santa Famiglia di Nazareth che ha custodito e cresciuto il Figlio di Dio, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen!
Spunti di riflessione e preghiera
Ci soffermiamo sul vangelo che va sotto la denominazione di «vangeli dell’infanzia» perché contengono tutto il vangelo riflesso nel «mistero pasquale. Sono stati redatti non solo dopo la morte e risurrezione di Gesù, ma dopo il resto del vangelo, a conclusione e coronamento di esso. Questi capitoli, proprio perché sono molto tardivi, riflettono meglio la luce, l’intensità e la maturità della fede della Chiesa in Gesù morto e risorto, Messia d’Israele e Signore della Chiesa. Da un punto di vista narrativo si potrebbe dire che «i vangeli dell’infanzia» siano una «anticipazione» del vangelo pasquale. Essi anticipano quello che sarà perché sono stati scritti dopo quello che è accaduto. I vangeli sono scritti per la catechesi e quindi sono opere che hanno uno scopo preciso: suscitare l’adesione di fede in Gesù di Nazareth che loro credono il Messia d’Israele e il salvatore del mondo. Credenti che scrivono per suscitare altri credenti. Ai primi cristiani non interessa di Gesù bambino, perché essi annunciano il Messia, il Figlio di Dio crocifisso e risorto che hanno conosciuto direttamente o mediante gli apostoli. Il cuore del vangelo è il «mistero pasquale» formato da cinque momenti: passione, morte, risurrezione, ascensione e pentecoste.
Quando i vangeli sinottici furono completi come raccolta di documentazione orale e scritta, Mt e Lc aggiunsero due capitoli sulla nascita di Gesù per approfondire il mistero dell’incarnazione del Cristo risorto. I vangeli dell’infanzia, infatti, vivono della proiezione della luce pasquale e senza di essa non hanno senso, restando solo racconti fiabeschi edificanti. Il lettore superficiale si accontenterà dei dati esterni dei «vangeli dell’infanzia» di Luca, mentre il lettore attento andrà in profondità per scoprire che la trama dei primi due capitoli è tutta intessuta con i testi dell’AT, usati secondo lo strumento giudaico di esegesi che si chiama «midràsh», metodo che legge la Scrittura con la Scrittura per scoprire il senso degli avvenimenti. Il racconto della presentazione al tempio è, dunque, un vero e proprio midràsh cristiano della storia di Anna ed Èlkana (1Sam 1-2). Lc vuole offrire anche alcuni indizi perché il lettore possa familiarizzarsi con la divinità di Gesù per cui si riferisce a tre testi ulteriori dell’AT:
a) Ml 3 che descrive la venuta di Yahwèh nel suo tempio;
b) Dn 9 che profetizza la venuta di Dio al compimento delle 70 settimane di anni;
c) 1Re, 8 che descrive la salita dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme per essere deposta nel tempio.
La presenza di questi tre testi svela l’intenzione profonda di Lc che non si limita solo a narrare «fatti», ma avvenimenti che abbracciano tutta la storia: quella di Israele e la nuova che inizia con la nascita di Gesù. Luca riesce ad amalgamare tradizioni giudaiche con la sua personale teologia. Pur non essendo giudeo di origine, tra gli evangelisti è forse quello che non solo cita e si confronta con l’AT, ma ne imita addirittura lo stile e il vocabolario. Il cuore del brano è dato da Lc 2,29-32 che riporta le parole di Simeone: 29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Questi versetti esprimono il nervo della teologia della storia di Lc, evangelista dell’universalità del messaggio evangelico: tutti i popoli sono chiamati a vedere la luce e la gloria di Dio. A Èlkana e a sua moglie Anna, che è sterile, nasce un figlio per intervento divino: Samuele, che è presentato al tempio e consacrato al suo servizio. Nel santuario di Silo, il vecchio sacerdote Eli riceve la consacrazione di Samuele e benedice i genitori. Questo è lo schema dell’AT a cui si riferisce Lc che di proprio aggiunge le tematiche della sua teologia le quali sono: la promessa che si compie, il tempio, l’universalismo della salvezza, il rifiuto di Gesù, la testimonianza di un uomo (Simeone) e quella di una donna (Anna). Il racconto è così concepito:
a) Lc 2,21-24 forma la cornice alla doppia testimonianza che riceve Gesù da parte di Simeone ed Anna (cf Lc 2,25-38).
b) Lc 2,39-40, che accenna al ritorno a Nazareth e alla crescita di Gesù, fa da conclusione.
Come ogni donna ebrea osservante, Maria diventa impura al momento del parto e, trascorsi quaranta giorni, deve presentarsi al tempio per purificarsi in obbedienza alla Toràh (Lv 12,2-8). Con sé porta anche il figlio che, essendo maschio primogenito, è «proprietà» del Signore (Es 13,1-2.11-15; 22,28-29; Lv 5,7). Al compimento del primo mese di vita il bambino doveva essere riscattato con cinque sicli (Nm 47-48; 18,15-16). Lc non cita questa prescrizione del riscatto in denaro, ma la sostituisce con la «presentazione» di Gesù nel tempio del Signore che non era prescritta da alcuna legge. Ci deve essere un significato profondo in questo se insiste sul tema del «compimento» come testimonia Lc 2,21-22: «Quando furono compiuti i giorni prescritti… quando furono compiuti i giorni…» e se d’altra parte non cita il gesto del riscatto «prescritto» dalla Legge e mette in evidenza quello della «presentazione» non previsto dalla stessa Legge. Lc intende trasmettere due elementi:
a) Il compimento del tempo. I 40 giorni dopo il parto, sommati ai nove mesi della gestazione di Gesù (= 9 x 30 = 270) e ai sei mesi che intercorrono tra l’apparizione di Gabriele a Zaccaria nel tempio (= 6 x 30 = 180), formano le 70 settimane di anni (= 70 x 7 = 490) descritte dal profeta Daniele (Dn 9,21-26; Lc 1,26-38). Sommando, infatti, i giorni complessivi si ha il seguente risultato: 40 + 270 + 180 = 490. Con un solo riferimento Lc ci proietta in un contesto di Storia della salvezza che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento: nel gesto di una donna del popolo che ubbidisce alle prescrizioni della Scrittura si compie l’attesa dell’umanità. Nella banale vicenda di una donna che compie un rituale post partum si compie la profezia messianica. Chi porta avanti la storia non sono i potenti, i politici, le caste religiose. La storia è trainata dai poveri e dagli umili, da coloro che per il mondo non contano. Cosa c’è di straordinario in una ragazza ebrea appena quattordicenne/quindicenne che partorisce e che va al tempio per adempiere alla Legge? Nel gesto anonimo di quella ragazza ebrea c’è il mistero del compimento del tempo: l’eternità si salda con il tempo e Dio diventa contemporaneo nostro, mentre noi diventiamo interlocutori storici di Dio. Da questo momento, da quando la ragazza ebrea si reca al tempio, passati i 40 giorni del parto, la storia cambia corso, impercettibilmente, ma anche inesorabilmente. È la storia dei poveri di Yahwèh, gli «’anawim», gli uomini e le donne che vivono la vita e non l’apparenza.
b) Il secondo messaggio è di grande attualità pedagogica: i figli non appartengono ai genitori che li partoriscono, ma sono «proprietà» di Dio che li concede «in affido» col rito del riscatto perché i genitori sappiano che non possono educarli «secondo la loro immagine», ma sono chiamati a servizio dei figli affinché essi possano crescere «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27).
Da questi testi si ricava che la natura «simbolica» della paternità e maternità è quella che esprime meglio la relazione «genitore-figli». Ciò significa anche che i figli hanno il diritto di vedere riflessa l’immagine di Dio nel volto dei genitori. Il figlio/a ha in sé il padre e la madre e per questo deve essere migliore, perché egli/lei solo è in grado di sintetizzare la duplice immagine genitoriale in una sola immagine. E poiché anche il padre e la madre a loro volta sono figli, è l’essere figli dello stesso Padre che li unisce in un’unità profonda e indissolubile. Lc inoltre allude al profeta messianico per eccellenza, che è Malachia, fino al punto che si può fare un parallelo tra le parole di Lc e quelle del profeta.
Nell’apparizione dell’angelo Gabriele che annuncia a Zaccaria la nascita del Precursore (Lc 1,11), Lc interpreta il compimento della profezia di Malachia che prevedeva appunto l’invio di un «angelo/ messaggero» come precursore. Nel brano di oggi, con l’ingresso nel tempio a Gerusalemme di Gesù bambino portato in braccio da sua madre, Lc legge il compimento della profezia dell’apparizione di Dio stesso (Ml 3,1b). Se, nell’annunciazione a Maria, il tempio era stato sostituito con la povertà di Nazareth, ora nella presentazione di Gesù, il tempio occupa tutto il suo valore simbolico di sede della Maestà di Dio. Con la presentazione Gesù entra nel tempio e ne prende possesso. La maestà entra nel santuario e il corpo del bambino presentato dai genitori diventa il «Santo dei Santi». La divinità diventa corpo. Al tema precedente del tempio e dell’apparizione della Potenza, si ricollega il richiamo che Lc fa al trasferimento dell’arca dell’alleanza con l’obiettivo d’assicurare il lettore che «ora veramente Dio è “dentro” la storia». Nell’arca dell’alleanza vi erano i segni della presenza di Dio che avevano accompagnato Israele nel pellegrinaggio del deserto (due tavole di pietra con le Dieci Parole, un’ampolla con un po’ di manna e un’altra con un po’ d’acqua che scaturì dalla roccia [Es 17,6; Nm 20,8-11] e, accanto, il bastone di Mosè). Per Lc, l’arca ora è simboleggiata da una ragazza incinta che nel suo ventre porta in pellegrinaggio Yahwèh stesso per le strade di Palestina (Lc 1,39-46). Maria parte da Nazareth, al nord e si dirige a sud, verso la Giudea: al suo passaggio, Lc descrive grida di «allegria» e «danze liturgiche» (Lc 1,41-45; 2Sa 6,14-21); si ferma tre mesi presso la cugina Elisabetta, come l’arca si fermò tre mesi nella casa di Òbed-Edom(Lc 1,562; Sam 6,11; 1Cr 13,14). Come l’arca fu portata nel tempio di Gerusalemme dopo la sosta in casa di Òbed-Edom, così ora Maria dopo avere sostato da Elisabetta, entra solennemente come una sacerdotessa e consegna il Figlio a Dio suo Padre: Dio prende possesso del suo tempio che ora diventerà solo un simbolo del corpo del Signore (Gv 2,19).
Il racconto è dominato da due figure straordinarie: Simeone, un uomo, e Anna, una donna, quasi a dire che tutto il genere umano è associato alla loro profezia e all’ingresso della salvezza nel tempio, cioè nello spazio della storia. Simeone, che in ebraico significa «Dio ascolta», somiglia molto ai genitori di Giovanni Battista (Lc 1,6) e anche lui scioglie un canto a Cristo «luce» che nel contesto ebraico indica la «Gloria» di Dio stesso (Lc 2,32; Is 40,5; 60,1-3). Nell’economia dell’AT, chiunque avesse visto la «Gloria di Yahwèh», sarebbe morto (Es 19,21; 33,20; Gen 32,31; Dt 4,33; Sap 6,22-33) perché Dio per definizione è «inaccessibile». Lc invece elogia la «gloria di Cristo» perché in lui Dio è visibile, anzi «accessibile», lo si può vedere e toccare (Gv 1,18; 1Gv 1,1-5). Paradossalmente, nel momento in cui Gesù con la fragilità di un bambino entra nel tempio ne modifica anche la finalità: esso, che era considerato eterno, scomparirà insieme al sacerdozio nell’anno 70 d.C. per lasciare tutte le sue prerogative d’intercessione, di perdono, di accoglienza e di purificazione all’umanità del Figlio di Dio. Simeone che aspetta «la consolazione d’Israele» (Lc 2,25), è un richiamo esplicito al libro della consolazione di Isaia (40,1; 66,12-13), che è lo sfondo per l’attesa universale dell’arrivo di Dio, il quale viene a «consolare» il suo popolo. Lc non dimentica di ricordarci che Gesù ha un compito redentivo e quindi pasquale: se Gesù è Dio nella maestà della gloria del tempio di Gerusalemme, nondimeno egli è destinato all’umiliazione e alla morte annunciati dallo stesso profeta Simeone, che vede contemporaneamente tanto la sua morte quanto la salvezza luminosa di Israele (Lc 2,26.30-32). Non può esserci «Presenza di Dio» se non nel mistero della morte che svela il senso della vita e dell’esistente.
L’evangelista Giovanni parlerà di «ora» come sintesi della glorificazione e della morte in croce (Gv 17,1). Gli occhi di Simeone «hanno visto la salvezza» (Lc 2,30), anticipo di quella visione finale quando tutti i popoli potranno accedere alla visione di Dio preannunciata da Is 2,1-5 e che si compirà nel momento in cui il velo del tempio si squarcerà da cima a fondo eliminando ogni barriera tra Dio e la nuova umanità che scende dal monte Calvario (Mc 15,38). La salvezza, vista da Simeone, è «preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti» (Lc 2,31-32) ed è un esplicito accenno al «Servo di Yahwèh», descritto nel 1° carme di Isaia che lo presenta come «luce delle nazioni» (Is 1,1-6). La stessa espressione ritorna: «Io ti renderò luce delle nazioni» (Is 49,1-6). Questo esplicito richiamo al «Servo Sofferente» rafforza e unifica i temi della «gloria» e dell’umiliazionedi Dio fino alla morte violenta che Luca stesso presenterà come «spettacolo», cioè visione offerta al mondo intero (Lc 23,48). Vi è un rimando fedele alla teologia del Servo Sofferente di Yahwèh e la presentazione al tempio del bambino Gesù.
A Natale non si può pensare alla nascita sganciata dalla morte violenta in croce, perché si snaturerebbe il contenuto dell’incarnazione e la si ridurrebbe a fiaba edulcorata utile per addormentare i bambini e per commuovere gli adulti fragili un giorno all’anno. Un altro elemento importante di questo brano è il compito di «segno di contraddizione» del bambino presentato (Lc 2,34), ben lontano dall’immagine di un biondino con i riccioli che l’iconografia tradizionale ha tramandato. Isaia aveva predetto che Dio stesso sarebbe stato «pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case d’Israele, laccio e trabocchettoper gli abitanti di Gerusalemme. Il bambino appena nato deve fare i conti con la «spada» che trapasserà l’anima di sua madre Maria (Lc 2,35), cioè con il giudizio di Dio che comporta il castigo, come aveva profetizzato il profeta Ezechiele (Ez 5,1; 6,3; 14,17; 21,1-22). Il cammino della madre diventa così parallelo a quello del Figlio: trafitta dalla spada, la madre anticipa e prefigura il Messia trafitto dalla lancia che sarà il segno con cui attirerà tutti a sé: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,34.37; Zc 12,10). Si salda così il ministero di essere luce per le nazioni con la vocazione di essere segno di contraddizione, cioè strumento di verifica e di verità per il suo popolo. Dio sorprende sempre e non può entrare negli schemi di chi lo vorrebbe a propria immagine. O farsi un Dio su misura o convertirsi al Dio che viene. Maria è la prima credente che deve fare questa scelta.
Il senso degli avvenimenti lo capiamo sempre dopo, se siamo attenti alla luce che promana da essi. Se capissimo prima, saremmo sopraffatti dalla prudenza e non ci avventureremmo mai sulle ali dello Spirito. La Scrittura, se letta nello Spirito Santo, anticipa sempre la nostra vita, di cui conserva il codice e le coordinate: è sufficiente che non ci attardiamo sulla polvere della superficie della vita nostra, ma sappiamo essere capaci di scendere al livello profondo del pozzo della nostra anima per trovare la dimensione che ci permette di cogliere il mistero della Presenza di Dio là dove s’identifica con il mistero del nostro cuore e della nostra vita d’amore. La figura di Anna è complementare a quella di Simeone perché serve a estendere la simbologia: il bambino è accolto nel tempio non solo dal sacerdote, ma anche da una donna che annuncia quel bambino come «redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,38). Si ha così la rappresentatività di tutto il genere umano: un uomo e una donna, quasi novelli Adamo ed Eva, cioè l’umanità intera accoglie il bimbo presentato e riscattato. Simeone non è sacerdote, ma sia lui sia Anna incarnano il «vero culto del tempio» che è servire Dio in verità e amore. Essi sono posti così in contrasto con gli specialisti della religione(farisei, scribi, sacerdoti). Nelle due figure profetiche, il tempio acquista tutta la sua valenza di «casa di Dio» che accoglie il suo Signore. Essi hanno la funzione di essere corrispettivi alla coppia di Zaccaria ed Elisabetta che profetizzano sul loro figlio Giovanni, il precursore (Lc 1,57-66).
Il brano termina con il sommario narrativo in cui siamo informati del ritorno a Nazareth, segnato dal ritornello sulla crescita che richiama ancora una volta quella di Samuele nel tempio alla scuola di Eli (1Sam 1). Da questo momento si perdono le tracce di Gesù fino a quando, uomo trentenne, ricomparirà sulle vie della «Galilea delle Genti» (Mt 4,15) come rabbì itinerante che predica il «vangelo del Regno». Ci sembra superfluo domandarci dove sia stato o che cosa abbia fatto in tutto questo tempo perché non è indispensabile per la nostra conoscenza di Dio. A noi basta sapere che tutto questo lungo silenzio non è altro che il prolungamento dello «svuotamento» di cui abbiamo appena parlato: un Dio nascosto che impara l’arte di vivere come un uomo qualsiasi per essere uomo alla portata di tutti. Tutta la vita impegnata ad apprendere il mestiere di uomo come tutti gli altri, per prepararsi a servire gli uomini e le donne con un servizio che implicherà il dono della sua stessa vita. Sta qui la serietà di Dio, la «professionalità» del Dio di Gesù Cristo che prima di alzarsi da tavola per lavarci i piedi e regalarci la sua vita, impiega circa trent’anni per imparare il mestiere di servire. Ora e solo ora possiamo comprendere la sua parola: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29) perché «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
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