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Immagine del redattoredon Luigi

SOLENNITÀ DI PENTECOSTE


Mensa della parola: At 2,1-11; Sal 104/103,1ab.24ac.29bc.30.31.34; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27; 16,12-15

 

Indicazioni liturgiche

L’Eucaristia che si celebra intorno ai Primi Vespri di una Solennità o di una semplice domenica, e quindi di sabato sera, non può più essere chiamata «Messa della Vigilia». L’Eucaristia della «Vigilia» è, a tutti gli effetti, la «PRIMA CELEBRAZIONE» del giorno di domenica o della festa ricorrente, perché secondo il calendario ebraico, assunto dalla Liturgia cristiana, il giorno inizia al tramonto del sole e finisce col tramonto del sole successivo. L’Eucaristia del sabato sera è, pertanto, la Messa che inaugura il «Dies Domini».

 

Pentecoste non è solo un’esclusiva degli apostoli e dei giudei-cristiani, ma è un evento. Ora la parola è di nuovo patrimonio di tutti i 70 popoli che abitano la terra. La tradizione giudaica sostiene che sul Sinai, Mosè dovette stare 40 giorni e 40 notti perché Dio ha dovuto scolpire la Toràh scritta sulla pietra e insegnargli a memoria la Toràh orale. Mentre Dio scolpiva, ogni colpo di martello faceva sprigionare settanta scintille, una scintilla per ogni popolo esistente sulla terra.

La torre incompiuta è il simbolo muto di una prevaricazione e di un delirio di onnipotenza: i popoli della terra avevano un solo linguaggio, cioè avevano capacità di comunicazione, ma il loro desiderio di scalare il cielo, gli fa smarrire la dimensione del loro essere e del loro limite: vogliono costruire una torre che giunga fino al cielo (Gn 11,4) cioè che sia vista da tutta la terra e avere così un «nome», una fama immortale. Essi sono i degni figli di Adamo che vogliono essere «come Dio» (Gn 3,5) perché nonaccettano il limite della propria creaturalità e della morte. Il limite dell’uomo è non accettare il limite della morte, ma egli soccombe sempre alla tentazione di Adamo ed Eva di essere come Dio, in agguato in ogni tempo quando un popolo o una persona che perde la cognizione del proprio confine per realizzarsi anche a dispetto di sé, perde «la lingua», cioè la capacità comunicativa con sé e con gli altri.

A Babele, l’impresa è dispersa da Dio con una conseguenza disastrosa: gli uomini non solo non riescono a giungere fino in cielo, ma si smarriscono anche sulla terra, non comunicando più tra loro. L’impossibilità di accedere alla Parola rende morte le parole umane. La parola che è il ponte di congiunzione tra linguaggi e culture diverse ora è motivo di opposizione e incomprensione. Nascono tensione, travisamenti, guerre, aggressioni e sopraffazione (Gn 10). L’uomo che si allontana da Dio si allontana anche dal fratello perché senza la coscienza della paternità si perde anche il senso della fraternità tramutata in inimicizia (Caino e Abele, Gn 4): predomina la rivalità, dilaga la violenza, trascinando con sé anche il creato (diluvio, Gn 6), gli stessi rapporti umani più naturali (sessualità) si trasformano in sopraffazione e strumenti di potere (Gn 3).

Pentecoste è l’antidoto a Babele, anzi ne è l’opposto contrario: il Risorto scioglie il suo Spirito e irrompe sull’umanità introducendola in un nuovo esodo di liberazione dalla schiavitù verso una nuova immersione nella libertà. Ora la Parola di Dio pronunciata dagli Apostoli è intesa e compresa da tutti i presenti: quando si parla di Dio tutti capiscono il linguaggio, anche se non ne conoscono la lingua materiale: ciascuno lo ascolta nella propria lingua, cioè ognuno percepisce di trovarsi davanti ad un evento di cui è protagonista attivo. Chi costruisce torri di Babele costruisce schiavitù, chi vive la Pentecoste del Risorto costruisce unità e costruisce una storia di convergenza e di comunione di popoli.

Ciò è possibile a Pentecoste perché come garantisce il profeta Gioèle: «io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo» (Gl 3,1; At 2,17), cioè su ogni essere vivente e quindi sugli uomini, sulle donne, sugli animali, sulle piante… in una parola sull’intero cosmo creato da Dio, quel cosmo per cui Adamo ed Eva furono creati perché lo trasformassero nell’immagine di Dio creatore (Gn 1,26-27) nel giardino del mondo dove le relazioni interpersonale doveva essere improntate all’insegna della condivisione e non del potere e della prevaricazione. Pentecoste è l’annuncio rinnovato del regno di Dio al mondo intero, ma è anche l’inizio della Chiesa come strumento di questo Regno.

A Pentecoste il Risorto costruisce unità e scrive una storia di convergenza e di comunione di popoli. Gesù risorgendo libera il suo Spirito che irrompe sull’umanità guidandola ad un nuovo esodo di liberazione. Lo Spirito si oppone a Babele come il giorno alla notte: egli è fonte di unità cercata ed elaborata nella condivisione con gli altri che non sono più nemici, ma prolungamento di sé stessi. Lo Spirito restituisce la capacità di linguaggio che non è solo la «Parola» e le parole, ma prevalentemente il principio attivo della comunicazione come fondamento delle relazioni con sé e con gli altri. Lo Spirito impedisce a ciascuno di perdere il contatto con sé e con il proprio io profondo che è la misura di ogni rapporto esistenziale e di vita anche comunitaria. Non si può incontrare Dio se prima non si è incontrato il proprio «io» e la propria consistenza.

Pentecoste è il «vangelo» dell’unità che esprime e manifesta nel mondo il volto di Dio, padre di tutti gli uomini. Non è un caso che nella festa di Shavuôt Settimane, gli Ebrei ancora oggi leggano, insieme ai dieci comandamenti come sintesi della volontà di Dio, anche il libretto di Rut, dove si parla di spighe di grano, ma specialmente dove si narra come Noemi organizza il matrimonio tra la nuora Rut e il parente Bòoz. Rut è una straniera che sposa un israelita, cui darà il figlio Òbed, padre di Iesse che è padre del re Davide della cui stirpe nascerà il Messia, il redentore d’Israele.

Pentecoste celebra non solo le nozze tra Dio e il suo popolo, che ormai è il popolo di Dio ed è formato da tutti i popoli della terra. Nessuno è più straniero nel regno di Dio, ma tutti i popoli hanno diritto di cittadinanza nella casa del Padre. A Pentecoste, i cristiani fanno un esame di coscienza di come si rapportano con i fratelli immigrati, venuti come Rut a spigolare le spighe di grano cadute dalle mani dei mietitori. A Pentecoste, il cristiano prende coscienza che ogni uomo e ogni donna è carne della sua carne e sangue del suo sangue perché solo così l’eucaristia diventa un sacramento, cioè il senso della vita. A Pentecoste noi impariamo a spezzare il pane e a condividere la Parola con tutte le genti, con tutti i popoli che formano l’unico popolo di Dio per il quale Cristo ha dato la vita. A Pentecoste, possa Dio trovarci svegli e pronti a vivere l’avventura cristiana dell’universalità nello Spirito del Risorto.

Il brano del vangelo della Veglia di Pentecoste è tratto Gv 7,37-39 in cui si annuncia l’abbondanza dell’acqua, simbolo dello Spirito e anche di purificazione, che scorrerà senza limiti. È un vangelo complesso e non facile. Il contesto giudaico del brano è la grande festa delle Capanne, in cui si celebrava anche la memoria della roccia che dissetò gli Ebrei nel loro pellegrinaggio nel deserto (Nm 20). Il tema dell’«acqua viva» era già stato posto come centrale nell’incontro di Gesù con la Samaritana (Gv 4,13-15) e qui ora l’evangelista lo sviluppa, identificando «la sorgente di acqua» con lo Spirito: «Questo egli disse dello Spirito…» (Gv 7,39). Alla donna di Samaria, Gesù rivela il compimento del desiderio di Isaia: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte (Is 55,1) e quello più recente della Sapienza: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Pro 9,5-6).

Il «grido» di Gesù, però è simile, ma diverso dal grido della Sapienza, il cui cibo e bevanda non esauriscono la fame e la sete: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,21). Gesù offre «vita eterna, toglie la sete, trasforma in sorgente zampillate», inaugurando con la sua persona e col il suo Spirito dato in abbondanza gli «ultimi tempi», i tempi del compimento e della pienezza dell’alleanza del Sinai. Gesù compie tutte le promesse messianiche, superando ogni attesa perché non si tratta più e solo del rinnovo dell’alleanza, ma della comunione definitiva e vitale con Dio, il cui Spirito ora «in-abita» in ciascuno. L’in-abitazione» è quella che Giovanni chiama «vita eterna» che non ha il significato di opposizione alla vita terrena, ma è sinonimo di «conoscenza»: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3) che Paolo aveva già esplicitato e definito: «conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,19). Da questi testi emerge con chiarezza che per il credente c’è una stretta correlazione tra conoscenza di Dio, conoscenza di Cristo e dono dello Spirito accolto e condiviso in vista della trasformazione del mondo in luogo in cui zampilla la vita eterna.

La 1a lettura del giorno di Pentecoste, tratta da At 2 è comune a tutti e tre gli anni (A-B-C). Essa descrive, in modo scenograficamente plastico, la discesa dello Spirito Santo nella prima Pentecoste del NT come un parallelo della discesa di Yahwèh sul monte Sinai al momento della consegna della Toràh al popolo di Israele. La coreografia cosmica è simile: tuoni, lampi, fulmini e tremore della montagna accompagnò la discesa di Yahwèh sul Sinai (Es 19,16-25), come gli stessi elementi naturali accompagnano la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli (1a lettura). La natura tutta come un corteo regale di accoglienza accompagna i due eventi.

Il brano del vangelo del giorno di Pentecoste è tagliuzzato dal secondo discorso di Gesù dopo la cena, riprendendo il tono e l’andamento del primo (Gv 13-14). Qui Gesù aveva annunciato la sua partenza, determinando uno scompiglio tra i discepoli che lo investono di domande (Gv 13,36; 14,5). Gesù aveva addolcito il dolore del distacco, garantendo che si sarebbero ritrovati insieme «nel» Padre (Gv 14,1-3). Nell’attesa, la separazione e la mancanza fisica sarebbero state compensate dall’amore e dalla conoscenza, garantiti dallo Spirito (Gv 13,33-36 e Gv 14,4-10). Ora nel secondo discorso, Gesù riprende l’annuncio della sua partenza (Gv 16,5), ma questa volta i discepoli non fanno domande perché sono preda della tristezza (Gv 16,6). Gesù si rende conto della tensione pesante e con ironia informa i suoi che forse questo sarebbe il momento di porre domande (Gv 16,5). Anche nel secondo discorso e nel brano di oggi ricorre il nuovo personaggio che è il Paraclito (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1), che, è una parola esclusivamente di Giovanni, tradotto dalle Bibbie con «Consolatore» cui occorre prestare attenzione per approfondirne significato e funzione. Il termine consolatore deriva dal greco «paràklētos paràcleto/ paràclito» che, sia nella tradizione biblica che giudaica ha sempre il significato di intercessore e consigliere.

Nota esegetica

Il verbo base è il verbo «kalèō – io parlo/chiamo». Da questo stesso verbo si forma sia la parola «paràcleto/consolatore» sia il termine «ekklesìa/chiesa». Da questo concludiamo pertanto che «Consolatore/Spirito» e «ekklesìa/chiesa» hanno la stessa matrice, quindi un significato di fondo in comune che definisce anche le rispettive funzioni. In epoca patristica assunse anche il significato più specifico di «consolatore». Il termine greco trasportato in italiano è diventato «Paraclito» assumendo anche il significato logico di «avvocato». In 1Gv 2,1 «Paraclito» è un attributo di Gesù, qualificato come giusto: «se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto». Tutte le altre quattro occorrenze sono riferite allo Spirito Santo come è detto espressamente al v. 26. Nella risposta a questa domanda risiede la comprensione della festa della Pentecoste cristiana.

Lo Spirito Santo è dato in abbondanza ed è dato «a ogni carne» perché tutti devono sapere che Gesù è stato condannato ingiustamente e ha subìto un processo nullo perché basato su false testimonianze (Mc 14, 55-56.59; Mt 26,59-60; Lc At 6,13). Secondo il diritto sia giudaico che romano, il processo deve essere rifatto perché un’ingiustizia giuridica è stata consumata a danno di un innocente. Gesù non può più essere tradotto in tribunale perché egli ora è assente nel corpo e non può essere giudicato.

Questo compito spetta ai discepoli che nel 2° discorso dell’ultima cena, sono messi di fronte alla situazione di odio e di persecuzione cui andranno incontro (Gv 15,18-27; At 8,1; 9,1; 17,5; 1Ts 3,3; Rm 8,18; Fil 1,29; Col 1,24; 1Pt 4,14-16; Gc 1,12; Ap 5,4). La «ekklesìa» è un tutt’uno con il suo Signore perché è la «sposa dell’Agnello» (Ap 21,2.9; 19,7). Cristo è «il capo», la chiesa «il suo corpo» (Ef 3,23; Col 1,18.24). In questo regime sponsale, nel mondo la Chiesa assume il compito di pretendere di essere riconosciuta come «carne» del suo Sposo-capo, esigendo di essere portata nei tribunali, dove, per mandato del Signore, non deve preparare alcuna difesa perché in lei parlerà lo Spirito Santo, il Consolatore/ Avvocato: «Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo v’insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12; Gv 14,26). La Pentecoste ristabilisce la verità riguardo a Gesù, e fa prendere coscienza della missione che diventa ora «testimonianza».

Giovanni, a differenza dei sinottici, pone la Pentecoste nell’«ora della Gloria», cioè nell’ora della morte e glorificazione di Gesù, dove sintetizza tutto il mistero pasquale, compresa Pentecoste che non è più la consegna della Toràh scritta e orale, ma il «dono dello Spirito Santo». Il monte Sinai della nuova alleanza è il monte Golgota della croce di Cristo che diventa il trono/luogo della teofanìa/manifestazione definitiva davanti alla Storia intera, simboleggiata dalla presenza di quattro soldati romani, in rappresentanza del mondo pagano (Gv 19,24), e da quattro donne ebree, in rappresentanza del mondo credente (Gv 19,25). Da questo nuovo monte non scende più un uomo con tavole di pietra, ma vi è innalzato il Figlio dell’uomo che attira tutta l’umanità redenta (cf Gv 12,32) che ora guarda a colui che è stato trafitto (Gv 19,37).

Il brano del vangelo del giorno di Pentecoste (Gv 14,15-26) ha una funzione altamente pedagogica perché intende educare alla relazione come rapporto e non come possesso. Gesù «deve andare via», se vuole che i suoi discepoli vivano da sé la loro vita e imparino a confrontarsi con gli eventi e anche con gli strappi, le separazioni, gli abbandoni e le lontananze. Se Gesù non andasse via, tutto finirebbe con lui e per i credenti non vi sarebbe né storia né vita. Per questo la partenza di Gesù è presentata come una ricchezza di sovrabbondanza: egli afferma come un ritornello ricorrente che torna al Padre (Gv 14,2-3.12; 16,5), avendo concluso la sua missione, affermano così che si nasce a vita per un ruolo o una funzione o un servizio. Se egli non fa spazio, andandosene, non può venire lo Spirito, il Paraclito che a sua volta deve svolgere la sua funzione che non è sovrapposta a quella di Gesù, ma in continuità.

La presenza fisica di Gesù è limitante perché è circoscritta alla geografia e al contatto fisico, l’azione dello Spirito è molto più ampia perché si colloca nella dimensione della conoscenza e della ricerca, di costituisce il perno in forza della sua «dimora» tra i discepoli come testimone e garante della presenza spirituale del risorto (Gv 14,26; 15,26). La missione di Gesù e quella del Paraclito sono speculari, l’una essenziale all’altra in vista dello stesso scopo: guidare gli apostoli a imparare a vivere oltre la presenza fisica e imparare a scoprire e «vedere» la presenza del Signore nella dimensione della fede. Presenza «spirituale» non significa astratta o invisibile in quanto opposto a fisico, ma indica un modo nuovo di essere in un mondo nuovo, generando una modalità nuova di relazionarsi tra le persone per realizzare il «regno di Dio» (Ez 37,11.14-20; 39,28-29).

La funzione educativa che Gesù affida al Paraclito (Gv 16,13), supera quella giudiziaria per ristabilire la verità sulla sua morte (Gv 16,7-11). Gesù, infatti, non ha detto tutto ai suoi amici (Gv 15,15), ma non per questo essi rimarranno all’oscuro perché il compito di spiegare loro il senso degli eventi è proprio dello Spirito. Gli apostoli non posso conoscere la profondità di Cristo se si fermano alla conoscenza carnale, ma devono uscire dal proprio materialismo se voglio realizzare l’orizzonte che ha sperimentato l’apostolo Paolo: «17 Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, 18 siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, 19 e di conoscere l'amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,17-19).

A Pentecoste nasce la possibilità della visione di una nuova storia che nel cammino insieme al Paraclito diventa «teologia della storia» e nella sperimentazione della fede si fa «storia che diventa salvezza» senza fine. Camminare nella storia con questa prospettiva e questa «pedagogia» significa camminare «nel» mondo senza essere «del» mondo (Gv 17,16), vivendo un’avventura non solitaria, ma immersa nella Shekinàh/Presenza del Signore che si è impegnato a sostenerci nel guardare al futuro basato sull’esperienza di fede: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17,20). Andare fuori da questi confini e cercare alleati nel mondo per affrettare i tempi della realizzazione o usare mezzi non spirituali per accorciare le strade della riuscita, è tradire il Signore e il suo Spirito. Su questo si gioca la nostra credibilità e anche quella di Dio e del suo Cristo.

Pentecoste è l’annuncio universale che la potenza di Dio si manifesta nella debolezza del corpo che è la Chiesa, la quale deve essere cosciente di essere solo uno strumento docile al fuoco dello Spirito con il quale incendiare il mondo. Alla luce dei testi della liturgia di Pentecoste (Veglia e Giorno), è facile cogliere l’ecclesiologia missionaria del popolo di Dio: la Chiesa non è fine a sé stessa perché, essendo «inviata», è nell’ordine degli strumenti in quanto, una volta consegnato il messaggio e compiuta la missione, non ha più ragione di esistere. La sua natura finale è di scomparire, come il sale la cui funzione è scomparire e può salare perché scompare (Mt 5,13). Nello stesso tempo, la Chiesa deve avere una struttura agile e snella perché deve essere più vicina alla tenda che si monta e si smonta in un batter d’occhio che alla casa in muratura che resta immobile e inamovibile: la sua natura è pellegrina e ha l’esodo nel sangue. La coscienza dell’«inviata» impedisce alla Chiesa di identificarsi con il Regno di Dio e quindi di cercare bracci secolari che ne supportino la sua presenza nella storia. La Chiesa, nel giorno di Pentecoste, sa di essere solo «un sacramento»: niente di più e niente di meno di un «segnale» che indica la strada senza possederla.

A Pentecoste è la Chiesa che entra a servizio del mondo, non il contrario. Il rapporto tra la Chiesa e il mondo può solo essere un rapporto di servizio. A Pentecoste si rinnova l’alleanza nuova, perché Gesù stesso è l’alleanza eterna il cui Spirito si fa «Consolatore/Avvocato/Difensore» di coloro che accettano di ripercorrere le vie del mondo per convincere gli uomini e le donne di tutti i tempi a farsi trascinare nei tribunali per testimoniare in favore di Gesù il Giusto e per ristabilire la verità dell’umanità che prendendo coscienza del suo errore possa convertirsi ed entrare nel «mistero/verità» della vita che è la persona stessa di Gesù di Nazareth, l’uomo nuovo, il Figlio di Dio, il cui Spirito respira in ciascuno di noi. L’Eucaristia è il momento più alto per la realizzazione di tutto questo progetto: lo Spirito convoca all’azione di grazie del mediatore Cristo, trasformando la dispersione/diaspora in un «con-venire», in Assemblea reale e anche simbolica del desiderio del mondo dell’unità per accedere, attraverso la proclamazione della Parola, alla conoscenza del «piano» di Dio che la Pentecoste compie oggi per realizzare la pienezza dell’amore.

 

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